«State attenti alle parole,
anche a quelle miracolose.
Per le miracolose diamo il meglio,
brulicano alle volte come insetti
lasciando non un pizzico ma un bacio.
Possono essere buone come le dita.
Possono essere affidabili come le rocce
su cui mettiamo il sedere.
Ma possono essere sia margherite che ferite.
Eppure io le amo
Anne Sexton
1. Dal giorno in cui Carla Lonzi ha sputato su Hegel ed ha abbandonato la critica d’arte, «critica» viene a significare per tutti i «critici d’arte reali» la problematica necessità di inventare la più efficace traduzione politica della verità scientifica della parola d’arte (pardon critica). Il tema di questo colloquio della Nuova AICA riguarda la domanda originaria: fluido o resistente? Domanda ed origine sono problemi del pensiero critico che, fin dall’inizio della storia dell’arte, non costituiscono un approccio di controllo e di dominio dell’esistenza critica, quanto piuttosto un ripiegamento su se stessi che si interroga sulla propria genesi e la propria parola. In termini meno esistenziali e più antichi, tale questione occupa il posto della coscienza. Dalla consapevolezza dell’incombere del declino nel primo stasimo dell’Antigone al costituirsi, per così dire, di una semiologia dei Sofisti, la critica ha funzionato come principio originario che annoda e che manifesta, secondo vie non solo immediate e meramente speculari, il logos, il noein come conoscenza e approccio alla resistenza e nella resistenza si pone come oltre: ovvero, a ciò che deve mantenersi saldo, ciò che retrocede per avanzare, ciò che si fa nuova tradizione (ossimoro) per farsi nuova avanguardia!
La critica per l’arte della critica, o per la «critica d’arte» non è uno strumento letterario solo del pensiero, ma è un insieme di ragionamenti biologici che riflettono la realtà. La critica è uno strumento logico e ontologico dell’arte, quindi, una facoltà empirica del pensiero e della realtà, cioè uno strumento tecnico-mediale nel vero senso della parola, che dice che tutte le cose sono in relazione fra di loro. Per capire questo concetto ci serviamo di esempi che sono coppie di opposti (differenti, anzi nelle nostre famiglie, nella nostra vita quotidiana comunitaria viviamo le coppie di opposti): critica/acritica, morte/vita della critica, zone fluide e zone resistenti, disprezzo ed elogio etc … La materia della riflessione artistica vuole dire che il reale non è mai separabile in maniera astratta tra opposti. La realtà non è critica da una parte e acritica dall’altra, ma è l’unità di entrambi o l’unità delle dovute differenze; sono la mente e le emozioni, quindi l’intelletto critico, che giungono o fanno distinguere ciò che nella realtà è unito. Partiamo da un esempio preso da Carla Lonzi: «Sputo/Bacio». L’intelletto critico compie la prima operazione di astrazione e volgarmente dice “Sputiamo su Hegel”: lo sputo viene dall’anima e suggerisce che sicuramente l’interiorità della critica, quella che si è formata alla scuola di Roberto Longhi, non sarà mai bacio, mai amore. Questa è la prima operazione di astrazione che nel sistema della critica viene chiamato primo momento dell’aporia: la critica separa quello che nella realtà è unito e la cosa viene considerata nella sua solitudine e poi isolata, esempio: il bacio viene isolato dallo sputo, sputo è sputo, bacio è bacio e quindi sputo rimane sputo. Tuttavia, per poter definire meglio una determinata cosa, la critica deve azionare il secondo momento, quello della negazione, cioè il bacio non è lo sputo, il bacio non è il rifiuto fine a se stesso, quindi deve superare quella mancanza e deve mettere in relazione quelle due cose (questo vale anche per fluidità e resistenza). Certo