“Per me si tratta della dissoluzione dello spazio, di un luogo che non possiamo più conoscere. La ripetizione di uno spazio fino ai confini della nostra percezione, finché non ci rimane solo il sospetto di ciò che non possiamo più sapere.” G.S.
Dissoluzione dello spazio. Percezione dello spazio. Evocazione dello spazio. Stravolgimento e ribaltamento della dissoluzione, della percezione, dell’evocazione. Dove ci troviamo quando entriamo a far parte di un’opera d’arte? Nello spazio surreale, metareale e scenico o nello spazio reale? Chi siamo quando diventiamo attori di un’opera d’arte? Siamo noi o altro da noi? Siamo soggetti od oggetti? Singoli o parte di una più ampia collettività? Siamo qui ed ora o suggeriti da un lì ed allora, istante maieutico della ideazione artistica? E, infine, chi è N. Schimdt che, seguendo la ricerca di Gregor Schneider, ci dovrebbe accogliere nei suoi spazi privati, svicolando e non palesandosi mai per davvero?
Domenica 16 maggio, ore 16.10. Giungo alla Ex GAM – Galleria d’Arte Moderna – di Bologna, zona Fiera, dopo aver camminato per alcuni chilometri dal centro della città, dove vivo. Conosco quella zona eppure, sarà il primo caldo commisto ad una pioggia fine, ventata e soleggiata – iniziano i paradossi – qualcosa di diverso c’è. Percorro strade note, attraversate e attraversando ricordi personali e, perciò, compiendo sincopati salti temporali. Arrivo sul posto, in anticipo, ovviamente. Attendo il mio turno, disinfetto le mani con il gel igienizzante a disposizione del pubblico. Altre persone sono giunte all’appuntamento. Si procede: il personale non anticipa nulla e a domande che riguardano l’opera, in maniera straniante rispondono – come attori navigati – “Non possiamo dire nulla. Lo scoprirà all’interno.” Prima di me, alcuni fruitori stanno accedendo, singolarmente, di 5 minuti in 5 minuti;
Lasciato il percorso espositivo, qualcuno si lascia sfuggire un “mi ricorda quella volta a Venezia”, qualcuno ha confessato al personale che aveva paura di non uscire da lì senza chiamare aiuto. È il mio turno. Quella sequenza di “non posso dirle nulla” ricevuti – e facente giusta parte del tutto – ha fatto a pugni con la mia curiosità e quel piccolo desiderio di aver sempre tutto sotto controllo.
Confesso: io, l’opera presentata alla Biennale di Venezia nel 2001, valsa a Gregor Schneider il Leone d’Oro non l’ho vista. Nel 2001 ero una liceale maggiorenne da pochissimi mesi e negli stessi giorni in cui Schneider veniva insignito del premio della Biennale a me veniva consegnata la patente di guida.
16 maggio 2021, ore 16.25. Entro nell’appartamento che ARTCITY Bologna 2021 e i partner del progetto, sotto la curatela di Lorenzo Balbi hanno costruito per Gregor Schneider visits N. Schmidt (in the former Galleria d’Arte Moderna di Bologna). Vado a casa del Signor Schmidt. Entro. Entrare a casa di un estraneo perché ha messo le chiavi nella toppa esterna è il primo segno, culturale, sociale e antropologico di straniamento. Sto forse violando uno spazio privato? Perché l’ospite non è lì ad attendere le numerose persone che si recano lì in visita? Avanzare.
Silenzio. Ovattato silenzio. Una stanza che non ha nulla della nostra estetica d’arredamento; è proprio la casa del Sig. Schmidt. Eppure il silenzio, la luce soffusa, la porta chiusa, quei due monitor posti a terra, speculari – in differita? C’è una telecamera? E il pensiero va ad una altro progetto presente al MAMbo, ma non confondiamo ora… – attivano un primo sottile corto circuito.
