1.Ci sono studi sociali che hanno esercitato un’influenza decisiva nelle teorie di intere generazioni, e il cui riflesso si propaga alle generazioni successive. Uno di questi è, senz’altro, l’Essai sur le don. Forme et raison de échange dans les sociétés primitives di Marcel Mauss (pubblicato su l’Année Sociologique, serie II, 1923-24). Fondamentale, in questo testo, l’analisi del potlach, il commercio classico dei doni (secondo il materiale etnografico raccolto da F. Boas) esercitato presso alcune tribù della costa americana del Pacifico settentrionale (Tlingit, Tsimshian, Haida, Chinook e Kwakiutl). In verità, più che di vero e proprio scambio, nell’analisi di Mauss, il potlach acquista il significato di una derby, di uno scontro, di un’opposizione, di una concorrenza che produce passioni di odio tra gruppi associati, antagonisti e rivali, volta allo sperpero delle risorse, alla dissipazione e alla distruzione rituale dei beni. Ed in questa veste ambigua guadagnava anche il valore di un «sistema di funzioni totale di malessere morale», capace di arrotolare la vita materiale delle comunità primitive in una immagine emblematica e paradigmatica; soprattutto per la primitività mass-mediatica di cui parla M. McLuhan negli Strumenti del comunicare (1964). Ci si affronta come in una battaglia: ognuno tentava di superare in generosità l’altro, fino alla mortificazione e l’odio dell’avversario.
Ecco ciò che, in sintesi, comprendiamo dalla lettura di Mauss: i gruppi che si reggono nel potlach sono sempre annodati tra loro da uno spirito che soffia tra incompatibilità e sostegno. Si stabiliscono i legami in un clima di sventolata ostilità: nella contesa si comunica l’alleanza, che può esser tale solo al prezzo di una sfida rinnovata. I clan si alleano (decretano vincoli) nello spazio di una paradossale ‘solidarietà insolidale’ e offrono fede, religione e credenza sui generis al loro ‘patto’, solo attraverso una pratica di rancore. Il principio di odio diventa la regola stessa della reciprocità. Lo spirito di altruismo va di pari passo con la sfida, la provocazione e il risentimento: tutto ruota intorno ad una gara di generosità, che assume spesso i toni di una vera e propria guerra. Si fa strada, allora, una nuova possibilità interpretativa, che Mauss coglie perfettamente e di cui indovina la portata sovversiva: la nozione di donazione, nella sua paradossalità, rappresenta la riconduzione di una violenza strutturale e distruttiva all’ambito sociale, una violenza che si organizza nei termini di una lotta il cui fine non è l’appropriazione di ricchezze, ma la conquista di un bene sociale e simbolico: il credito, la popolarità, il successo, la fortuna e il consenso. L’odio, il conflitto, non sono fuori della società (in un presunto stadio ‘naturale’), ma al suo interno. Se si considera, dunque, l’importanza che Mauss ha accordato agli elementi della rivalità e del conflitto (caratteri distintivi del potlach), se si considera il rilievo dato alla guerra come struttura sottesa nell’odio sociale, non v’è da stupirsi se la sua antropologia abbia offerto altre chiavi di lettura alla critica d’arte e alla pratica situazionista più avveduta.
Nel 1937 George Bataille, Michel Leiris, Roger Caillois e un piccolo gruppo di intellettuali (alcuni dei quali allievi di Mauss) diedero vita al Collège de Sociologie. La continuità con il pensiero di Durkheim (la stessa denominazione del Collège suggerisce la tradizione durkheimiana), specialmente per la centralità accordata al problema del sentimento dell’odio, trovava però un punto di rottura nell’attenzione riservata dai membri del gruppo al fondo violento e conflittuale della vita sociale (come sua verità essenziale), alla contesa dell’antagonismo (Caillois) e alla ribellione (Bataille), tutti temi, come si è visto, che rimandano al fenomeno etnologico dell’odio. Il Collège de Sociologie era, in effetti, frequentato da un pubblico disparato che comprendeva, tra gli altri, Jean Wahl, Jules Monnerot, Jean Paulhan, Pierre Klossowski, Walter Benjamin e Alexandre Kojève. Proprio alla ‘lezione filosofica’ sulla Fenomenologia dello spirito di Kojève (all’inizio degli anni trenta del secolo scorso) si deve, secondo Bataille, un’interpretazione dallo spirito hegeliano del fenomeno dell’odio, perché si giunge a svelare il senso della violenza sociale originaria come dono snaturato; o meglio, si viene a svelare una coincidenza tra l’azione distruttiva che fonda l’odio come legame sociale effettivo e la ‘negatività’ hegeliana intesa come motore dell’esistenza umana nella sua realtà storica. Su questo piano, sempre per restare su Kojève (e su quanto seguirà in Bataille), la questione della rivalità nel potlach poteva essere affrontata dal punto di vista dell’illusione e della magia, della dépense come elemento centrale per l’attribuzione dei poteri e l’esercizio dell’odio e della forza.