si può dire che il campo fluido non è il punto resistente, la fluidità è una cosa diversa dalla resistenza, quindi bacio e disprezzo non sono identici, ma sono uniti, perché il bacio non è solo l’opposto del disprezzo, ma lo contiene al suo interno. La realtà vera non è né che il bacio è perfettamente separato dal disprezzo e dallo sputo e né che il bacio non è l’odio, o che la fluidità non è resistenza (vedi di Amos Oz, Giuda (edizione originale 2014): Giuda non avrebbe tradito Gesù, ma sarebbe stato il più fedele dei suoi seguaci, al punto di spingerlo, contro la sua volontà, verso Gerusalemme e la crocifissione affinché potesse manifestare a tutti che era figlio di Dio. Con Abravanel – il cui sogno era un mondo senza confini nazionali, con scuole e istituzioni miste, unica via per impedire un’estenuante opposizione fra ebrei ed arabi – Oz sembra voler rievocare e riaffermare la necessità di escogitare un modo nuovo di risolvere il conflitto in Medio Oriente, che non può eludere la questione di una convivenza fra i due popoli. Al contrario, come l’autore aveva già spiegato in Contro il fanatismo, e come ripete Wald, la fede cieca nelle ideologie e la costituzione di uno Stato contro un altro popolo non potranno che seminare morte e spargere sangue. Come è accaduto, e potrà accadere al nuovo assolutismo della fluidità e della cancel culture …). Ma la realtà vera è che il disprezzo si manifesta attraverso lo sputo su Hegel, perché il bacio o la fluidità non sono né disprezzo e né amore: quindi, si ha il terzo momento della coscienza che potrebbe essere denominata “critica concentrata”, ovvero resistenza. I tre momenti della critica sono quindi: distinzione del pensiero critico, che separa ciò che nella realtà è una relazione di opposti, ovvero fluido o resistente; attinenza di contrari, che non vuol dire solo corrispondenza; critica concentrata, che non è né separazione né totalizzazione. Questi sono tre tra i tanti momenti della critica all’interno o all’esterno della fluidità e questi sono tre tra i passaggi da cui qualcuno ha attraversato l’apologia e l’abbandono della critica d’arte, aprendo o chiudendo la strada alla complementarietà del processo dialettico, ovvero lanciare la critica d’arte dalla finestra e farla rientrare dalla porta d’ingresso!
Carla Accardi è l’unica donna coinvolta in Autoritratto della Lonzi e la conversazione tra «le due Carle» è l’indizio di un dialogo che precede ed eccede la traccia registrata, trasformando la critica della critica d’arte nel momento di gestazione del femminismo lonziano: pretendendo di negare «la violenza epistemologica dell’osservazione», la supremazia dello sguardo del critico sull’opera d’arte e il conseguente rapporto gerarchico con l’artista, Lonzi non lascia spazio all’ascolto e dunque alla voce, ma ai dogmi della fluidità che si nascondono nell’universo biografico e che non riescono a fare da specchio al semi-simbolico dell’opera, ovvero l’opera di Carla Accardi non è la vita di Carla Accardi, perché le forme di vita segnate dall’opera d’arte non sono le vite vissute. Le vite che prendono forma all’interno di una relazione, come in seguito sarebbe avvenuto con l’esperienza dell’autocoscienza, sono un’ulteriore differenza dall’opera d’arte. La scelta delle immagini rimanda alla messa in questione del confine tra pubblico e privato e allo spostamento dell’accento dall’opera all’artista (ma l’artista somiglia alla sua opera? la Accardi somiglia alla reiterazione del segno dei Lenzuoli (1974)?), il cui gesto creativo vorrebbe essere letto nei termini di un’autenticità che rifugge le dinamiche di valorizzazione e messa a profitto, imposte dalla cultura come «rapporto