Nuova Enterprise del Capitale: Di tanto in tanto l’equipaggio dell’Enter.Tory (Nuova Enterprise) si ritrova intrappolata all’interno di paesaggi di terrore simulati, appositamente autocostruiti da conflitti intestini, appartenenti a specie che la storia e la tradizione del ‘900 non ha ancora sconfitto. L’unico modo per poter sfuggire a tali trappole del terrore mediatico, passa il più delle volte per un processo di disvelamento critico della natura artificiale del Terrore – e quindi falsa e ingannevole – di tali scenari acritici. Im-mascherare la logica fittizia del mondo, all’interno del quale si ritrova a dover interagire il crollo del senso critico, costituisce quindi un passaggio chiave per poter eludere i pericoli (fine a lor stessi) di cui “tutti sono medesimi portatori” …
Quale può essere il segno subliminale del fascismo moderno che continua ad emergere? Direi che è una volontà di controllo, incapace di essere prevista dalla biopolitica. Il controllo del “capo sul capo” (magari cosparso di cenere) nei riguardi della pubblica sicurezza e dei reati della 434bis; anzi, si legittima in nome di una nuova incostituzionalità. Cioè, il fascismo degli altri secoli era molto più ipocrita, si vestiva persino di sacralità; invece, quest’ultimo è vestito di incompetenza, di sopruso, di macchina del potere per il potere. Il nuovo fascismo è controllare l’altro in nome della rappresentazione della Gewalt. I ministri, i senatori, i deputati, i segretari e i sottosegretari coprono di manti solenni il loro dominio: la riduzione dell’altro a diverso, detenuto, rapper, attivista et alias è in ragione di una rottura con la trascendenza, fosse politica o d’altro tipo. E giustifica se stessa sempre con un vincolo s/comunitario, onnipresente, così repressivo al vivere del nostro tempo, che diviene lo spot pubblicitario della narcosi. L’immagine della gerarchia del controllo, come la più bella, la più forte, la più sicura, pronta a transitare dal Ministero degli Interni a quello della Cultura, permanente messaggio di un massaggio che nasconde un pestaggio. Persino le “cariche” da vendere, la gratuità degli assalti di polizia alle Facoltà di Studi, la scioltezza dell’aggressione, la negazione delle occupazioni, contro e a favore della repressione del rave che nasconde altre bombe atomiche.
Chi si vergogna di essere il fratello del Big Brother nel nostro tempo? Nessuno. Basta affermare il piano repressivo. La motivazione è quella di adottare misure autoritarie scritte male e colpire Centri Sociali, autogestione di scuole e università e manifestazioni. E poiché mai in questo tempo gli sconfitti hanno qualcuno che li difende: le norme, anche in conseguenza al rave organizzato negli ultimi giorni a Modena, sono scritte male, perchè di per sé la norma scritta dai fascisti vuole essere malvagia, vuole rappresentare solo il suo stadio di legge violenta, aggressiva e vuota. Usano la scrittura come una forma di oblio post-moderno, come una violenza contro la violenza e una violenza contro la politica. La scrittura è garante dell’ambiguità e detentrice del monopolio del Caos, anzi è l’uno perché è l’altro, e viceversa: non può darsi scrittura al servizio del codice, senza che questa si inserisca in un contesto razionale di esclusione della violenza gratuita e, a sua volta, tale contesto può sussistere unicamente disponendo di un apparato di violenza reattivo. Cosa c’è di più confusionario, che negare non solo il relativismo discrezionale del Giudice e del Potere, ma anche l’avvenire ad un altro possibile punto di vista?
