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“De domo sua” … Il sistema che vincola e il direttore che attua (II parte)

La burocrazia neo-concettuale è diventata ormai un apparato conservatore senza possibilità di critica. Tra chi fa “arte di regime” ci si conosce e ci si riconosce e, anziché approfondire la realtà, si partecipa a una serie di riti di appartenenza. A pensarla così è Gian Maria Tosatti, artista e autore della più flessibile e sbrindellata consorteria del sistema artistico italiano morente. Operando uno spostamento rispetto alla celebre citazione di Lucy Lippard riguardo al sistema dell’arte, il nuovo sistema organizzativo prospettato da “Tosatti & i suoi sposi” si intitola “Dentro la corporazione” (anzi, tutti dentro), uno macchina infernale che individua nel “declino dell’arte contemporanea” il nuovo strumento di controllo e di intorpidimento creativo. Le ragioni di quel ceto principescamente rappresentato da Tosatti, ben presto, divengono le ragioni assolute, in un’accezione leviatanica e “feudale” (quanto anti-feudale) di cui è massimo portavoce l’articolo pubblicato su Il Sole 24 ore di Dom. 3 sett. 2023-n.242.

1. Più che la classe sociale, sono l’affarismo e l’istruzione familistica che si qualificano progressivamente «come gli agenti primari del cambiamento estetico, specialmente per quanto riguarda le scelte di Direzione Artistica». Gian Maria Tosatti sottolinea, da solo e con una certa faccia tosta, quello che ci vuole, i riflessi che l’innalzamento del livello di gioco della popolazione artistica italiana produce nel riconsiderare i rapporti fra cittadini e ceto artistico-elitario: «il più alto livello di pressione raccorcia, per così dire, la distanza tra soggetto direzionale e classe economica, la quale tenderà così a perdere il monopolio dell’interpretazione politico-culturale della realtà, che deteneva in comune con gruppetti di pubblicitari politicizzati. Tale effetto dell’innalzamento del livello di scontro va del resto registrato all’interno di un complesso di fenomeni site specific, tutti riferentesi all’allargamento del do ut des post-moderno». Non soltanto le gallerie d’arte private non possono promettere la realizzazione dell’esposizionismo postmoderno globale, o del regno dell’architettura «mostrifera», ma neppure presentarsi con programmi che implichino, in cambio di benefici di breve periodo, l’aumento del debito storico-critico, la perdita di competitività dell’industria culturale, o la distruzione troppo affrettata della memoria storica. Ai vincoli internazionali vanno aggiunti quelli propri alla struttura del principale strumento di manovra in mano a un governo espositivo servile, il bilancio dello Stato dell’Arte, sempre più composto da voci immodificabili. Si capirà allora perché i programmi dei diversi gruppi artistici o dei pensieri unici, una volta sfrondati gli artifici retorici, tendono a rassomigliarsi parecchio, e se qualcuno mai li leggesse avrebbe difficoltà a dire quale sia di chi. 

Quello che non vuole affrontare con serietà la generazione dei Tosatti è che sono mutati radicalmente il campo d’azione e le richieste che la società civile pone alla politica della cultura. E, di fronte a questo mutamento, il ceto familistico è rimasto sovente disarmato, o quantomeno in condizione di forte disagio, così come ha dimostrato di esserlo quello all’ombra di qualsiasi maggioranza silenziosa. Il simbolo di questa fase storica – vale a dire il “politichese contra l’artistichese dell’effetto Duchamp” di ostentazione – diventa un performer che non ha specifiche competenze, a cui è chiesto sempre più spesso di mettere in discussione la sua autonomia a favore di (più o meno) fidati consulenti elitisti, né le convinzioni ideali sembrano essergli di grande aiuto, quando si trova di fronte a decisioni politiche altamente vincolate.

Tramontata l’attrazione e la forza coesiva delle grandi narrazioni estetiche o ideologiche, la voglia di esporre si incanala su percorsi e progettualità differenti: «l’aggregazione è puntuale, cioè avviene attorno ad un obiettivo determinato; l’aggregazione è nel presente e non persegue obiettivi lontani ed irraggiungibili; l’aggregazione non è possibile se non esiste una certa coincidenza tra obiettivi di cordata e bisogni di affermazione soggettiva; infine l’aggregazione deve garantire spazi di controllo immediato, verificabili sull’esperienza dei sedicenti artisti».