La ripresa degli studi etnologici del Saggio sul dono di Mauss offriva, per esempio, ad antropologi come Pierre Clastres la possibilità di considerare l’agonismo, la lotta, il conflitto, la guerra e l’odio nei termini di un’opposizione, o dualità non dialettica e non mediata dal potere politico coercitivo e separato dello Stato, e a sociologi come J. Baudrillard di ripensare il sociale sotto il segno dell’odio, della sfida, del duello, della reversione, del simbolico (caratteri già segnalati da Mauss nei suoi studi sul potlach). Il bollettino, distribuito dal 1954 al 1957, è l’organo di informazione dell’Internazionale Lettrista, che confluirà nell’Internazionale Situazionista e produrrà nel 1959 il trentesimo numero (n. 1 della nuova serie). Ala estremista del movimento lettrista, l’I.L. affonda le sue radici in ambito estetico (la poetica della lettera, il cinema senza immagini, propugnato da Isou fin dal 1946), spingendosi poi verso una critica del comportamento, un urbanismo influenzale, la tecnica dei rapporti e degli ambienti attraverso il libero gioco delle passioni, tutti temi di partenza dell’I.S. verso un cambiamento radicale della società ed una critica dell’odio perpetrato nelle pratiche dell’industria culturale. Il movimento artistico-politico dell’I.S. viene al mondo il 28 luglio 1957 durante un convegno a Cosio d’Arroscia (Imperia) che sancisce la fusione tra alcuni dei più radicali gruppi artistici europei: l’Internazionale Lettrista, il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista e il Comitato psicogeografico di Londra. Lo scopo primario dell’I.S. è quello di fondere arte e vita in un progetto rivoluzionario unitario di critica dell’odio e della competizione nell’industria culturale. Fra le espressioni vitali a cui i situazionisti tentano di riallacciare la vita quotidiana, la pratica del gioco contro l’odio è oggetto di una particolare attenzione, tanto che tutte le pratiche artistiche situazioniste riunite nel concetto di “urbanismo unitario” (pittura industriale, deriva, psicogeografia, détournement) si basano sulla critica serrata dell’industria culturale e del fondamentalismo competitivo.
La tematica della esautorazione dell’odio nel contro-potlach era già stata affrontata da Guy Debord ai tempi dell’Internazionale Lettrista (1952-57), come testimoniato da un articolo del 1954, in cui si leggeva: «Non dobbiamo domandare soltanto pane, ma derisioni e critica dell’agonismo avversivo». Con la nascita dell’I.S. la “critica dell’odio cultuale” assume però una maggiore centralità teorico-pratica, come si nota già dal primo numero di “Internazionale situazionista”. La caratteristica di base della nuova pratica rivoluzionaria proposta dall’I.S. è la scomparsa di ogni elemento concorrenziale a vantaggio di una concezione collettiva della pratica culturale, che nasce dalla creazione comune degli ambienti ludici e anti-avversivi.