Priapo Egregio Sommo, o il Fallo in camicia nera: “Ergo: la Italia ventitré anni quello animalino la mandò. E che il giudice mi tagli mano, se questo che qui non è sillogismo diritto, di misura stretta. Il suggeritore fu lui il Ministro, Primo Ministro delle bravazzate, lui il Primo Maresciallo (Maresciallo del cacchio), lui il primo Racimolatore e Fabulatore ed Ejettatore delle scemenze e delle enfatiche cazziate, quali ne sgrondarono giù di balcone ventitré anni durante”. Carlo Emilio Gadda, ch’era stato iscritto al partito fascista, affermò che già con la guerra d’Etiopia aveva compreso cos’era veramente il fascismo e quanto lo ripugnava, “Prima non me n’ero mai occupato. Le camicie nere mi davano fastidio e basta”. Arrivò la sua condanna con Eros e Priapo, un furente attacco contro il duce, i suoi gerarchi, gli uomini e le donne fasciste. E contro se stesso, che tanto nel fascismo aveva impropriamente creduto. Del «Batrace tritacco» scrive: “Ed ebbe faccia da proferire, notate, da proferire verbalmente, con l’apparato laringo-buccale la sporca e bugiarda equazione: io sono la patria; e l’altra: io sono il pòppolo”. Così, lo strepitante mascelluto dux credeva d’impersonare egli solo la causa, la patria e il suo poppppolo con quattro p che ciarlava da sotto il belvedere: ku-ce ku-ce ku-ce! È indecente, sconveniente scurrilità, violentissimo attacco, invettiva furente. È analisi feroce e lucida della psicologia del fascismo e del popolo italiano. È satira a livelli altissimi. È lingua possente e straordinario contagio: Machiavelli, fiorentino odierno, potremmo dire previsione meloniana, profezia di una società in progress: escursioni nel parlato lombardo e romano. Non è lettura troppo datata, ma affrontare quest’iconoclastica mussolineide, in tempi meloniani come i nostri, vale davvero la pena. “Eretto ne lo spasmo su zoccoli tripli, il somaro dalle gambe a ìcchese aveva gittato a Pennino ed ad Alpe il suo raglio. Ed Alpe e Pennino echeggiarlo, hì-hà, hì-hà, riecheggiarlo infinitamente hè-jà, hè-jà, per infinito cammino de le valli (e foscoliane convalli): a ciò che tutti, tutti!, i quarantaquattro millioni della malòrsega, lo s’infilassero ognuno nella camera timpanica dell’orecchio suo, satisfatto e pagato in ogni sua prurigo, edulcorato, inlinito, imburrato, imbesciamellato, e beato. Certi preti ne rendevano grazie all’Onnipotente, certi cappellani di cappellania macellara; certe signore, quella sera, “si sentivano l’animo pieno di speranza”. A chiamarlo animo, il sedano, e a chiamarla speranza, chel sugo.” “Che sarebbe mai la nostra povera Italia senza quell’omo!”. Poteva essere la storia di un acino fanfarone. Invece fu catastrofe malvagia e schifosa: Hè-jà hè-jà trallallà, con l’ausilio del proto-futurismo evviva (si fa per dire) la nuova macchina.
Film e macchina della violenza: Il rapporto del potere con la macchina è uno dei temi preferiti della letteratura di anticipazione, sia che si articoli in forma di previsione delle prossime invenzioni della tecnica, sia che si rivolga a esaminare gli effetti positivi o negativi del processo meccanico sulla vita individuale e associata. Fin dagli inizi della rivoluzione digitale, la macchina si presenta sotto un aspetto ambivalente; se da un lato, permettendo il drenaggio dromoscopico della governance, risignifica la condizione del lavoro astratto e la spaginazione del tempo-produttivo, dall’altro implica, come aveva notato anche Marx, il distacco dell’uomo dall’oggetto di produzione e la sua dipendenza da forze gigantesche che non sempre è in grado di controllare … La macchina mette in grado il burocrate di controllare le forze della politica, di sfruttare le più riposte risorse della Terra, di spostarsi con estrema facilità su ogni punto del globo. Prendersi un giorno di malattia? Il presenzialismo digitale non è nell’interesse di nessuno. Né del dipendente né del datore di lavoro. Una sola donna al comando: Giorgia Meloni è diventata presidente del