Luigi XIV riceve il Doge di Genova a Versailles nel 1685

L’immagine di “esposizione e storia dell’arte condivisa”, difficile da focalizzare ed operativizzare nei sistemi astratti che ci dominano (mercato, Stato) e in una società in cui l’unica certezza pare essere quella che tutto cambia, diventa un’immagine meno confusa nelle relazioni che la società civile vive nel proprio agire quotidiano. La forma ed i contenuti di questo agire ridiventano metro di paragone e di giudizio sulla propria realtà quotidiana e sull’agire in essa degli attori della politica culturale o di quelli che rappresentano le istituzioni dell’industria. La natura del bisogno, condiviso da persone che liberamente solidarizzano per dare a quel bisogno risposta, definisce la relazione che il gruppo instaura con l’affare politico e con le istituzioni: il bisogno di essere anche risposta al personale, desiderio di significato della vita, dello stare con gli altri, del sentirsi accolto; il bisogno di una militanza che possa trovare in taluni spazi della società civile, e non più nella sfera partitica, i luoghi del suo concretizzarsi. L’esperienza politica,dunque, si ripropone per ciò che le è consentito, nello spazio della società civile, come macchina consensuale.

Nella società attuale – nella quale, come efficacemente aveva anticipato il Medialismo (1993), l’azione di integrazione sociale delle tradizionali comunità (politica, religiosa, artistica) appare sempre meno efficace – gli attori della “società estetica” si propongono ambiziosamente come uno spazio di prossimità desideroso di offrire disposizioni e consorteria, a quanti tentino di ridisegnare sentieri di espressione adeguati ai tempi dispotici che stiamo vivendo. Nell’ambito della partecipazione alle istituzioni espositive viene spesso operata una distinzione fra partecipazione sociale e partecipazione politica. Ma sul piano analitico, tale distinzione non regge. Infatti, in ambedue i casi l’agire partecipativo ha come scopo quello di esercitare un’influenza su decisioni totalizzanti all’interno di uno specifico sistema. Le distinzioni tra le due forme di partecipazione si possono fondare solo sui riferimenti concreti che le loro espressioni privilegiano: da una parte lo stato della pubblicità, le organizzazioni galleristiche ed il processo di selezione clientelare, dall’altra le organizzazioni e le associazioni della società civile. E va naturalmente preso in considerazione il significato che i performer come Tosatti attribuiscono alle loro azioni. Azioni irrilevanti per il funzionamento di un sistema di rappresentazione e di facciata possono essere praticate come rituali privi di incisività, mentre può essere attribuita una rilevanza politica ad attività in piattaforme che perseguono solo finalità ricreative. Certo è che, almeno nella percezione di chi fa «esposizionismo elitario», non c’è più l’associazionismo bianco, rosso, nero o giallo. C’è l’associazionismo familistico, multifocale. L’incertezza e la transitorietà che sembrano caratterizzare l’attuale quadro artistico della Quadriennale, favoriscono indubbiamente questa posizione di attesa, più o meno vigile, che pare strutturarsi attorno a cellule sociali fortemente caricate di opportunismo, quali appaiono certi spazi degli studi espositivi diretti da Tosatti. Spazi entro i quali, in questa fase di attesa, sperimentare percorsi di nuove attribuzioni di significato che riempiano il vuoto lasciato dalla secolarizzazione della cultura politica, serve a mascherare il nuovo percorso del Nulla. Una società artistica forse eccessivamente disincantata e prammatica che cerca anzitutto in sé stessa le ragioni ed i percorsi della politica del fallimento; che considera l’agire politico fallimentare quasi come sinonimo dell’agire per la costruzione dell’esposizione di tutti e che afferma che quel esposizionismo clientelare di tutti si costruisce nella quotidianità dell’azione del gruppo di potere. Questa pare essere la politica che interessa il sistema dell’arte italiano.