Amnesty International Italia ha recentemente pubblicato il Barometro dell’Odio 2024, un rapporto sommario che esplora come il “diritto di protesta” e le persone che fanno attivismo sono rappresentate nel discorso pubblico. Questa settima edizione del rapporto, intitolata “Delegittimare il Dissenso”, fa risaltare le sfide che affrontano coloro che tengono in esercizio il diritto di protesta, sia online che offline. Per quanto riguarda i temi più colpiti, il rapporto evidenzia che le questioni della giustizia climatica, dell’odio culturale e dei diritti economici e sociali sono spesso associati a commenti problematici sui social media. Su Facebook, la giustizia climatica è presente nel 33,5% dei post sul diritto di protesta, mentre i diritti economici e sociali sono presenti nel 14,4% dei casi. Anche l’immigrazione (2,3%) e i diritti delle donne (2,2%) sono temi che generano un alto numero di commenti problematici. I bersagli dell’odio online sono le donne e le persone con background migratorio. Seguono la comunità Lgbtqia+, le persone indigenti e i portatori di una simbolicità artistica differente. Questi gruppi sono spesso oggetto di attacchi mirati, che variano dall’offensivo all’incitamento esplicito al disprezzo. Il rapporto analizza anche come le opposizioni sono rappresentate nei media tradizionali. È emerso che le proteste sono spesso narrate in modo distorto, con un’enfasi sui presunti danni piuttosto che sulle motivazioni alla base delle manifestazioni. Questo approccio tende a delegittimare le ribellioni, criminalizzando le azioni degli attivisti, così come i soggetti con maggiore potere politico nel sistema dell’arte tendono ad emarginare la libera ricerca e la libera circolazione della conoscenza artistica e culturale. I telegiornali delle principali reti nazionali mostrano differenze significative nel modo in cui raccontano i dissensi, con alcune reti che enfatizzano maggiormente gli aspetti negativi rispetto ad altre. Inoltre, viene rivelato che i temi della giustizia climatica e dei diritti economici e sociali, quando associati al diritto di malcontento, generano una maggiore quantità di contenuti problematici. Questo riflette una narrazione che tende a delegittimare e criminalizzare le proteste su questi argomenti, ostacolando un dibattito pubblico costruttivo e facendo avanti una sorta di “regime nero”. Il disegno di legge governativo 1660 presenta disposizioni repressive di stampo fascista che non esitiamo a definire caratteristiche della strategia dell’odio diffuso. Il governo, come un cilindro compressore, rade al suolo lo strumento della libera dissidenza, delle associazioni, del sindacalismo, dell’ampia galassia eretica. Perfino l’Osce, l’organizzazione per la sicurezza in Europa, ha scritto, manifestando grande preoccupazione: la maggior parte di queste disposizioni edifica la logica di distruzione dei principi fondamentali della giustizia penale e dello Stato di diritto. Questo disegno di legge da “Stato di polizia” trova, infatti, le sue radici nella volontà verso la “corsa al riarmo” e la “ridiffusione di un clima di odio sparso”. È una logica ordoliberista dell’economia dell’odio. Lo Stato sociale perisce, smantellato dallo Stato penale. Una tendenza che non nasce certo oggi, ma è sulla scia di direttive di ostilità culturali e politiche e si innesta nella nuova strategia della tensione, in un programma in cui le forze reazionarie di governo alzano il tiro contro il popolo e contro i libertari. Il percorso della garanzia di “sicurezza” diventa iperplasia penalista, con “formati oppressivi” e decreti eccessivi, per impedire proteste legittime e abolire conflitti. Vi è, inoltre, una saldatura tra poteri politici-militari e informazione: tutte e tutti hanno indossato l’elmetto della guerra e della diffusione dell’odio. Questa legge è trascurata (o, in parte, gradita) dai partiti dell’opposizione parlamentare, che non capiscono che si tratta di un vero e proprio salto di fase: la nuova dimensione del disprezzo, dell’avversione diffusa e dell’ostilità pubblica è una macchina da guerra. Perché si sta mostrando un’associazione a delinquere tra controllo della costruzione sociale e ordine fiabesco della sicurezza, che genera sia uno “modo di essere ispettivo” che un “consorzio del controllo”, cioè il qui pro quo tra statualità e cittadinanza. Il neoliberismo autoritario e ostile alimenta il populismo penale e, anche sul piano delle strutture istituzionali, produce una logica bellica. Il capitale privato così come l’amministrazione dell’industria culturale, la pubblica amministrazione e l’editoria, o le forme di produzione culturale di regime, sono pervasi da una vera e propria architettura di vigilanza. Non a caso cresce una miriade di imprese specializzate nel mercato dell’ispezione sicuritaria e di diffusione dell’odio sociale: riconoscimento facciale, sorveglianza biometrica, emarginazione totale dell’editoria della dissidenza, chiusura degli spazi espositivi per gruppi sperimentali e realtà alternative, ecc. In sostanza, con la collaborazione della dittatura fiscale, stiamo pagando per farci dominare e per farci mettere uno contro l’altro.