consiglio senza cambiare il rapporto di potere tra i generi: la macchina rimane identica. Intorno a lei ci sono solo uomini. Marcia su Roma è il titolo del nuovo lavoro di Mark Cousins, presentato come Evento Speciale Fuori Concorso nella giornata inaugurale della XIX edizione delle Giornate degli Autori. Distribuito in sala dal 20 ottobre in occasione del centenario della Marcia su Roma, il film prende spunto dalla rilettura filologica di A Noi di Umberto Paradisi, prodotto nel 1923 come documento ufficiale del Partito Fascista, sulle giornate che portarono Benito Mussolini alla guida del suo primo governo. Scritto da Mark Cousins insieme a Tony Saccucci, il film vede la partecipazione di Alba Rohrwacher nel ruolo di Anna, una donna della classe operaia che incarna il sentimento della gente comune, dapprima esaltata sostenitrice del regime e poi disillusa e critica. Il film vive delle immagini dell’Archivio Luce. Melloni e i Fascisti di Marte 2, ridiretto da un epigono di Corrado Guzzanti, è uscito nelle sale di governo la scorsa ottobrata. A prima vista ha tutta l’aria di essere un film fantascientifico e invece è un bagno pesante di realtà, una greve sintesi della pochezza e del delirio di potere dell’ombra buia del Salò di PPP e le «120 giornate di repressione». In effetti, finalmente, una commedia italiana che ci racconta segnali extraterrestri e varchi temporali, ambientata nella leggendaria e misteriosa Roma-Centuria dei Palazzi del Potere (e già dopo qualche settimana dall’inesorabile vittoria” sembra di trovarsi su un altro pianeta). Il Protagonista di questa storia è un pol(l)itico in pensione (o anche retrovirus, chiamato “A volte ritornano”), interpretato da una Mascotte Forzista e Sovranista che riesce sempre a dare spessore e credibilità al “Traditore”. Il Manierista Beffardo, rimasto vedovo, dovrebbe lavorare ad un progetto segreto di ricerca di segnali di comando extraterrestri per il Governo in Carica, ma ormai vicino al Fallimento, è bloccato nel lutto come in una dimensione politica estinta nel Codice Rocco; ovvero una dimensione narcotica parallela alla realtà, che trascorre così le sue giornate su un divano con delle cuffie alle orecchie, seduto davanti ad una antenna puntata verso il cielo in cerca della voce di Nordio e Piantedosi, capitati dal Decoder costruito insieme proprio al momento della sparizione dei cookie dai rave party; ma ciò che ascolta è il suono interiore del comando o meglio il silenzio, dell’universo neo-fascista, in onda media. A ridestarlo dal torpore trash della sua esistenza è l’arrivo dei nuovi codicilli (from rave party with fetish) che il Presidente del Consiglio gli ha affidato prima di arrivare al prossimo proclama: perfettamente riuscita l’interpretazione dell’anatema destroide liberal, pedofilo nel ruolo del Poliziotto, post-adolescenziale, dall’animo primitivo e omertoso, che aspetta il regalo per il giorno dei morti da parte dei Commissari dello Sgombero, ed è convinto di poter agire, attraverso una foto della location, con l’aldilà. È così, se non per tutti è facile immaginare l’immaginabile (alieni, decoder di Pound House Party di ultima generazione), segnali provenienti dal revanscismo Vichy, galassie della destra estrema gelosa e pianeti conservatori che si allineano. Il Sottosegretario alla Bella Arte di Turno ci riporta con i piedi per terra affrontando, con determinazione il Ministero della Cultura (poco fantasma e molto fantascientifico e molto più familiare) della perdita dei propri militi e dell’incapacità di gestirla da parte di chi comanda. Qual è l’antidoto alla libertà dei giovani? Come superiamo un ventennio buio della politica del Centro-Confusi? Con un altro ventennio? “Non ti posso aiutare, mi dispiace. Non si parla con i Morti” risponde lo zio “Traditore” all’ennesima richiesta repressiva di parlare col Padre di AN, FI, FN etc … etc … E allora come possiamo sentire il sapore di quei proscritti del Codice Rocco che non c’è più?