sociale». Il concetto lonziano di «autenticità» ‒ il segno di quella soggettività della donna che si afferma nella pratica della «deculturazione» ‒ prende vita in Autoritratto per sputare su Hegel e sulla critica d’arte: autenticità – secondo la Lonzi – non è la certificazione impartita dal critico d’arte all’opera, la corrispondenza dell’opera con canoni stilistici ed estetici definiti autoritativamente, ma l’atto creativo in cui si esprime la libertà dell’artista, una libertà non compromessa dal rapporto di dominio cristallizzato nell’arte come istituzione. Così, l’indipendentismo proto-fluido produce uno stallo e dà l’impressione, crea l’illusione di consentire alla donna di prendere parola sul mondo, ma non parola sull’arte. Facendole prendere parola fuori dall’arte e fuori dalla critica, le dà parola fuori dal lavoro e fuori dall’industria culturale e quindi un fuori fluido che non sarà mai più dentro. Il problema della «rispondenza», del riconoscimento, sembra diventare per Lonzi un’ossessione che trapela dalle pagine del suo diario – nella delusione per la reazione fredda e indifferente delle donne di Rivolta alle sue poesie giovanili – e in quelle di Vai Pure(1980) la biografia si divide sempre di più dalla parola della critica. Il Dialogo con Pietro Consagra, la registrazione di un addio lungo quattro giorni, in cui si esprime la posizione paradossale del «soggetto imprevisto», apre la strada alle peregrinazioni fluide, che non riescono a testimoniare una scelta critica. Questo è il risultato di un «fallimento» assolutisticamente fluido, esposto al rischio dell’invisibilità e del silenzio, sui cui Lonzi torna continuamente durante la conversazione con Consagra. Se l’emergenza della critica come «soggetto imprevisto» è il risultato di un processo di resistenza, di rifiuto e di rivolta, che può avere luogo solo collettivamente, il suo confinamento in una estensione disgiunta rischia costantemente di trasformarsi nell’impotenza biografistica di chi resta fuori da quella storia che aveva avuto la pretesa di interrompere (la stanza di W. Woolf è una rivendicazione autonoma, ma non somiglia a Virginia, settembre 1929). La via d’uscita da questo blocco lonziano non può che essere una ‘resistenza fluida (o fluida resistenza)’, un uso diverso della riflessione di Lonzi come quello praticato dalla critica e dagli artisti mediali contemporanei. Rimettere la resistenza critica al posto dello sputo, per la parola d’arte, significa fare della sua riflessione sterilizzata un’ispirazione per la pratica critica che lei aveva abbandonato, riattivando il potenziale polemico della «resistenza»: non un’identità che deriva da un carattere anatomico o biografico, ma un progetto politico di rifiuto dell’identità e dei ruoli, che la cosiddetta arte impegnata continua ad imporre alle fluide resistenze mediali. Essere infedele allo Sputo, interrogare la “critica infinita” come pratica trasformativa, dentro e fuori dai confini del mondo dell’arte, significa interrompere il tempo omogeneo e vuoto del flusso liquido e far precipitare quel progetto nella storia del presente partigiano. La critica e i metodi della critica d’arte sono complementari all’arte e alla letteratura dell’arte e sull’arte, ossia l’uno lega l’altro per affermare che la verità del reale rispetto all’opera è sempre una verità di parti in relazione; quindi, non ci sono parti isolate e non ci sono parti che si oppongono alle altre. Nella misura in cui si oppongono alle altre sono in relazione e le due cose vanno insieme: è sbagliato guardare le cose isolatamente e semplicemente per separazione, perché nella realtà non accade così. E mi sembra proprio il caso di Fluidity!