Sospensione. Una sospensione che ha carattere di perturbante, al contempo, però è ipnotico, ma, al tempo stesso, si vuol sfuggire, per non perdere il controllo. Si procede, si apre una porta, la luce cambia, è una camera da letto, di fronte alla porta c’è uno specchio in cui ci si riflette. Bene, il reale e la sua immagine sono ancora qui, io ci sono ancora dentro. Sono parte dell’opera o sto visitando l’opera? Cosa succede? Una sensazione sempre più alienante sembra prendere il sopravvento: non è paura, magari; si può avere paura dell’Arte? Vado avanti, dovrei avere 5 minuti a disposizione, non posso perdermi in dettagli psicoanalitici… se dovessero venire a cercarmi, sarebbe terribile.
Toh! La toilette, bianca, spartana – anche troppo – no, non ricorda affatto le stanze da bagno con maioliche colorate della tradizione ceramica italiana. C’è anche il rubinetto aperto, Sig Schmidt! Lo chiudo? Lo spreco di risorse? Ma forse è un ricircolo, per cui non v’è spreco e perciò… ma poi, cosa dovrei fare? Toccare un elemento di una installazione? Per favore, basta sciocchezze, apriamo la porta e vediamo dove conduce, magari il Sig. N ha la decenza di farsi trovar… ah è finito. Bene, sono di nuovo sul pianerottolo. Guardo l’orologio. Il tempo, che pareva esser trascorso molto lentamente, in verità è dalla mia parte, ne ho ancora a disposizione prima che i 5 minuti terminino. Quasi quasi entro ancora, la chiave è sempre lì al portone, conosco già l’appartamento, avrò il tempo di notare quei dettagli che, prima, nel solco di un inatteso straniamento, forse non ho notato. Che Schmidt si presenti o meno, m’importa ormai poco.
Eccomi, di nuovo nello spoglio soggiorno, le finestre con le tapparelle in parte abbassate, i due monitor fissi, adesso mi sbrigo… Stravolgimento! Nello schermo appare qualcuno! È Schmidt? Oh! Sembra una scena familiare, una di quelle che da più di un anno vediamo ogni giorno: entriamo nelle case delle persone attraverso videocall, webinar, conference calls… va beh, vediamo se è cambiato qualcosa anche più avanti. Camera da letto, c’è ancora lo specchio, mi ci rifletto, io sembro ancora la stessa di 3 minuti fa. Eppure qualcosa proprio non quadra. La sensazione di labirintica dispersione percettiva si acuisce. In che spazio mi sto muovendo? In quello di assenza o di presenza? Di realtà effimera ma tangibile, pensata e realizzata, o surreale eppure violabile per pochi irripetibili eppure ripetuti istanti? Dopo questa visita mi aspetta la mostra dedicata a Vincenzo Agnetti, forse troverò la risposta in una sua opera.
Avanzo. Il bagno, bianco, spoglio, gelido. Però almeno l’acqua non… eh? O è passato Schmidt di qua e siamo in un muto, cieco e silente rincorrerci o il signor nessuno, d’omerica memoria, giocando con la mia di memoria, fotografica e dei sensi, che in tutti i modi ha tentato di stravolgere quella dettata dalla logica – senza fatica, oserei dire – riportando alla mente Freud e Jensen, o sono nel bel mezzo di un labirinto senza scelta, dalla direzione obbligata, una sorta di nautilus architettonico che, però, non è così: questa è l’immagine che la mia fantasia ha originato – pregherei il lettore di non infierire – ma la geometria, quella dello spazio tridimensionale, ne ha generata un’altra, nella quale incedo ancora e mi ritrovo di nuovo sul pianerottolo, con i portoncini d’ingresso degli appartamenti e la grande porta con la maniglia antipanico da abbassare per poter lasciare questo posto. Ad aspettarmi fuori da lì, come per ogni altro fruitore, c’è l’addetto del personale, ci guardiamo, non diciamo nulla, ci scambiamo uno sguardo ironico.
Avanti il prossimo. I miei 5 minuti sono scaduti. Torno nello spazio che conosco. Che credo di conoscere.