Nella società della progressiva precarizzazione delle certezze, quelle del campo espositivo non fanno eccezione. Sul fronte della partecipazione espositiva non convenzionale, l’area sperimentale si presenta oggi con connotati tipicamente postmoderni: più attenta a garantire il diritto all’esistenza delle diversità, della pluralità dispersiva, dell’autonomia farlocca, che non a valorizzare principi innovativi e generativi di estese aree di partecipazione. La differenza diventa una chiave centrale sia delle relazioni interpersonali di Tosatti, che della convivenza delle strategie di potere, di controllo e di managerialità. E lo diventa con tutto il suo carico di ambivalenze: perché l’esplosione delle differenze può comportare disgregazione, perdita dei legami essenziali che rendono possibile il supporto e il perseguimento di scopi elitisti. Ma le differenze hanno anche un grande potenziale dinamico di distrazione, perché sono la base per creare quelle sinergie che in un mondo omogeneo, governato dal vecchio sistema galleristico, non erano possibili. La rete costitutiva di questa mobilità-immobile, diretta da Tosatti, ha nodi che non rinunciano alla rivendicazione della propria centralità storico-artistica e l’ampliarsi dell’area di consenso non procede più per tradizionali cerchi concentrici che delimitano aree territoriali e subculture, ma per balzi tra un nodo e l’altro della rete di comando. In altri casi, l’area dell’arte politica e della sociologia funzionale si è specializzata a spettacolarizzarsi attorno a personaggi costruiti a tavolino come Tosatti, proponendo un modello «noi non siamo loro», ma mostrandosi inadatti a tradursi in una proposta che tolga quel «noi» dai limiti dell’occasionalità di esposizione o dell’elitismo dei partecipanti.

2. Le ragioni di quel ceto principescamente rappresentato da Tosatti, ben presto, divengono le ragioni assolute, in un’accezione leviatanica e “feudale” (quanto anti-feudale) di cui è massimo portavoce l’articolo pubblicato su Il Sole 24 ore di Dom. 3 sett. 2023-n.242. Elzeviro, secondo il quale: la critica – di questo nostro tempo liquido – va educata a scrivere una Storia dell’arte che sia solo per artisti giovani post-2000. È in questo senso che Tosatti, nel suo specchio “quadriennalico” (confondendo quadriennio con la tifoseria per la quarta dimensione; penso, anche, al quadrato del film The Square), indirettamente, parla del rischio di nuova rivoluzione che starebbe attraversando la società, una transizione dalla “società aperta” alla “società ottusa” del sistema tecnico-espositivo politico. Con la visione della “società ottusa” – o più precisamente della “società misologa”, – si scrive una nuova pagina, l’ennesima, della vasta letteratura sulle fisionomie distopiche della società postmoderna, o contemporanea. Ma, soprattutto, si prende atto, ancora di più, di quell’eclissi del pensiero critico, quella inibizione del ragionamento e della riflessività, alla quale facevo cenno poco sopra, per cedere spazio all’affermazione dell’opportunismo di consorteria, della logica del profitto come misura concreta di affermazione individuale, dell’illusione di una libertà (oppressione) senza limiti di una classe sull’altra. Tutto ciò, peraltro, si realizza senza intaccare, in modo alcuno, le sovrastanti logiche di potere.

La nuova e la “vecchia ragione” di Tosatti (visto che l’articolo si conclude con la solita “citazione a sproposito” su Shakespeare, Totò e il povero Pasolini) non è ars disputandi, ma capacità strategica e consortistica di favorire e di “tramare” per l’integrazione dei ceti artistici emergenti (in altri termini una sua personale scuderia di curatori e di artisti): è virtù al comando, prerogativa della discendenza machista; è, come scrive lo stesso Tosatti, “forza motrice delle ricerche”, imposizioni di ulteriori riflessioni, crescita della scena tramite la sua organizzazione solipsistica.