Con il voto alla Camera sul ddl 1660 si approva il primo obrobio legislativo per le seguenti norme: a) Il blocco stradale e quindi gli scioperi diventano reato penale con condanne fino a 2 anni di carcere; b) le proteste in carcere o nei Cpr possono essere punite col carcere fino a 20 anni; c) idem per chi protesta contro le grandi opere; d) Anche la “propaganda” delle lotte è punibile fino a 6 anni, essendo considerata “terrorismo della parola”; e) Fino a 15 anni per resistenza attiva; f) Fino a 4 anni per resistenza passiva (nuovo reato, ribattezzato “anti-Ghandi”); g) Facoltà per forze dell’ordine di detenere una seconda arma personale al di fuori di quella di ordinanza e al di fuori del servizio; etc … . Il DDL 1660 sembra dunque usare la leva penale per tratteggiare un nuovo assetto dei rapporti tra Autorità e consociati, veicolando un chiaro messaggio: legge e ordine, chi protesta, chi è marginale, chi non pratica ginnastica d’obbedienza domani rischierà ben più di ieri. La maggior parte delle sue disposizioni ha il potenziale di minare i principi fondamentali della giustizia penale, dello stato di diritto e della serenità sociale. Rancore politico e culturale: il brutto sentimento che acceca e paralizza tutti quanti: spaventati, incattiviti, pieni di livore e senza prospettive. L’immagine che disegna gli italiani e l’industria culturale è davvero poco confortante. Tuttavia, o forse proprio per questo, è stata occultata dai media con notevole vigore.
Sta di fatto che il rancore è un sentimento proprio schifosetto, e non solo perché il termine rimanda all’idea di qualcosa di irrancidito, cioè di marcio e puzzolente. Nel rancore ci sono insoddisfazione, rabbia, paura e frustrazione: un cocktail velenoso e paralizzante come il morso di un grisatoio avvelenato. Alle origini del rancore, non a caso, c’è l’idea di aver subito un’ingiustizia e un’umiliazione. Il rancore ha una dimensione sociale. È difficile da gestire. È debilitante. Diminuisce la fiducia in se stessi e negli altri. E si autoalimenta, in una spirale discendente. Qui brulicano i vermi dei risentimenti di vendetta e di odio; qui l’aria maleodora di cose nascoste e inconfessabili; qui si tesse senza interruzione la rete della congiura più perfida: la congiura di chi soffre contro chi è ben formato e autonomo. Qui l’aspetto dell’autonomia viene “odiato”. E quante menzogne, per non ammettere che questo odio è odio! L’industria culturale corrente è campionessa mondiale di percezioni distorte (e negative) per quanto riguarda, per esempio, immigrati, lavoro, criminalità e salute. E queste percezioni distorte sono a loro volta un ottimo alimento per l’acrimonia.
I modelli culturali (negativi o positivi) in cui definiamo le situazioni, e i comportamenti che attiviamo di conseguenza, determinano gli sviluppi ulteriori rendendoli somiglianti alle nostre catastrofiche previsioni.
2.Ricordo che la povertà economica alimenta la povertà educativa, e viceversa. Ricordo che siamo ampiamente sotto la media UE per investimenti nell’istruzione. Ma la reazione rancorosa distorce, corrompe e riduce la capacità di visione e di progetto. Esaurisce le forze, azzera la fiducia e ci fa girare a vuoto. Il fatto che ci sia un’epidemia di risentimento bellico anche al di là dei confini nazionali non può consolarci: dovrebbe, anzi, preoccuparci di più. Dovremmo, tutti insieme e rapidamente, trovare modi culturali più virtuosi e produttivi. Ce la possiamo fare? E allora: “Come può un critico d’arte perdente – come quell’ebreo di merda – guadagnare così tanti soldi?”; “Deve averla data a qualcuno se fa la consulente in pectore dell’assessore del municipio?”; “Mettiti a dieta palla di lardo, sei un cesso impresentabile e vai malissimo fuori dallo stand di quella Galleria di Art Basel”; “Idiota, te la sei meritata la morte, perché non hai fatto altro che insistere con quell’arte maledetta”; “Quella è una galleria di tendenza perché ha fatto la scelta di assoldare tutti i gay”; “La galleria di punta, per mantenersi ad un livello alto fa contratti solo con artisti americani sicuri”; “In Biennale come curatori ci vanno quelli che hanno fatto il lavoro sporco col Ministro di turno”; “Quello scrive di artisti morti per non avere difficoltà con le pubbliche relazioni”; “La politica in arte ci deve essere quel poco che serve a farti apparire un progressista scafato”. Queste alcune tra le frasi più educate che si trovano quotidianamente nei commenti in rete o nei sottintesi degli editorialisti della stampa cartacea di regime. I social non hanno fatto altro che sdoganare un odio nel sistema dell’arte che avevamo già lungamente interiorizzato, lasciandolo libero di relazionarsi con la sua “tossicità estetica”. La valutazione comparativa in termini di numero di discriminazioni è l’approccio quantificante che rivela l’orrore prodotto dalla classe intellettuale durante tutta la storia Post-’89, che fece dell’odio una necessità!