Per alcuni istanti, rimpiango quello della ‘casa’ di N. Schmidt dove Gregor Schneider mi ha permesso di sostare, avanzare, riflettere e ripensare. Per 5 lunghissimi e brevissimi minuti sono stata protagonista non di un’opera d’arte ma del suo potere nella vita reale. Come in un giallo in cui l’assassino è, ovviamente, il maggiordomo, svelato l’inganno – è un inganno mendace? O è solo lo svelamento di nostre insicurezze? – tutto svanisce. L’Arte contemporanea può essere un romanzo giallo? Suvvia…
Uscita da lì dentro, torno sul suolo a me noto, eppure un senso di vertigine mi segue per qualche metro, come il desiderio di stupente Das Unheimliche che mi spingerebbe a chiedere di poter entrare ancora. Ma non si può. L’artista mi ha proposto ed indicato un tragitto immaginifico da seguire. La suggestione e i moti dell’animo mi hanno spinta ad avanzare, arretrare, a sentirmi ospite non esattamente benvoluta in uno spazio sconosciuto, privato pur tuttavia egualmente attraversato per una settimana da centinaia di persone prima di me.
Il vuoto offerto da Gregor Schneider e dal suo N. Schmdt è la normalità fuorviante, è il già noto che rompe gli schemi, pur restando in griglie perfettamente riconoscibili. L’ossimoro è parte integrante di quella costruzione, la cui neutralizzazione dissolve certezze ma anche dubbi, sino a farli combaciare. La verità della percezione perplime tanto quanto quella della logica. Perso ogni riferimento della capacità umana di abitare lo spazio costruito dall’uomo stesso, tutto è perduto. O tutto ricomincia. Lo spazio tradisce; le aspettative, i tempi, i desideri, le paure e le speranze. Siamo prigionieri di ciò che abbiamo costruito sino a non riconoscerci più?
Dal 2001 ad oggi sono trascorsi venti anni e quest’opera, oggi, alla luce di quanto ha scosso e scuote il mondo si rivela e ci rivela la forza predittiva dell’arte e dell’occhio principe dell’artista.
Certo, ora so cosa Gregor Scheider ha fatto, le foto del suo lavoro non rendevano giustizia alla prova esperienziale di una fruizione così immersiva e vissuta in totale solitudine. All’angoscia provata da una parte del pubblico, provo a offrire un nuovo punto di vista, paradossale, anch’esso. Noi potremmo essere N. Schmidt non in una realtà parallela, ma nella nostra. Un reale, un universo mondano e oggettivo, scientificamente razionalizzato, ove non sappiamo più dare ascolto al nostro inconscio, al nostro intuito, a quelle ancestrali attitudini che appartengono all’umanità. È il terrore di ciò che non sappiamo controllare a mandarci fuori strada: perdere la bussola, però, è il solo modo per imparare a camminare, comprendendo esattamente chi siamo e dove siamo.
Nella sua carriera, Gregor Schneider ha indagato nelle viscere le problematiche della società, attraverso pratiche che fagocitavano le sue stesse opere, ponendo in discussione il rapporto tra arte ed economia, e poi osando ancora di più, generando un parallelo tra le celle di Guantanamo e il white cube di musei e gallerie d’arte. Sempre più lo spazio ha definito, per l’artista di Rheydt, un (non)luogo filosofico di indagine: come non menzionare la creazione di una stanza in cui morire, parlando del desiderio di mostrare una persona morente in un contesto espositivo? Seguirono minacce di morte. Eppure i nei del nostro tempo, Schneider li ha osservati tutti, come il missaggio tra luoghi sacri islamici e cattolici, ad esempio, sino a giungere alla ‘polverizzazione’ della casa natia di Goebbels, come forma di risposta all’avanzare di uno spirito neo nazista nel suo Paese.
Ecco, perciò, che nei labirinti, presunti o veri, costruiti da Gregor Schneider, lo spazio è luogo allegorico di sperimentazione ideale e intellegibile, ove il dubbio apre alle certezze, immediatamente scaraventate fuori dalla percezione.
È ora di imparare a pensare, perché, abbiamo dimenticato come si fa.
Dissoluzione dello spazio. Non del pensiero.