Contestabile
Contestabile, exhibition view, Post Scriptum, a cura di Davide Maria Mannocchi. Opere di Davide Serpetti e Valerio D’Angelo. Ph. Giorgio Benni.

Contestare il contesto. Diagnosi e prognosi della giovane critica

Nove artisti, tre stanze, altrettanti curatori: lo spazio di Palazzo Brancaccio offre al pubblico una mostra tripartita sull’idea di contesto e di crisi.

Di calcio, negli spazi del sistema, non si è mai fatto un gran parlare: al più si bisbiglia qualcosa, sottovoce, tra artisti e curatori nelle pause degli opening. Ma non capita spesso. Lo sport più famoso del mondo, nei salotti più educati del circuito dell’arte, paga ancora, e troppe volte, il peso della croce che l’ha reso l’hobby un po’ facile delle masse popolari, un passatempo sconveniente per chi sta nei giri buoni. La narrazione costruita attorno al “pallone”, dall’intelligenza che detta la linea, è spesso e volentieri una sequela di frasi fatte, pressappochismo e luoghi comuniil risultato di un’azione di filtraggio che porta a galla solo gli eccessi, e che regala al mare gli “scarti” più virtuosi, condannandoli al silenzio e alla dimenticanza. Non è però mia intenzione, in questa sede, avventurarmi in un’operazione di salvataggio, di recupero del valore culturale di uno sport: se mi trovo, qui ed ora, a straparlare di calcio, forse con lo stesso massimalismo che condanno, è solo per via di un’immagine. Sulla locandina di Contestabile, collettiva allestita, dal 7 giugno al 12 luglio 2023 nelle tre sale del Contemporary Cluster di Palazzo Brancaccio a Roma, è infatti presente, nella sua versione in bianco e nero, uno scatto celeberrimo, quello con cui Diego Armando Maradona è immortalato mentre supera Peter Shilton, estremo difensore della nazionale inglese, portandosi la palla avanti con la mano e siglando di fatto una rete irregolare. Era il 22 giugno 1986, e con la Mano de Dios il calciatore più forte della storia portava in vantaggio l’Argentina nel match contro gli odiati rivali, valevole per le semifinali dei Mondiali messicani del 1986. A trentasette anni esatti dal gol più discusso di sempre, qual è il nesso che lega il clamore di un gesto alla scrittura espositiva di una mostra? Quanto di Maradona può rivivere nello spirito, e nel metodo, di Contestabile? Forse, la scelta di una certa immagine è uno sgarbo – lieve – al buoncostume, un’uscita meditata dai ranghi, dai codici che dispongono i modi degli attori che fanno il sistema, un microattentato che, seppur meno plateale dell’attacco frontale con cui El Pibe de Oro ridicolizzava i presunti “padroni” del gioco, agita comunque l’acqua tiepida, in bonaccia, del settore della critica. Traendo vantaggio dall’incertezza semantica della formula, Contestabile si fa perciò carico di un duplice obiettivo, la riflessione sul contesto, sul “dispositivo mostra”, e “la diversità di visioni che sostanziano l’articolarsi” della stessa. Proprio il suffisso –abile, del resto, porta in dote un elemento di virtualità, un delta indistinto di possibili esiti, e la ramificazione delle angolature critiche si esprime per mezzo della tripartizione curatoriale. Ognuna delle tre sale del Cluster, infatti, è stata affidata a un curatore diverso, che ha potuto lavorare in piena autonomia: predisponendo un discorso d’insieme, tematizzando una data problematica e individuando di volta in volta i profili artistici ritenuti più idonei al suo sviluppo, sempre “senza omologarsi a estetiche dominanti” ma, al contrario, tacendo le riverenze di circostanza dovute all’ospite, e mettendo da parte il rispetto-paura di chi entra in punta di piedi in casa d’altri. 