Persino “ ‘A Meloni”, nonostante il suo approccio realista alla vita della Repubblica, che traspare sin dalle prime scene del film, si ritroverà a gettare la spugna e a fare i conti con la propria mancanza di liberalità e deciderà di inviare comandi al padre, chiedendo direttamente al Ministro fantoccio di far da tramite (“Dio, diccelo a papà che siamo ‘na favola a Montecitorio, grazie a quei coglioni dei Dem”). Ognuno sceglie i propri mezzi di comunicazione e soprattutto di repressione per i Rave Party, o le strategie per giustificare l’allegra manganellata dei poliziotti appostati a Scienze Politiche. E c’è chi invece di inviare il messaggio, lo attende ormai da anni, dal balcone equidistante a Palazzo Venezia, e mentre aspetta un segnale di natura extraterrestre, da un lontano e indefinito spazio dipinto da Julius Evola, rischia di perdere la ricezione di un segnale da parte di un’astronave Orban molto più vicina, molto più possibile. Meteorite intransigente è appunto l’unica farsa con cui il Traditore (nonché vezzeggiatore delle masse) si riproduce, a prima vista col sorrisetto e poi chissà … Un film, in fin dei conti, nel film; un film disonesto, reso ostico soprattutto da un progetto finale (governare cinque anni e più) e omicida, nel quale la fantascienza cede il passo alla tematica dell’alternanza tra l’Aggressione, la repressione, l’Austerità e alle osservazioni delle ostilità narcotiche profonde. In diverse interviste la regia post-scelbiana, allevata tra i fasti dei BluVertigo, ha dichiarato che questa storia nasce dall’immagine del Melone dei Meloni (ovvero sei fuori di Melone) e dal “Quando c’era Lui”, che nell’ultima parte della vita ha iniziato a dar di memoria di Salò” (dopo il Pedalò): “un giorno il traditore l’ha colto nell’atto di fissare per ore il ritratto fotografico del Decadentismo, nel tentativo di ripetere il ricordo”. Sembravano i presupposti per un dramma e invece, tra immagini trash e sulle note popolari di “Siam Fascisti, Siam fascisti terror dei comunisti”, ci ritroviamo a subire ancora aggressione, violenza per la maggior parte del film. E se il centro della e nella destra non esistesse? Se le nostalgie da Terzo Reich fossero solo dei Manganelli in atto a Scienze Politiche, così come alla Casa Bianca, o le visioni anti-rave del Ministero dell’Interno? Se fosse pure che il Musico di turno fosse entrato in quota se stesso ed ora si sentisse, veramente, pieno della sua autonomia? “Fosse pure” che non è mai stato di destra, ma “è veramente un anarchico e in plus”! E allora la domanda è: “perché non sei mai caduto da un balcone o da una scala?”. Melloni e i Fascisti su Marte Due è un film patetico che ci odia e ci disprezza insieme a chi ci ha odiato! È evidente anche ai meno fascisti che lo scopo è quello di intimidire e reprimere le forme spontanee di aggregazione, ora i rave, domani le manifestazioni universitarie in una Facoltà di Scienze Politiche, dopo domani scovare degli altri Assange, e la settimana prossima dare addosso a tutte le occupazioni …

Aggressione povertà e violenza: In un breve saggio del 1921, Walter Benjamin propone un’analisi della violenza nel suo rapporto con il diritto e la giustizia, inquadrando – in particolare – la relazione tra violenza e potere dello Stato. Conservandone la paradossalità, il critico tedesco impiega il termine “Gewalt” nella sua accezione polisemica, traducibile contemporaneamente con “violenza”, “potere” o “autorità”. Secondo Benjamin, in un primo tempo il quesito della violenza si colloca nell’ambito della legittimità dei mezzi. Si può pensare la violenza come uno strumento virtuosamenteaccettabile per arrivare a dei fini ritenuti giusti? È possibile operare una distinzione tra violenza legittima e illegittima? Certamente la separazione tra l’una e l’altra non dipende dal valore degli scopi, ma “dall’interesse del diritto a monopolizzare la violenza”, per necessità di preservare il diritto in quanto tale. Di fronte al pericolo della violenza del singolo, “rischio o minaccia per l’ordinamento giuridico”, Benjamin afferma che è interesse del diritto stesso concentrare il monopolio della violenza nelle mani dello Stato. Riprendendo l’enunciazione di Max Weber, Benjamin considera che il trust della violenza è empirico