In un panorama in cui è difficile immaginare quali saranno gli spazi dell’arte contemporanea e come verranno vissuti, parlare di critica fluida vuol dire affermare o almeno confrontarsi anche con il concetto di resistenza critica. Se nel 1970 abbiamo Sputato su Hegel, nel 1964, con Contro l’avanguardia di Pier Paolo Pasolini, la critica ha disposto di una lunga disamina capace di dare all’ombra della resistenza concretezza e vita, come il ruolo che la scrittura sacrificale ha per le ombre delle critiche vigilanti. Da spettro, allora, il valore resistenziale della critica diviene simile al militante, ma, affinché diventi compiutamente critico e possa avanzare nel suo cammino, è necessario che quanti (di qualsiasi genere) hanno da perdere solamente le loro catene e da conquistare un mondo accettino di «portare in sé» l’anima dell’antica larva critica. Perché la fluidità si compia, la critica resistente deve divenire «nuove sostanze», moltitudine che ha in sé la volontà ribelle dello spettro e della forza che gli deriva dalla conoscenza scientifica della storia. Unire fluidamente l’artista antico, l’artista sfruttato moderno e la coscienza della critica diviene pertanto l’opera per eccellenza. Originariamente la divisione di genere artistico è stata messa in relazione con il pleroma mediale (qualità), ovvero l’unione differente di tre generi che stanno per migliaia di generi e di combinazioni: immagine mediale (disegno, pittura, illustrazione, fumetto, etc …), medialismo analitico (scrittura, narrative,fotografia artistica, video, audiovisivo, installazione etc…), imprese mediali (strumenti pop, critica della pubblicità etc…).
Come si evince dall’archeologia mediale e dagli «scritti mitici sulla lingua» di Walter Benjamin, la condizione «qualia della critica» e quella pleromatica dell’arte contemporanea sono legate ad una meta-temporalità (metaversuale), in grado di fronteggiare la rete e la mancanza di resistenza nella fluidità del web. In primo luogo, è necessario dire che l’approccio qualia della critica è uno stato ontologico di natura sensibile, che permette la differenziazione e l’ordinamento dei tratti caratteristici in un sistema strutturato, mentre il concetto di fluidity muove da un modus operandi troppo lineare e distrattamente accogliente. Di fatti si può notare una particolare differenza tra ciò che è vestito di fluidità e ciò che è «habitus resistente», così come si può facilmente capire che la critica d’arte è la parola delle arti visive, quella che nella corrispondenza dei linguaggi ha una dimensione meramente letteraria, che è data dal linguaggio della critica. In secondo luogo, la vita critica, come parola d’ordine della rivoluzione sociale, costituisce anche la nozione cui si aggrappa il pleroma critico della scrittura, quel vasto insieme strutturato e completo di realtà artistiche.
Sotto questo aspetto, molto significative dal punto di vista di una semiotica critica, sembrano le considerazioni dei qualia, che riflettono sul percorso extra-fluido: l’artista ha cercato un senso della vita al di là e contro la vita stessa; per l’oltre-artistico, per ciò che non è possibile fermare nella forma, qui et ora, la scrittura critica e il senso della vita si sovrappongono continuamente. Il testo della scrittura critica si distingue nettamente da tanti altri, perché rappresenta una originalissima interpretazione del sublime applicato all’essere della differenza.
Il discorso, presentato sotto forma di nuovo qualia, ha un’impostazione ontologica che ricorda Walter Benjamin: noi viviamo questo attimo, questa intensità, questo Aion, e questo microsecondo è intenso ed eccezionale. Il futuro ci importa che sia futuro e quindi con la speranza dell’eccezionalità. In un periodo storico profondamente segnato da una forte enfasi, posta sulle aspettative di attesa connesse all’ideologia della liberazione fluida, la scrittura critica mette l’accento su un presente che è però essenzialmente fatto di archeologia futura: l’oppressione e lo sfruttamento dei soggetti sui soggetti artistici, delle persone sulle loro performance, degli happening sugli artisti si nascondono nel buio delle origini del post-moderno. Tale conflitto non si risolve né con la richiesta di soprassedere all’uguaglianza a favore della fluidità, né con l’assunzione di modelli assolutamente differenziali, né con la rivoluzione della cancel culture, essendo il conflitto più forte di una contraddizione.
