Vivaio della siccità a SeminAzioni APS_ ph Eleonora Carrozza

Cooking Sections

Da qualche anno i Cooking Sections si aggirano tra Sicilia e Puglia studiando le colture locali, incontrando agricoltori, artisti, studiosi, attivisti. Il collettivo di base a Londra – nato nel 2013 dal sodalizio tra Daniel Fernández Pascual, architetto di formazione, e Alon Schwabe, che proviene dalla performance e dalla danza, entrambi 41enni – ha acquisito visibilità internazionale per il peculiare spessore ecologico del suo lavoro: che con diversi dispositivi esplora le relazioni tra cibo e alterazioni climatiche, analizzandone le implicazioni geopolitiche e attivando collaborazioni sui territori.

Nominati per il Turner Prize della Tate Britain nel 2021 e invitati alla scorsa Biennale di Istanbul, in Italia Daniel Fernández Pascual e Alon Schwabe avevano partecipato all’importante rassegna d’arte transnazionale “Manifesta”, tenutasi a Palermo nel 2018, e alla Quadriennale di Roma nel ’21. L’incursione nel Sud Italia s’inserisce all’interno di un processo a lungo termine, appena presentato al Museo delle Civiltà di Roma con un’opera installata all’ingresso del Salone delle Scienze. Una ricerca complessa, che ruota intorno ad una domanda: “Come può cambiare l’alimentazione di fronte ai cambiamenti climatici?” Interrogativo alla base del più ampio progetto CLIMAVORE, che sperimenta nuovi regimi dietetici, alternativi ai sistemi agroalimentari su larga scala, capaci di adattarsi alle trasformazioni e ai disastri ambientali.

Parlateci di quest’ultimo, grande progetto sul Sud Italia: come è nato?” 

Il progetto è stato avviato sette anni fa a Palermo, in occasione di “Manifesta”. Lì abbiamo cominciato a studiare il fenomeno della siccità. In particolare a Pantelleria eravamo rimasti affascinati dalla struttura circolare dell’antico Giardino pantesco, circondato da un muro di pietre a secco: un sistema per trattenere l’umidità sopperendo la carenza d’acqua, e permettere ad un singolo albero di crescere. A questo modello di creazione di un microcIima ci siamo ispirati per la nostra installazione palermitana. Il problema della siccità riguarda però anche altre regioni come la Puglia, specie in alcune aree. La nostra ricognizione si è focalizzata su questo aspetto e sui danni provocati dal collasso delle monoculture.

 Il vostro lavoro si distingue per l’intreccio tra arte, attivismo e ricerca scientifica. Come costruite concretamente queste alleanze interdisciplinari? 

Il nostro metodo è radicato nella collaborazione, con i ricercatori e con le persone che vivono nei territori in cui lavoriamo. Ci affascina imparare dalle civiltà che, in passato, sono riuscite a gestire la scarsità d’acqua e a trovare soluzioni efficaci. I dispositivi che utilizziamo variano: a volte facciamo mostre nei musei, altre volte creiamo installazioni all’aperto. Quest’ultimo progetto è nato anche dal coinvolgimento di più attori: la costruzione di una rete è parte integrante della nostra pratica. Dopo Manifesta, abbiamo proseguito la ricerca nell’ambito di CLIMAVORE x Jameel al Royal College of Art e abbiamo creato un team composto dalla Project Manager Dani Burrows, dal ricercatore associato Enrico Milazzo e dai coordinatori locali Gabriella Patera e Davide Palmieri che lavorano sul campo. Inoltre, tra la Sicilia e la Puglia, stiamo attualmente lavorando con circa 40 realtà agricole, oltre che con un gruppo di agronomi/e, giuristi/e ambientali e studiosi/e di diritto delle Università di Bologna, Trieste e Firenze.

Che idea vi siete fatti di questi territori? 

Abbiamo iniziato la nostra prima ricerca in Puglia due anni fa. Con l’aiuto dell’antropologo Enrico Milazzo, che ha lavorato a stretto contatto con noi negli ultimi anni, abbiamo incontrato diversi agricoltori/trici e cooperative che praticano l’agroecologia e la coltivazione senza sostanze chimiche. Abbiamo iniziato nel foggiano, nelle pianure del Tavoliere delle Puglie, dove la produzione intensiva di grano durante il fascismo ha portato all’ impoverimento del suolo e alla scomparsa di varietà resistenti alla siccità. 

Infine, ci siamo recati nel Salento, fortemente colpito dalla Xylella: purtroppo, una delle cause della sua diffusione è stata l’espansione delle monocolture. 