Ciò ha evidentemente non poche implicazioni destabilizzanti, che non sfuggono né al potere di reggimento né a quello spirituale, entrambi – attraverso le dichiarazioni di guerra di Tosatti – mostrano, infatti, una dichiarata ostilità nei confronti dei sostenitori della nuova esperienza che ordisce (in flessibilità), com’è quella che si forza tra Dewey e Marcuse, proiettandovi solo la voglia di comando. L’ideologia dell’opportunità è l’anima delle forme artistiche contemporanee. Essa non si limita ad indicarne il carattere dell’artista che la insegue, ma “lo plasma anche”. La nozione di “ideologia dell’opportuno” è un altro dei concetti chiave, forse il più importante, per comprendere l’universo dello scritto e del comportamento di Tosatti (il management artistico, urch!) pronto a saltare alla ribalta. Il ruolo e la funzione che il concetto di ideologia occupa nella strategia del Direttore Artistico (pardon Artista) della Quadriennale è, infatti, strettamente connesso con la sua visione “dell’assenza operativa” (Gestaltlosigkeit), come ci suggerisce il “cloud” Luca Rossi (al posto dell’Uomo senza Qualità di Musil). Volete sapere Tosatti cosa ha provocato? Basta rivolgersi proprio a quell’allievo/i degenere di Tommaso Labranca, quando dice: “Penso che Tosatti abbia veramente una gran faccia tosta, prima di pensare alla storia dell’arte dovrebbe cercare di eliminare le lacune che lui stesso ha, che la sua stessa arte ha, tra intenzioni e progetto … Però effettivamente potrebbe insegnare agli artisti come lavorare di Pubbliche Relazioni e riuscire a fare cose …”.

Secondo l’operato del Direttore-Tuttologo non esiste alcuna caratteristica prima della sua carriera e della sua “obbligata affermazione”, costitutiva della natura dell’artista dopo l’Y2K bug. Essa è al contrario qualcosa di informe, che si struttura e si determina solo a contatto con i limiti delle proprie opportunità e le forme provenienti dall’assoluto tornaconto: “stati di sofferenza culturale particolarmente allarmanti. Uno di questi è la scarsità di fonti critiche. In sintesi in Italia la produzione di eventi culturali, opere d’arte, mostre, concerti, film, non si è interrotta e non ha segnato neppure una flessione. È vero, piuttosto il contrario. Gli eventi sono moltiplicati e così il numero degli artisti in attività. Quel che si è quasi azzerato è, invece, il dibattito. Perimetrando il campo dell’arte contemporanea (ndr.: e questa suona come una vera e propria recinzione da filo spinato) […] si può notare che le pagine dei giornali … Sono piene di articoli sulle mostre che si tengono in città, ma la riflessione è ridotta al minimo. Molti articoli di “presentazione”, che ci informano su dove, come e cosa accadrà, moltissime interviste in cui le domande sono scritte prima di sentire le risposte (con il risultato che il giornalista non ribatte neppure alla più balzana delle posizioni espresse dall’artista o dal direttore di museo di turno), ma critica pochissima”. 

Si riceve davvero quello che si dà? Questa frase l’ho sentita dire più volte, ma è davvero così? Molte persone spesso mi dicono che danno molto, ma hanno l’impressione di non ricevere in cambio nella stessa quantità. E, in effetti, molto spesso è così. Quello che ho compreso, osservando la mia stessa vita e le mie esperienze, è che si riceve quello che si da a sé stessi, non agli altri. Dunque, se si ritiene di non meritare “attenzione critica”, di dover assimilare tutti i ruoli dell’operatività artistica per il proprio tornaconto, come è possibile che poi ricerchiamo, disperatamente, con “occasioni pubblicitarie” l’approfondimento storiografico? Su questo sfondo – il carattere originariamente “informe” dell’«artista opportuno» – l’ideologia dell’arrivismo e del controarrivismo si presentano come una delle più importanti estetiche del vincolo emulativo, una di quelle forme estreme che l’artista ha a disposizione per imporre la propria esistenza autoriataria e prepotente. Tra le forme che dall’esterno condizionano l’arte nella stanza dei bottoni, in senso plasmante, troviamo in primo luogo il condizionamento burocratico e politico della cordata, il vincolo delle istituzioni, i comportamenti dalle forme strategiche che l’artista stesso ha creato e dalle quali non si può più sottrarre. In questo ambito l’emulazione liberista rappresenta una forma unificante più alta delle altre, in quanto si limita a condizionare e plasmare meccanicamente, come avviene per le forme ambientali e sociali, bensì ha in più, rispetto a quelle il grande assolutismo di conferire senso al privilegio dell’accattonaggio, invece che solo cause e gesti, all’insieme delle azioni artistiche, modellando su questi significati anche la vita di ogni giorno.