David Foster Wallace. L’epica dell’aragosta

Il 21 febbraio 2023 David Foster Wallace (qui di seguito: DFW) avrebbe compiuto 61 anni. Non volle arrivare nemmeno ai 47. Su questo non dirò alcunché.

1. Ricordare DFW nell’ambito di una rubrica come Solaris in un certo senso è un compito a cui non ci si può sottrarre. Forse non c’è produzione narrativa in cui si sia manifestata con maggiore chiarezza (cioè: con maggiore aggrovigliamento) l’aporia dell’intrattenimento – ovvero di una componente essenziale di quanto chiamo appunto Solaris.

Infatti, parlando della sua opera-mondo Infinite Jest (1996), DFW notò: “il titolo originario era Intrattenimento fallito. L’idea è che il libro sia strutturato come un prodotto di intrattenimento che non funziona. […] Il compito principale dell’intrattenimento è quello di incantarti a tal punto da non farti staccare gli occhi” (cfr. David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, minimum fax, 2011, pp. 145-146); più avanti: “E se il libro ha un argomento, l’argomento è questa domanda: perché guardo così tanta merda?” (Ivi, p. 149).

Scrivendo Infinite Jest, cioè l’ex A Failed Entertainment (Intrattenimento fallito), DFW voleva scrivere un libro sull’intrattenimento, sul fallimento, sul fallimento dell’intrattenimento, e sul perché nonostante tutto continuiamo a naufragare in quell’oceano di intrattenimento fallimentare. Il Solaris, appunto.

Ma l’intrattenimento (qualunque cosa sia) ha qualcosa a che vedere con la realtà (qualunque cosa sia)? Fin dal primo romanzo, La scopa del sistema (The Broom of the System, 1987), DFW sembrava intenzionato a divagare (“delirare”) attorno a questo tema. Sempre secondo le testimonianze raccolte da Lipsky, DFW distingueva la comprensione intellettuale dall’intrattenimento mediante una metafora chiarissima, ovvero instaurando un rapporto e una differenza tra il vero e proprio cibo e le “caramelle”: “nel cibo c’è qualcosa di profondamente vitale che nelle caramelle manca” (p. 146).

Ora, per quanto possa risultare strano e perfino imbarazzante, un singolare riferimento di DFW è il pensiero di Ludwig Wittgenstein. Singolare, giacché divagando da Wittgenstein, per interpretarlo autenticamente in senso narrativo, DFW analizza le contorsioni del linguaggio attorno e dentro il Reale. Il linguaggio ha la capacità di “adeguarsi alla cosa”? Anzi, il linguaggio in cosa si differenzia dalla capacità di descrivere, comprendere, immaginare? In cosa si ritaglia un proprio spazio dall’intelletto? Come adeguare alla complessità tardoindustriale, allora, l’adaequatio rei et intellectus?

2. Tenterò a mia volta una divagazione. Apparente. In Teoria del romanzo, György Lukács introduce la nozione di totalità estensiva – in effetti si tratta d’un elemento d’una diade, in quanto “La grande epica ritrae la totalità estensiva della vita, il dramma la totalità intensiva dell’essenzialità” (György Lukács, L’anima e le forme – Teoria del Romanzo, SugarCo, Milano 1972, p. 279). La forma romanzo in quel testo viene riferita a uno specifico assetto del mondo, anzi, per essere più precisi, del darsi della “vita” rispetto a un mondo: “Il romanzo è l’epopea di un’epoca per la quale la totalità estensiva della vita non è più data immediatamente, per la quale l’immanenza del senso della vita è diventata problematica, ma che, cionondimeno, anela alla totalità” (Ivi, p. 289). 

Del resto, secondo il grandioso incipit di Teoria del romanzo: “Tempi beati quelli che possono leggere nel firmamento le mappe delle vie praticabili e da seguire e le cui strade sono illuminate dalla luce delle stelle” .

Ma quali strade illumina, la “luce delle stelle”? Ovviamente, non quelle degli avvenimenti straordinari. I “tempi beati” (ammessa la sostenibilità della definizione) sarebbero quelli in cui la “vita” si dipana lungo percorsi “che possono essere letti nel firmamento” – in particolare, beninteso, la “vita quotidiana”. 

Riprendo allora dal mio Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica  una definizione inconsueta e certo non lukacsiana dell’epica: l’epica si determina quando un Narratore ci racconta (racconta a noi, si noti) un’Impresa che Ci riguarda in modo specifico, anzi ci mostra ciò che davvero siamo, ciò in cui crediamo, ecc.

L’esposizione di quanto “davvero siamo” implicherebbe la necessità, per la “grande epica” di una “totalità estensiva”; il romanzo sarebbe un tentativo di formalizzare una “totalità estensiva della vita non più data immediatamente” (la “luce delle stelle” si è offuscata e non rischiara più i percorsi della vita quotidiana), tentando tuttavia di costruire una totalità che sia attinente almeno al romanzo stesso.

Infinite jest vuole essere una totalità, senza dubbio. Ma alla “luce delle stelle” si è semmai sostituito lo shock glicemico di un’overdose di “caramelle” – ovvero la futilità esaltata ed esausta della quotidianità “occidentale”. Così il romanzo allinea un campionario debordante di spunti e di centri di interesse (più che “polifonico” è infatti “policentrico”), rimbalzando fra le vicende della famiglia Incandenza, l’ossessione per il tennis, frammenti di un intreccio quasi fantapolitico, e così via. È il “rumore bianco” dell’intrattenimento – “fallito”?