In termini di funzione storica, c’è una differenza tra odio discriminatorio e odio di classe, tra odio messo in pratica dagli scartati e dagli emarginati dal sistema dell’arte e l’odio messo in pratica dagli oppressori. In termini di comportamento etico, ambedue le forme di odio sono dannose – ma da quando in qua la storia dell’arte è fatta in accordo alle norme etiche: forse è in grado di raccontarcelo quella iniziata e mai conclusa di E. Crispolti, o quella configurata nell’arbitrarietà cinica di ABO? Quella ripetitiva e scostante di G. Celant o quella disinfettata e americanista di R. Krauss e di B. Buchloh? La vera nozione di falsa progressività artististica, e la distinzione tra limitazioni giuste o sbagliate alla progressività, tra indottrinamento progressivo e regressivo, odio rivoluzionario e reazionario, richiede la determinazione dei criteri di validità. Il rampantismo è un filone di politicità inquinato, anche se democratico. Un maleficio infestato che si incentra sul valore assoluto dell’agire per il successo, che è la centralità di tale impostazione, premessa fondamentale e inderogabile del rancore diffuso.
Un narcisista e protagonista pseudo-politico è quel soggetto che, nel valutare le proprie possibili tendenze di lotta, assume come unico inappellabile metro di misura, il grado con cui una determinata rivendicazione riesce a rispecchiare le proprie strategie politiche di convenienza e di convivenza municipale. Un protagonista, si sa, è colui che si compiace di contemplare sui social la propria immagine riflessa: un soggettivista municipale è colui che pretende, con inflessibile rigore, che l’offerta elettorale che gli viene prospettata, sia perfettamente collimante con le proprie strategie e opinioni. Un artivista engagé nelle istituzioni culturali, peraltro, non ha dubbi di sorta: le proprie idee sono chiare e distinte, non è corroso dal tarlo dell’incertezza, sa già perfettamente che i suoi proclami fanno leva sulle necessità dei proletari, a cui fa credere di difenderli … E, dunque, per concedere il proprio voto a qualcuno, bisogna riflettere l’immagine della politica su cui si è costruito e si è sedimentato l’odio … Ma in realtà, occorre ricordarcelo, le elezioni e le rivendicazioni politiche sono uno strumento della democrazia, non la esauriscono; la rivendicazione è un momento importante di partecipazione politica, attraverso cui si costruisce una rappresentanza municipale: non sono lo strumento per la personalizzazione della battaglia!
Sesso, soldi, potere: questa la trilogia della corruzione. L’opposizione culturale dei movimenti è minacciata da due nemici interiori che la sviano: da una parte il piacere dell’istante, dall’altra la passione per il successo.
Un tempo la pratica artistica era sottoposta al rito dell’iniziazione alla vita progressiva. Oggi non più. La saggezza della critica non viene più riconosciuta. L’età del rampantismo tende a confondersi con l’età dello “stato nascente”. Si diffonde il nuovismo come forma di una “virilità infinita”. È il consumismo ad accomunare innovazione e storia. Il capitalismo non è in crisi, si espande e si consolida, detta le sue norme alla società. Contro questa devianza della società i movimenti dello “statu nascenti” sono chiamati a un anabasi: bisogna scoprire ciò di cui si è capaci, per quel che riguarda una vera vita creatrice e intensa, bisogna risalire verso la propria capacità. La figura del padre è sbiadita e l’aggressività giovanile diventa fine a sé stessa. La sottomissione alla legge è sostituita dall’asservimento al mercato. Dall’ascensione del figlio si passa alla discesa del padre. Restano per i figli le tre prospettive del corpo pervertito, del corpo sacrificato e del corpo meritevole. Simbolo del corpo pervertito è il tatuaggio come segnale dell’assenza di un vero e proprio soggetto, dal che discende una “sessualità asoggettiva”, culminante nello stupro di gruppo. Il corpo sacrificato è quello del terrorista che cerca la propria redenzione nel martirio. Il corpo meritorio si orienta verso l’odio e il carrierismo. Il capitalismo contemporaneo chiede, e finirà per esigere, che le donne prendano su di sé la forma nuova dell’Uno, per sostituire l’Uno del potere simbolico e del potere legittimo e religioso (del Nome del Padre). Ossia, l’Uno dell’individualismo consumistico e concorrenziale. Bande minorili ora si scontrano fra loro, ora infieriscono vigliaccamente su soggetti deboli e disabili, vantandosi dell’impunità loro accordata. Intanto nel mondo dell’industria culturale progressista non mancano esempi di corruzione anche in politica oltre che nelle organizzazioni criminali. La scuola viene sempre più indirizzata a un addestramento rivolto al profitto, a danno di un’autentica crescita umana. Nel mondo salariato si ripetono con cadenza quotidiana le morti sul lavoro. Si ripropone quotidianamente il femminicidio. Gli organi di informazione ostentano intenzioni critiche per lo più prive di ricadute costruttive. La distrazione verso “l’odio sociale e culturale” è la regola.