Nel primo ambiente, PermeabileDavide Silvioli porta il dibattito sul piano preliminare, teorico, delle interazioni tra opera e ambiente, tra contenuto e contenitore: “Permeabile – nelle parole del curatore – risponde all’intenzione di evidenziare il livello d’osmosi tra lo scenario di circostanze in cui avviene la primogenitura di un’opera d’arte e la sua costituzione”. Le tre prove pittoriche di Alessia Armeni (Roma, 1975), un dittico in medio formato (24 h_painting_rome_12_04_2021) e le piccole tele di Diario Segreto Fontanella, entrambe del 2022, inquadrano il problema della site-specificity: con che parametri si giudicano i poli di due dialettiche separate? In quali termini si valuta la permeabilità tra opera e contesto, quando la prima nasce e si sviluppa in piena autonomia da uno spazio destinato ad accoglierla solo in via temporanea? Nel caso specifico, si potrebbe azzardare, nella disponibilità di più sentieri, il percorso un po’ agè del formalismo. Un’inchiesta calibrata sui corpi minimi del fare pittorico – linea e colore – sembra infatti porsi come opzione più idonea alla morfologia di lavori dallo spiccato coefficiente d’astrazione. Nel ditticocompletato nell’arco di una giornata, la successione di 24 fasce verticali monocrome, equamente ripartite tra i due pannelli, corrisponde alla variazione della tonalità della luce che colpisce una parete bianca. Il risultato dello sforzo dell’artista è un concentrato limpido della scansione temporale, che offre, nelle parole del curatore, una sorta di campionamento della luminosità atmosferica, che rivendica la piena aderenza al piano, la sua flatness, e che esibisce platealmente i dati elementari, il livello di osmosi con il contesto è valutabile in termini di linee di forza e di accordi cromatici. Allestita lungo la parete corta adiacente l’ingresso, l’opera asseconda la verticalità del muro che l’accoglie, e la prossimità tonale delle bande permette un assorbimento lento, graduale della tela nel piano di superficie.  Affiancati a mezza altezza sul lato lungo di sinistra, i più recenti Diario Segreto Fontanella sembrano invece aprire, pur nella severità della composizione e nel rispetto di una veste cromatica sobria, a uno sfondamento nella terza dimensione. L’impaginato, pressoché analogo, dei due quadri, suggerisce la presenza di uno spigolo, di un angolo colto di sottinsù, da un osservatorio ribassato che chiude all’occhio la visuale completa della piattaforma. Se la ripetizione di un motivo è l’espediente escogitato dall’artista, il punto d’innesco che mette in moto un legame con l’angolo (vero) di imposta dell’arco, la pulizia lessicale e sintattica con cui Armeni tratta una prospettiva particolare e relativa frena ogni progetto espansionistico, qualsiasi sforzo con cui la pittura, rompendo le righe delle sue costrizioni strutturali, osa l’irruzione nella terza dimensione.

È con l’intervento site-specific di Genuardi/Ruta, duo artistico siciliano formatosi nel 2014 e composto da Antonella Genuardi (Sciacca, 1986) e Leonardo Ruta (Ragusa, 1990), che la tattica di guerriglia, con cui la pittura maschera la presenza, mimetizzandosi nell’ambiente, viene portata a compimento. Con Dentro un tripudio di sfumature si ergeva la montagna…uscimmo nella notte a visitarla (2023), i due artisti proseguono uno studio da sempre indirizzato alla ricerca della convergenza tra arte e architettura, al collasso tra la dimensione scenografica a supporto dell’opera e l’opera stessa, come chiarito nel corso di un’intervista rilasciata a «Exibart»: “Quello che ci interessa – affermano – è creare, attraverso il filtro architettonico, un habitat, una pittura abitativa”. Lo sviluppo di tali premesse è offerto in modo chiaro nell’intervento al Cluster, un’operazione in cui i due termini che fondano il “dualismo tra contenuto e contenitore” combaciano in tutto e per tutto, dove il polo dell’opera si identifica con quello dello scenario, e dove la prima altro non è che uno strato epidermico, una pellicola adesiva color arancio che attecchisce perfettamente alle strutture portanti. 

Con i lavori di Mattia Sugamiele (Erice, 1984) l’opera prova l’incursione nel cubo d’aria che designa il grande invaso della sala. Sugamiele piazza, lungo la parete di sinistra, una serie di oggetti, simili a cuscini, delle “forme aggettanti di pura superficie” in ovatta trattata che, invece di sprofondare nel piano parietale, aggrediscono il vuoto nutrendosi d’aria. Nel caso specifico di Aaeena, del 2023, l’ovatta è ricoperta da un tessuto specchiante; il pubblico, riflettendosi sullo strato anteriore dell’opera, e rivedendosi nella “pancia” del cuscino, avvia una seconda riflessione sul contesto come rete di relazioni anche umane. In altre occasioni, invece, l’impiego di tessuti più coprenti blocca il transito reciproco di stimoli visivi, l’interfaccia esterna si fa luogo di affari mai nati, terreno di negazioni impermeabile all’incontro. Se “L’atto di contestare – nelle parole del curatore – equivale comunque a imbastire formalmente una relazione”, ciò che resta alla critica è definire il segno di tale rapporto: mentre lo squarcio aperto dallo specchio prepara il terreno a una convivenza pacifica, l’opera – nel caso dell’infilata in verticale di Green Skin, Black Night, Saturno e Roze Rouza – prende senza mai dare, imponendo all’altro la propria presenza e sottraendosi al gioco paritetico e democratico del vicendevole scambio.  