per il mantenimento dell’ordine sociale, non per preservare i fini giuridici ma per “salvaguardare il diritto stesso”. Il punto cruciale dell’analisi di Benjamin consta nella regolarizzazione dell’uso della violenza da parte del “potere”. Nel caso del potere dello Stato, ne sono esempio il bellicismo e la prestazione del servizio militare obbligatorio: la violenza non è impiegata a fini “naturali”, ma come garanzia del diritto dello Stato a esercitare violenza. Secondo Walter Benjamin, qualsiasi contratto giuridico – apparentemente privo di violenza – conferisce a una delle parti il diritto di ricorrere alla violenza, in caso della violazione dello stesso. Se la storia e la sua condizione hanno figurativamente camminato l’una verso l’altra, lungo il percorso dell’evidenza e delle piaghe scoperte, nel suo esito ultimo il condizionato e la sua condizione, il fenomeno e il suo principio trascendentale, si fondono nell’azione contrastante dell’immaginazione politica e reciprocamente si svuotano dei loro sensi tradizionali, per gettarsi in una effettività in cui la norma e l’eccezione di essa si identificano senza soluzione di continuità. Si capisce come il Comando, fine a se stesso e, inutile, latore di una specifica Gewalt è, quindi, potenzialmente assai fascista. Domanda non tanto capziosa: per la quale ragione il Governo ha emanato(oltretutto in via d’urgenza, con decreto legge) la nuova norma riguardo ai centri autogestiti, quando l’articolo 633 del codice penale dispone già che: I, chiunque invade arbitrariamente terreni e edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032. [II]. Si applica la pena della reclusione da due a quattro anni e della multa da euro 206 a euro 2.064 e si procede d’ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone o se il fatto è commesso da persona palesemente armata. [III]. Se il fatto è commesso da due o più persone, la pena per i promotori o gli organizzatori è aumentata”. Qui, nell’effettività della sintesi tra norma ed eccezione compiuta nello spazio culturale della decisione, violenta, balena però l’attimo dell’ingiustizia gratuita. È come se mentre stiamo camminando e costruendo un discorso che a qualcuno del gruppo da fastidio, questo qualcuno ti prendesse di spalle e ti ammazzasse di botte: che l’eccezione sia una semiotica estendibile ad ogni istanza, introduce una paradossale immagine della legge che ha solo scopi pratico-repressivi. La legge si muove nel terreno minato dell’uguaglianza ontologica e nell’identico gewaltatig (vedi Walter Benjamin, Per la critica della violenza, Einaudi Torino 1921, Opere I – 1906-1922, pp.468-489). L’antica questione della giustizia come differenziale storico nei confronti dei miti del Comando proposti dal Fascismo (che sarebbe la violenza per la violenza) viene restituita in tutta la sua destrosità nella forza con cui Benjamin ribadisce la necessità di cogliere nel tempo lo spazio per risvegliare le possibilità espressive dei fenomeni soffocati e oppressi da altre istanze costituitesi in Mito. La giustizia appare nella Storia solo nell’attimo paradossale del confronto tra emergenze, della pianificazione della violenza di ogni stato eccezionale che si conferma come una regola. L’autentica lotta alla mitologia fascista si fa avanti in Benjamin, proprio quando riconosce l’intreccio dialettico tra oppressione ed emancipazione che regola la dinamica storica e vede l’impossibilità di qualsiasi dialogo interno alle Storie. È vero che non si possono mettere a confronto stato di polizia e rave, perché così come lo stato di polizia gratuito è ad un passo dal Priapismo, il Rave è ad un passo dal narcotismo (Eros alienato). Nello sforzo di avere di fronte agli occhi una qualsiasi effettiva emergenza, si colloca l’invito a trovare nelle pieghe dell’attuale le emergenze oppresse che cercano la libertà, le realtà creative che obbligate al “silenzio repressivo”, da altre condizioni politiche tributatesi miticamente incriticabili, tentano di trovare la via dell’espressione. Che una decisione sia prevista non dice nulla sulla modalità della sua concretizzazione, sostiene Benjamin! Il fascismo poliziesco, nel suo “forma informe” ricopre una realizzazione in cui il diritto astratto si compromette ampiamente col concreto