Da qui deriva il titolo del mio intervento che, recuperando espansione e contraddittorio della figura fluida di Salvador Dalì, intende introdurre un tipo di opposizione più marcata rispetto a quella pensata dal narcisismo del pittore surrealista e fatta propria dal fluidismo. Per emanciparsi dalle avanguardie e dalla tradizione è necessario pensare la scrittura critica come alcunché di completamente differente dalle arti visive. La scrittura critica introduce, perciò, la nozione di resistenza in un discorso che apparentemente appartiene alla semiotica storica (penso a Cesare Segre e a Ferruccio Rossi-Landi), ma che in realtà si fonda nella natura stessa della comunicazione umana, ovvero vita in simbiosi emotiva oltre le forme dell’arte. L’enunciazione della scrittura critica, seguendo la vita e la biologia, ovvero la parola (natura e artificio), non ha bisogno di essere altro da ciò che essa è e da ciò che la sua esistenza di natura e di composizione la porta ad essere. Proprio quella critica, tanto bistrattata da Carla Lonzi e sbeffeggiata dal dileggio acritico dell’Autoritratto (1969; biografismo permissivo) sinonimo dell’umanesimo liberale e del liberalismo borghese, necessita di un riscatto resistenziale, accordato ai punti nevralgici del sincronico. L’ideologia acritica inaugurata da Carla Lonzi non sempre è quel bersaglio completamente cieco e da autoinganno, che a volte emerge dalla raffigurazione degli studiosi/e di critica d’arte, men che meno nell’autoironia cinica e del tutto regressiva dell’ideologia post-moderna. Al contrario, essa può di tanto in tanto elevarsi ad una condizione metalinguistica, chiamandosi per nome, almeno parzialmente, senza abbandonare la propria posizione. Questa parziale autoriflessione può rinsaldare, anziché allentare il suo dominio. Che le ideologie debbano sempre essere considerate naturalizzanti e universalizzanti, non solo naturalizza e universalizza il concetto di ideologia, ma concede con troppa facilità un vantaggio politico ai suoi antagonisti. La critica d’arte nel campo dell’orizzonte fluido è diventata una minoranza, oggi si direbbe, genderless; si tratta di un compito che presuppone, insieme, il più alto dominio della scorrevolezza e la più profonda esigenza dell’artista e del critico sociale resistente: due condizioni entrambe tanto problematiche da giustificare il rapido insorgere – nell’ambito della ricerca del pleroma o dei qualia mediali – di una pluralità di scelte operative e di contraddittorie prassi critiche.
Il funzionamento e la storia di qualsiasi unità di lingua e linguaggio (verbale e non verbale) si spiegano con la sua partecipazione a gruppi di unità; qualsiasi unità è parte di un insieme e come tale va contemplata e studiata. Nessun elemento è isolato, indipendente, e perciò l’attenzione del ricercatore deve concentrarsi sulle relazioni che intercorrono tra i componenti degli insiemi di genere e di punti letterari o visivi. Scopo di un’analisi critica non è la semplice scomposizione in elementi formali e visivi sempre più piccoli, fino ad arrivare a quelli non ulteriormente divisibili, ma piuttosto l’individuazione di unità ed aporie concepite come punti di intersezione tra molteplici e svariate relazioni all’interno di un insieme o di una differenza di insiemi. In altri termini, qui il nodo critico (nodale), in sede AICA, vuol dire fluidità (contemplazione) e resistenza (superamento). Il processo asincrono di superamento ed eliminazione si inserisce nel meccanismo critico, che funziona secondo questo ritmo: immagine mediale, medialismo analitico e imprese mediali. Quando si ha il passaggio dal campo dell’immagine al campo dell’analitico, si conserva e si supera: nel passaggio dal fluido al resistente, non si cancella alcuna figura precedente, si conservano e si portano ad una sintesi altra tutte le differenze, così come nel campo di convergenza. Vorrei solo ricordare che questo è il vero processo di “rimediazione” che il sottoscritto ha pubblicato in un articolo su Flash Art che risale al 1991, mentre i mecluhaniani Jay David Bolter e Richard Grusin hanno dato vita e hanno pubblicato il loro Remediation solo nel 1999.