Monica Mazzone (Milano,1984) propone due lavori ad olio, un’opera su tela (Un attimo prima un attimo dopo, 2022) in prossimità della porta d’accesso a un ambiente intermedio – recentemente sfruttato per i tre appuntamenti di City Mapping – e una scultura in alluminio, Decostruzione di un inizio, riconducibili alla pratica che l’artista definisce Geometria Emotiva, un’ipotesi di lavoro che mette al centro del processo la soggettività umana, traducendo impeti e umori nel linguaggio esatto della matematica: “La geometria emotiva – ha spiegato l’artista in un’intervista del 2021 – è un percorso di misurazione empirica degli stati emozionali, un discorso aperto e passionale di conoscenza del mondo”. In termini pratici, la metodologia adottata da Monica Mazzone parte dallo studio assonometrico della planimetria del luogo di destinazione dell’opera, rielaborato sulla base di funzioni matematiche che, a partire da “veri e propri sistemi algebrici di riferimento collegati alle proporzioni delle parti del mio corpo”, creano “numeri ed espressioni che disegnano letteralmente linee rette e curve con una connotazione umorale”. Il dato emotivo è poi esaltato da un catalogo tonale limitato ma comunque chiamato a bilanciare il fondo grigio dell’alluminio, indice della “desaturazione del pensiero”, del “silenzio metaforico dell’autosservazione” e della razionalizzazione dei sommovimenti interni della psiche. Tra di essi, il blu, fusione di viola e verde – colori preferiti dall’artista – è la “possibilità di fusione degli squilibri”, la sintesi concettuale di un “regime estetico coerente, in cui la coincidenza degli opposti viene raggiunta tramite la disciplina del calcolo e la ricerca di perfezione della forma”. Mazzone, di fatto, sottopone l’incommensurabile a un processo trascrittivo che non risparmia il territorio, o quantomeno la mappa – che ne è immagine sintetica e ideale – e che riunisce le estremità di emozione e raziocinio – “il dolore di un angolo” –  in strutture dalla scala propriamente umana, microambienti che giustificano l’assunto secondo cui “anche la forma ha una sua formula”. 

“Come uno squarcio su una parete – scrive Niccolò Giacomazzi, curatore responsabile della seconda sala – l’intervento artistico si insinua nel nostro tempo, talvolta ponendosi da collante altre come punto di rottura di due universi con sfumature apparentemente opposte”. Lo spazio, accessibile dalla piccola sala prestata alle conferenze, formalizza un’altra unione, l’incontro/scontro tra le dimensioni del pubblico e del privato, la cui distanza, come suggerisce il titolo della stanza, è di 37 cm. “Nella numerologia – continua il curatore – tale valore simboleggia l’intuizione, la saggezza e la conoscenza”, tutti attributi di una figura, l’artista, chiamata a occupare questo spazio, a prendere possesso del distacco e a riallacciare i capi opposti nella singolarità dell’opera. 

Nella grande tela di Attraverso il buco (2023)di Flavio Orlando (Roma, 1991), lo spazio intimo per eccellenza, il bagno, è stato già violato, con buona pace dei benpensanti. Chi è dentro non lo sa, ma l’occhio esterno del voyeur è già entrato nella manciata di metri quadri che definiscono il privato. Rompendo le logiche che individuano nella finestra il perimetro del compromesso, l’area disponibile allo sguardo altrui, Orlando scava una nicchia apparente nella profondità del muro, un cubicolo che, se per secoli ha dato casa a santi e martiri, oggi accoglie il suo rovescio, l’uomo comune che cresce e si gonfia, che non ha altri antidoti all’anonimato se non quello della sproporzione anatomica. Quello di Orlando è un corpo gigante, che affida allo squilibrio tra le parti di alimentare “una individuale mitologia del sé”, che non riesce a trattenere l’ironia in eccesso, il sovraccarico di verve grottesca e che, forse, non si è preso mai sul serio. 