dell’effettualità, a costo di tradursi in arbitrarietà. Benjamin richiama l’attenzione sulla tematica della Rechtsverwirklichung, del metodo di attuazione della norma, non sussumibile sotto la norma stessa, anzi ad essa ostile perché inevitabilmente legata ad una sua specifica e parossistica tecnicità. In altri termini, il potere attuale vorrebbe ingessare il conflitto sociale, perché consapevole di non poter risolvere nemmeno uno dei problemi del paese e, quindi, usa l’aspetto giuridico (d’urgenza e caotico) per neutralizzare, per lanciare un segnale piuttosto chiaro, confermare la regola dei populismi: accentrare, indirizzare, far convergere. Non importa intorno a quale questione, l’importante che si polarizzi la società. In questo contesto, la subcultura di governo rappresenterà l’estrema radicalizzazione di ricerche dirittuali di stampo nazional-razziale che ricercano nel Nuovo Mito dell’Ordine, nel simbolo, nelle saghe contro i Rave una giustificazionevolkisch. Come acutamente ricorderanno Adorno e Horkheimer, il pensiero della razionalità strumentale, che si dogmatizza nella positività borghese o piccolo borghese nel periodo della sua crisi estrema, si converte nel suo opposto, e non a caso E. Kriek proporrà il mito come costruzione. Nel saggio Esperienza e povertà (1933; Opere V- Scritti 1932-33, Einaudi Torino, 2014, pp. 539-544) Walter Benjamin descrive il «nudo uomo», l’uomo spoglio della generazione uscita dal‘15/18 – «non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile» – come colpito da una indigenza del tutto nuova, una miseria che appare come una insolita ricchezza o una povertà che copre una semplicità enigmatica, frutto di uno straordinario sviluppo della tecnica che nell’allestire il campo di «correnti distruttrici» della guerra tanto più mette in rilievo la scarsa resistenza e la semplicità, fisica, morale, culturale, dell’umano superstite. Si tratta dello stesso spettacolo, visto però nella sua opacità e ritratto come in un negativo fotografico, che affiora dall’estetica della battaglia di Marinetti, il quale – nel manifesto per la guerra coloniale d’Etiopia, citato da Benjamin nella Postilla al saggio sull’opera d’arte – esalta la bellezza della guerra generatrice di nuove forme, suoni, colori, sensazioni, descrivendo le persone come un mero materiale post-umano a disposizione della tecnica e come realizzato il sogno di una «metallizzazione» del corpo umano. E proprio il nuovo post-umanesimo massificato, commenta Benjamin, a divenire genuino battistero di energia che, già sperimentata come forza lavoro all’interno del sistema produttivo del capitalismo industriale, diventa ora una «fiumana umana», spinta «nel letto delle trincee. Qui è interessante il fatto che nel presentare il rovescio della medaglia della guerra imperialista, Benjamin fornisca, sia pure indirettamente, qualche utile indicazione in merito al noto concetto, inteso in un’accezione priva di inflessioni negative, di una pratica attivistica pura, che riesce a scrollarsi di dosso il rapporto con l’arte, ed è semmai da utilizzare come arma politica di contro all’«estetizzazione della vita politica» praticata dal fascismo, che non esita a sfruttare il potere impositivo delle tecnologie, per piegare le masse al culto del Fascismo. Un attivismo – senza artivismo – e cioè sensibile ai ‘valori espositivi’ e al coinvolgimento delle masse, introdotti dalle nuove tecnologie degli anni Trenta, non può che muovere proprio da quella «povertà di esperienza», che Benjamin rivendica non semplicemente come il portato di una deprivazione (in campo economico, fisico, morale) e cioè di una esperienza della povertà, ma come nuova disposizione creativa e costruttiva di impoverimento. Essere poveri mette nella condizione di dover rinunciare a beni e servizi che spesso si danno per scontati, come l’accesso alle cure mediche o l’acquisto di generi alimentari. Quindi, per capire meglio la situazione in cui si trova l’Italia, è necessario provare ed analizzare le cause più comuni che portano alla povertà, sia assoluta che relativa. Sono considerate in povertà assoluta le famiglie e le persone che non possono permettersi le spese minime per condurre una vita accettabile. La soglia di spesa sotto la quale si è assolutamente