Cose turche

Nella notte tra venerdì 7 e sabato 8 gennaio la Scala dei Turchi, una scogliera rocciosa di marna bianca a Realmonte, in Sicilia, è stata imbrattata con una polvere rossa risultata, fortunatamente, innocua.

Un politico rubava, una signora metteva le corna al marito, il vigile urbano incorruttibile multava la moglie perché teneva galline in casa, in pieno centro, nonostante la legge lo proibisse? “Cose turche”, commentava mio nonno, aspirando enfaticamente la “o” di cose; parola, a volte, ripetuta senza aggettivo – “cose, cose!” – come un mantra, per chiudere la frase consumando teatralmente tutto il fiato.

I turchi, come prima gli arabi – me ne sono accorto a Caltanissetta in occasione di una mostra: i quartieri, persino i moderni viadotti portano tutti toponimi orientali – in Sicilia hanno lasciato il segno. Per le loro passate incursioni a caccia di uomini da tradurre in schiavitù e di donne da rinchiudere negli harem, le coste dell’isola sono circondate da un imponente sistema difensivo, costituito da innumerevoli torri cinquecentesche: se un punto d’approdo era preso di mira, subito, attraverso i fuochi, come in un famoso episodio del Signore degli Anelli, la notizia raggiungeva tutta l’isola, e ci si organizzava per respingere l’assalto.

Scala dei Turchi, famosa baia dell’agrigentino, deve il suo nome proprio alle incursioni dei pirati saraceni, che vi si rifugiavano per ripararsi dai venti. Al presente, a dire il vero, ad essere minacciati non sono tanto i siciliani quanto il loro territorio. Da chi? Dai turisti, certo. Che, come in Sardegna la sabbia, amano portarsi a casa per ricordo un pezzo di friabile, bianchissima marna. Ma in primo luogo dai siciliani stessi che, non paghi di contendersi a suon di bolli il possesso di questo angolo di cielo – qualche hanno addietro è comparso un tizio che, a quanto pare, ne è il legittimo “padrone” –, lo hanno abbracciato con un anello di cemento (strade, case) che, anziché proteggere la baia, ha modificato il flusso delle acque meteoriche, determinando fenomeni franosi.

È infine della settimana scorsa la notizia dello sfregio: ignoti vandali si sono arrampicati sulla “Scala” imbrattando di rosso il promontorio al confine tra Realmonte e Porto Empedocle, la Vìgata dei romanzi di Camilleri. Sul posto, però, anziché il commissario Montalbano, si sono precipitati i carabinieri locali, che hanno subito iniziato ad indagare. Il procuratore di Agrigento ha aperto un’inchiesta; il reato ipotizzato, al momento a carico di ignoti, è di danneggiamento di beni culturali. Fortunatamente, per imbrattare la marna, è stata utilizzata polvere di ossido di ferro. Un materiale che si colora di rosso a contatto con l’acqua e che è stato eliminato facilmente dalle onde e dagli uomini della Protezione civile, compresi numerosi volontari, armati di scopa e di idro pulitore. Il sistema di difesa, in fin dei conti, ha funzionato.

Ma cosa sarebbe successo se per la loro dimostrazione – perché di questo probabilmente si è trattato – i malviventi avessero usato sostanze più aggressive? E soprattutto, perché accanirsi proprio sulla Scala? Perché il patrimonio naturale e artistico è sempre più spesso la vittima innocente di incuria, vandalismo, distruzioni volontarie? Le ragioni che mi vengono in mente – dall’ignoranza alla malattia mentale – sono così banali e moralistiche che è meglio sorvolare. Come avrebbe risposto mio nonno, potete immaginarvelo da soli.