3. Leggiamo un passo scelto quasi a caso (ma pur sempre riferito al cibo…) da Infinite jest: “A cena possono scegliere latte o succo di mirtillo, il più carbocalorico tra i succhi di frutta, che schiuma rosso nel contenitore trasparente vicino al bancone dell’insalata” . 

Il testo continua descrivendo contenitori, frigoriferi, ecc. DFW intende piangere sul latte o sul succo di mirtillo versati? No. Diremo che frasi come quella (gli scritti di Wallace ne sono stipati) appaiono la versione di fine ‘900 del Catalogo delle navi nell’Iliade o della lista degli achievement in World of Warcraft.

È un’epica della vita di tutti i giorni, sebbene di una vita stravolta e inventata. Il mondo non si presenta come una totalità, bensì si espone in quanto collezione di collezioni; collezioni che d’altra parte debordano in entità spettacolari e/o insignificanti, mescolandosi in interminabili remix, mashup, link incrociati, ipertesti, intuizioni abbaglianti e vicoli ciechi. Il jester, DFW, non gioca alla collezione ma ne osserva l’illimitato destrutturarsi, l’illimitato “scherzo” (jest) o meglio l’irrimediabile beffa. Così la danza delle marionette messe in scena da DFW mima la totalità, e DFW mima quella pantomima.

In altri termini DFW propone quanto di più vicino all’epica potesse proporre. Forse: si possaproporre. Il mondo “continua”, nonostante ogni distorsione psicotica, nonostante le intermittenze del senso. Cioè a dire: dal suo personale deserto affollato di cose (cibi e caramelle…), DFW sembra gridare che il “collasso della catena significante” (di cui parlava Fredric Jameson) non riguarda né i significati né i significanti, ma chi tenta di incatenarli.

L’epos postcontemporaneo infatti concerne lo scatenamento – delle possibilità e delle impossibilità, degli esistenti e dei non esistenti, e così via. Forse proprio per questo motivo la sua narrativa risulta così inquietante, sebbene sia pervasa da un senso di svagatezza e perfino di innocenza. Inquietante, anzi letteralmente unheimlich: quanto ci presenta, ovvero quell’“epica” collezione di collezioni di frammenti di mondo, in effetti ci riporta a ciò che ognuno sperimenta 24/7, 24 ore al giorno 7 giorni su 7: l’esorbitante varietà atona delle notizie delle illazioni dei complotti delle immagini delle fotografie dei video e d’ogni altra assenza-presenza, accatastati fisicamente digitalmente mentalmente in ogni dove e in ogni quando, voragine senza fondo dove gli “epici” interpreti e produttori vengono lanciati come aragoste nell’acqua bollente.

4. Qualche confronto. 2666 di Roberto Bolaño, ovvero una di quelle “grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto”, secondo una definizione dello stesso Bolaño. C’è una differenza radicale: in 2666 lo tsunami di crudelissime uccisioni di giovani donne, quindi l’insensatezza che quell’enorme malvagità fa irrompere sul e nel mondo appare però in un certo senso redenta dalla scrittura. Bolaño sembra avere fiducia, nonostante tutto, nella facoltà di raccontare, di trovare nessi, laddove DFW appare rassegnato (energicamente rassegnato, sia consentita la locuzione) al grado zero dell’epicità postcontemporanea: l’accumulo, la collezione, l’imprevedibilità.

Considerato poi l’accentuato carattere “visivo” della scrittura di DFW, viene in mente un versante importante della produzione non letteraria ma artistica a cavallo fra Ventesimo e Ventunesimo secolo. Esemplificherò tale attitudine ricordando l’attività di Sophie Calle, là dove il vissuto viene esibito in una frammentazione policentrica di testimonianze, allusioni, barlumi di racconti inespressi. E si potrebbe accostare la caratterizzazione “epico caotica” della narrativa di DFW anche anche all’accumulo mitopoietico di frantumi dei luoghi comuni americani, fra vita quotidiana ed estremizzazioni cinematografiche e pubblicitarie, emergenti nei cinque Cremaster(1994-2002) di Matthew Barney.

5. Per non pochi lettori, il vero capolavoro di DFW è la raccolta di articoli quasi narrativi Considera l’aragosta (Consider the Lobster. And other essays, 2005), là dove si discorre di cose inaspettate: delle tracce di comicità nella produzione di Kafka, ad esempio; di un’ostinata pedanteria nell’uso del linguaggio; di John McCain, ecc.

E qui c’è forse il “messaggio” decisivo. Il punto in cui risiede la grandezza dei testi di DFW e allo stesso tempo (come talvolta accade nella letteratura) dove si misura il loro limite. Il mondo ècosì. Non sembra esserci alternativa. Costernati, i lettori si chiedono se e come una “uscita” possa esserci. In attesa d’una risposta (che per lui non si profilò), DFW ci intima: “Considerate l’aragosta”, nel suo dolore senza nome, lancinante, davanti a testimoni incapaci di vederlo. Considerate l’aragosta, cioè: considerate voi stessi – DFW incluso.

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