poveri è definita da Istat attraverso il paniere di povertà assoluta. Secondo i più aggiornati dati INPS, dal 2007 a oggi, i cittadini italiani in povertà assoluta sono quasi triplicati. Se si considerano poi le persone in povertà relativa, i lavoratori in cassa integrazione, il lavoro precario, coloro che vivono con meno di 1000 euro si comprende come viviamo uno stato di grave ingiustizia sociale. In più di 150 anni, la distribuzione della ricchezza è rimasta iniqua, ma anche la distribuzione del lavoro, del sapere, del potere, delle opportunità e delle tutele è stato lasciato ad un livello di stagnazione. Nello scoppio della crisi del debito sovrano, i paesi dell’eurozona presentavano differenze significative nelle condizioni di finanza pubblica e nel tasso di crescita. I cosiddetti Paesi core (come la Germania) si connotavano per livelli contenuti del debito pubblico e per un‘attività economica più solida, mentre i cosiddetti Paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), o “periferici”, si caratterizzavano per una maggiore vulnerabilità legata a dinamiche non sostenibili del debito pubblico. Gli Europei docili seguaci del Modello Americano per ottenere che i ricchi fossero sempre più ricchi, mentre i poveri sempre più numerosi e poveri, si omologano agli anni della grande crisi del 2007-2017. All’inizio le dieci famiglie più opulente avevano una ricchezza pari a quella del 3,5 milioni di poveri, alla fine della crisi la loro ricchezza era pari a quella di 6 milioni di poveri. Nel 2011, per far fronte alla crisi e salvare l’Italia dal baratro (condizionato dall’Europa), l’allora governo Monti non trovò nulla di meglio che tagliare in 3 anni 45miliardi dalle pensioni, dai servizi alle famiglie, dalla sanità e dai trasporti, facendo ricadere il peso del risanamento sulle fasce più deboli. Ma per parafrasare il poeta antifascista Piero Jahier, “La miseria […] non fa guerre, ma semmai rivoluzioni”. Dalla condizione di povertà, argomenta Benjamin, deriva infatti una nuova condizione di esonero dall’esperienza (azzeramento dell’esperienza a favore del barbaro) e cioè da una «eredità umana» non più utilizzabile per vivere e percepita solo come fardello. La povertà, dunque, se riesce a ritagliarsi «un ambiente» in cui poter risaltare, può farsi portatrice di una inedita «primitività espressiva (che ricorda quasi una originarietà writeristica così come veniva usata da Città senza Confine,1984) », che può dimostrare la sua valenza positiva nel saper «costruire a partire dal poco», un poco che non riguarda l’acriticismo poverista e neanche l’operativismo culturale cossuttiano proposto dallo stalinismo-evoliano di Enrico Crispolti, per ricominciare sempre da capo, «iniziare dal nuovo», per preparare l’umanità a «sopravvivere alla cultura». Nell’autovalorizzazione della povertà, mal compresa da Toni Negri (in quel grossolano capitolo che sembra voglia occuparsi malamente di Benjamin, vedi Macchina-Tempo, Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 320-326) si annuncia una lingua del tutto nuova: «nessun rinnovamento tecnico del linguaggio, ma la sua mobilitazione al servizio dello scontro o del lavoro, in ogni caso all’opera della trasformazione della realtà, non della sua descrizione». Una contro-esperienza barbara ed espressiva, «politicizzata» – nel senso di Benjamin – sarà allora quella che rifugge dal patrimonio culturale e dall’eredità dell’umanesimo tradizionale. Proprio perché, questi ultimi, sono risultati terreno di conquista e di strumentalizzazione da parte di regimi totalitari. Un attivismo autovalorizzante puro, protosituazionistico, che solo così, in regime di ‘povertà’, si rende riconoscibile: dall’interno di una inedita tecnicizzazione della vita, in forza di una peculiare «disposizione per l’arbitrario elemento costruttivo», che pensa e pratica attraverso il nuovo attivismo un pensiero della storia orientato alla politica, cioè alla trasformabilità del mondo. Un piano che però, lo abbiamo visto, va in controtendenza rispetto a patrimoni culturali o storici e ad esperienze già acquisite per eredità, configurando piuttosto un territorio nel quale immagini, oggetti o parole possono diventare fecondi, soprattutto sotto il profilo sociale, storico e politico.