Coloro che si pongono l’obiettivo di una radicale trasformazione sociale dovrebbero sapere che un tale progetto richiede un lavoro di lunga lena, la nascita di grandi movimenti di massa, la molecolare capacità di cambiare la coscienza degli individui. Ed è singolare, invece, che tutto diviene ambiguo nel momento pre-elettorale: come se nella scelta di lotte di lunga durata, si dovesse frapporre il programma con la propria capacità personale di affermarsi. Ed è qui che si insinua la vera utilità del protagonismo. Perché il personalismo delle lotte per l’affermazione artistica individuale sono un pericolo per la democrazia? Perché si inseriscono in modo corrosivo nel contrasto tra individuo e collettività? L’interesse insano per se stessi porta a privilegiare una mentalità astiosa, lontana dalla condivisione degli interessi comuni! Non a caso, nel sindacato la lotta per la democratizzazione dell’industria culturale è affidata ad una sola persona che si presenta come leaders dei dissidenti, come assessore, come attivista, come operatore sociale e come uomo impegnato politicamente che gestisce la mediazione tra l’organizzazione politica di copertura e il territorio.
L’ingrediente più importante nel declino della democrazia moderna è la personificazione della rivendicazione: la vera pandemia che è alla radice di tutti i suoi problemi. La personificazione, l’interesse insano per il nostro futuro a esclusione di tutto il resto – soprattutto degli altri esseri umani – ci spinge a trascurare i bisogni degli altri e a considerarli soltanto arnesi in rapporto alla nostra futura posizione politica (nel partito e nelle istituzioni). Ogni protagonismo solipsista ha avuto la pretesa di fermare la Storia, tanto che è possibile sostenere che altri soggettivismi abbiano preceduto gli attuali. Il dono è una forma di resistenza attiva di fronte alle lusinghe pervasive di modelli di vita fortemente individualistici, che nulla hanno a che vedere con la legittima attestazione della propria identità ma che, al contrario, la mortificano nel momento in cui non ne riconoscono la natura ontologicamente relazionale, e dunque aperta e disponibile, in forma gratuita, all’alterità.
Il dono, nella sua reciprocità del dare e del ricevere, vuole essere testimonianza di apertura e di fiducia in una umanità che si riconosce fragile ma che ha scoperto proprio nell’atto del donare e di critica all’odio le forme e i modi, coerenti con le trasformazioni e le opportunità del tempo presente, per preservare e custodire la propria “umanità”. Il dono è un fatto sociale totale che, secondo Mauss, è all’origine dello scambio sociale, oggi diremmo del patto sociale. Esso, contrariamente a quanto si possa immaginare, non è in origine disinteressato, è utile (seppure non utilitaristico nell’accezione moderna), è obbligatorio e non spontaneo, rappresenta l’embrione del baratto e, quindi, di una forma primitiva di economia; fonda e rinsalda i legami intra e inter comunitari, è vincolante per chi lo riceve, istituisce una prospettiva relazionale nel tempo, riguarda il prestigio e il potere nella comunità, veicola significati spirituali/simbolici attraverso gli oggetti scelti, tende ad essere dissipativo (come nel rituale del potlach) e soprattutto introduce una forma di “espiazione sociale dell’odio culturale”. Esso segue tre regole fondamentali per combattere l’odio: donare, ricevere, ricambiare. Ma se andiamo ad esplorare bene le coordinate del dare, ricevere e ricambiare, esse sono ancora attualissime ma appaiono eclissare in una sorta di stato di polizia che oggi definiamo – più prosaicamente – come alternanza strategica delle relazioni opportune. Incrinature dei rapporti sono oggi regola e non eccezione. I vincoli di reciprocità che seguono regole non più scritte lasciano aleatorie aree di interazione, abbandonate agli umori o ai timori soggettivi dello stato di guerra del momento.