Ne La notte degli oggetti desiderabili (2023), Dario Carratta (Gallipoli, 1988) dispone il corpo nudo di un essere vagamente androgino, addormentato e sdraiato, sullo spessore in muratura di una finestra (?) in presenza di una luna magnetica, che attira a sé le masse di nubi come un centro di gravità. Il volume affusolato sembra sciogliersi, l’addome è ritratto, il corpo della pennellata è un liquido denso e il fuoco fonde la cera di candele tenute in piedi da rigoli prensili, artigli quasi d’arpia. In direzione contraria rispetto al cammino di Orlando, Carratta sposta lo sguardo nel luogo in cui il privato si apre al mondo, al pubblico, e nello specifico all’inconscio collettivo che raduna gli archetipi del sacro. L’artista, molto attento alla dimensione del sogno e al dominio della psicoanalisi – già dai tempi dell’Accademia, percorso concluso con una tesi sul saggio Il Perturbante (Das Unheimliche) di Sigmund Freud – ha già chiarito, in passato, come le teorie psicanalitiche avessero fornito il substrato teorico del suo lavoro: “Nel rappresentare un sogno – commenta Carratta in un’intervista rilasciata a “Inside Art” – in realtà si comunica con tutti, perché gli archetipi di base della nostra società sono uguali e fanno parte del nostro inconscio collettivo”. Il recupero di una certa sacralità nel vivere, prima ancora che nel fare arte, la pesca continua da un archivio iconografico condiviso, fortemente connotato in senso simbolico, potrebbe offrire un valido piano di fuga: in un mondo che canta la messa ai preti, in una civiltà che ha espulso il pensiero magico e lo ha rimpiazzato con la scienza – a volte a ragione, altre volte crollando nel fanatismo – c’è chi snobba il sarcasmo come panacea, la macchina celibe della dialettica negativa, l’autocritica ferma alla dogana della diagnosi. È questa, allora, la notte degli oggetti desiderabili? Notte come tramonto, forse, come sipario chiuso? Notte come punto e a capo? Epilogo di un certo modo di stare al mondo, o premessa per una nuova era? 

Il filosofo Paolo Virno, scrive il curatore, definisce il concetto di moltitudine come “una nuova forma di soggettività sociale e politica”, in grado di “generare una nuova creatività collettiva volta alla condivisione e alla relazione tra singoli individui”. Una moltitudine dove i corpi tornino a farsi presenze concrete, a illuminare il buio, come nell’installazione di Wang Yuxiang (Anhui, 1997). In La solitudine di cento miliardi di soli di notte, del 2023, l’artista posiziona le ante di tre finestre lungo l’intera altezza della parete corta della sala. Alcune luci, anche se fioche, disseminano barlumi di speranza, e se oggi ogni finestra chiusa suona come allarme, e ogni varco cieco è testimone del silenzio, del “distacco disorientante tra gli individui”, allora nel migliore dei domani i cento miliardi di soli si tramuteranno in Soli, e nella solitudine gli individui, fiaccati dalla deriva del dialogo, torneranno finalmente a splendere. 

Se nel primo degli ambienti il discorso imbastito da Silvioli prende una direzione più spiccatamente teoretica, la seconda è pervasa dal pensiero della crisi, dal dubbio esistenziale che assale l’uomo, un’entità percepita come angusta e messa, se non al bando, quantomeno in discussione. Una questione su cui ormai, da decenni, la speculazione filosofica prospera: dapprima con la svolta linguistica, con la morte del soggetto e dell’autore, con Barthes, Foucault e gli altri apostoli della dissoluzione, e, in un secondo momento, con tutto il filone del postumano, del pensiero cyborg, con l’ammissione – e l’annessione – della protesi tecnologica e con il conseguente allargamento della categoria del naturale. Nella sala, la crisi trova sfogo primario nel trattamento del corpo, e la massa che ci identifica, il volume di materia che occupiamo, parla di sé come di un mutante: distorto (Orlando); leggermente allungato (Carratta); totalmente assente, svanito nel nulla (Wang). Tre approcci diversi, che rispondono ad altrettante visioni sul medesimo interrogativo: se Flavio Orlando tratta il dubbio con ironia e disincanto, e Carratta prova invece a reincantare il mondo per mezzo dell’arteWang sceglie la via dell’azzeramento e del letargo. La selezione di Giacomazzi, quindi, palesa l’incompatibilità di fondo tra un insieme di proposte, e pertanto contesta l’idea di contesto come spazio di un’offerta coerente.