Come si è poi sviluppata la ricerca? 

Nel primo anno del progetto, insieme a esperti/e locali di sementi come Eva Polare, Angelo Giordano e Antonio Capriglia, abbiamo identificato circa un migliaio di varietà di sementi contadine non registrate e resistenti alla siccità provenienti da queste regioni e a rischio di estinzione, con l’obiettivo di ridistribuirle e sostenerne la propagazione a scopo culturale. Ci siamo resi conto infatti delle difficoltà che incontrano contadini e contadine nel partire direttamente dal seme e nel recuperarlo e conservarlo per l’anno successivo. Difficoltà che derivano anche e soprattutto dalla perdita di conoscenze legate a questa pratica di co-evoluzione diffusa nelle precedenti generazioni contadine.

I vivai sono dunque stati pensati per fornire le piantine di questi semi a partecipanti al progetto e non ma anche come luoghi di scambio di saperi tra vecchie e nuove generazioni di contadini e contadine. 

Sui “diritti dei/ai semi” avete tenuto di recente un incontro all’interno della rassegna Learning Intensions/ Learning in Tension, curata da Alessandra Pomarico e Nikolay Oleynikov a Lecce, e avete organizzato con il Bread and Roses – spazio di mutuo soccorso di Bari, un confronto a più voci dal titolo “Giustizia radicata. Diritti della natura, sementi contadine, attivismo ambientale e processi legislativi partecipati”. L’installazione Diritti ai semi, diritti dei semi, inaugurata al Museo delle Civiltà di Roma in dialogo con la banca dei semi parte delle collezioni dell’ex museo coloniale, rappresenta una formalizzazione di questa ricerca. Come è stata concepita? 

Da diversi mesi creiamo occasioni assembleari di confronto per comprendere quali siano per contadine/i i vantaggi dell’utilizzo di queste sementi contadine e le sfide che devono affrontare anche rispetto ai limiti imposti dalla normativa vigente. Occasioni preziose per lavorare in modo partecipato alla stesura di proposte di emendamenti alle leggi regionali per agevolare l’utilizzo e la circolazione di queste sementi. 

La propagazione e la redistribuzione di queste sementi è inquadrata come una collaborazione tra le realtà agricole e il Museo delle Civiltà finalizzata alla realizzazione dell’installazione “Il diritto ai semi, il diritto dei semi” che abbiamo realizzato come parte del progetto Monocolture Meltdown all’interno del progetto CLIMAVORE x Jameel al Royal College of Art. Inoltre, il passaggio dei semi dal Museo e la relativa documentazione sono finalizzati alla creazione di un’origine culturale per l’introduzione delle sementi nelle aziende e per giustificarne il possesso da parte di agricoltori/trici. 

Come è strutturata l’opera esposta?

L’installazione è costituita da alti pali di alluminio a cui sono attaccati dei rami che sorreggono 125 vasi di ceramica – prodotti a Grottaglie – ognuno contenente una selezione di semi contadini. La conservazione di questi semi è una conservazione dinamica, dal momento che tutti i semi sono pensati per essere redistribuiti nel periodo di semina e ritornano al museo dopo il raccolto, processo che si ripete ogni anno. Questo tipo di conservazione è in antitesi a quella statica, tipica delle banche delle sementi, in cui queste vengono gelosamente custodite dopo essere state sottratte dalle multinazionali dell’agroindustria e rese inaccessibili alle comunità che le hanno conservate e tramandate per anni. 

In questo caso il progetto mette la cultura, l’istituzione museale, al servizio dell’agricoltura. Questi semi per noi sono espressione vivente del patrimonio culturale delle comunità con cui sono coevoluti e in quanto tali portatori di diritti, i diritti dei semi contadini stessi di esistere e di essere propagati, che speriamo saranno riconosciuti da una prospettiva di Diritti della Natura. 

L’installazione riflette dunque su una possibile “riparazione culturale”, contrapponendosi a una logica coloniale della raccolta e dell’estrazione. Cosa intendete con questo concetto e che funzione può avere l’arte? 

I musei possono contribuire a sostenere i movimenti contadini nella loro lotta per la terra e l’accesso alle sementi contadine. Il motivo per cui facciamo quello che facciamo è perché crediamo che la cultura possa creare spazi in cui immaginare il mondo in altri termini e promuovere nuovi quadri giuridici per il futuro, rendendoli concreti nel presente. E questo è quello che cerchiamo di fare. Sappiamo che non è facile, ma siamo ottimisti: crediamo che il cambiamento sia possibile.

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