Allestita in uno spazio di risulta, nell’ambiente che fu del custode del palazzo, Post Scriptum, a cura di Davide Maria Mannocchi, tenta l’avventura in una Storia che ci vede nuovamente analfabeti, sprovvisti, dinanzi al suo scorrere, delle maglie e dei setacci per catturarla. Scegliendo come titolo per lo spazio a lui affidato, la locuzione latina che designa “l’annotazione sfuggita, il residuo non calcolato”, Mannocchi riunisce gli artisti Davide Serpetti (L’Aquila, 1990) Valerio D’Angelo (Roma, 1993) incaricandoli di delineare un tracciato cinico, un ecosistema che si faccia carico di un compito ingrato, mettere l’uomo davanti alla sua stessa codardia. Non siamo più in grado di suonare la carica, di colmare le prime linee di una nuova avanguardia: limitandoci a prendere la scia al caposquadra, accodandoci ai campioni certificati, siamo onesti scribacchini, messi a vergare solo note a piè di pagina e restii a passare a un nuovo capitolo. Del resto, il successo conclamato del prefisso –post nelle scienze umane, se da un lato “ci rammenta quanta poca sussistenza abbia la parola fine”, dall’altra è il sintomo primo del buio adolescenziale che ha ammalato le ultime generazioni, lente allo svezzamento ed incapaci di allontanarsi dal grembo materno. Il piccolo tratto che lega quel prefisso alle sue possibili combinazioni (Post-umano, Post-moderno ecc.) continua a permettere, nell’atto della scrittura, la visualizzazione di categorie “superate” (umano, moderno ecc.) ma rincuoranti. In ogni caso, il tratto unisce come divide: “Nel suo etimo di derivazione greca (κρίσις) – prosegue Mannocchi – la parola crisi proviene dal verbo “giudicare, dividere, discernere”. Il tratto è quindi anche una fune, tesa a scadenza ignota: se non è chiaro ancora il “quando” del punto di rottura, l’imminenza del suo arrivo è un’ipotesi che convince. “Quando una certa epoca è “in crisi” – scrive il curatore – significa che è impegnata, forse ancora inconsapevolmente, a emanciparsi da sé stessa”, e nel coro dei piagnistei, nella litania dei lamenti di chi ha perso la bussola, servirebbe ritrovare del coraggio, zittire i sacerdoti dell’ultimo giorno e “cavalcare” lo stallone con la fermezza necessaria. Ripartire, ma da dove? Azzerare di nuovo la tabula, passare un’altra, l’ennesima, mano di bianco, o piuttosto convocare i detriti della memoria, per riassemblarli in complessi inediti? Messo di fronte a un bivio, il curatore prende la via del frammento, quel residuo che da solo “è metafora di salvezza”; ciò che, strappato dalla sua totalità “continua a sopravvivere e apre nuove scenari […] nutriti dall’incognita e dal mistero”. 

Le cinque tele di Davide Serpetti colmano il divario che corre tra la coscienza della frattura e la fondazione di un’identità successiva. Nei due piccoli formati del 2022 (The sleep of reason produces colors Birth) domina la logica del rimpasto: i volti, appena abbozzati, si imbarcano, con qualche riserva, sulla nave che solcherà il flusso degli eventi: su di un fluido in moto perpetuo, un mare che non ghiaccia mai, restio a trovare la pace e la forma, le creature di Serpetti viaggiano con gli occhi chiusi, riaprendoli pochi mesi dopo, nei lavori più prossimi. È il caso delle tre tele pensate per la mostra, il prototipo Untitled e le due sculptures of anything goes (#1 #2)Ispirate alle statue dei corridori al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN), le due statue – non concepite come parti di un dittico, ma in qualità di opere autonome – sono il frutto finale di una metodologia a più livelli: ultimato il “guscio”, la struttura portante – la medesima per entrambe le tele – Serpetti può inventare, penetrare nella cavità di questi corpi per liberare un gesto allegro e generoso; dalle cromie ricche e squillanti brulicano le forme ancestrali di un “brodo primordiale” in cui giace il segreto dell’arte. Qui, spiega Mannocchi, “È il nucleo la vera eredità”, e se “il soggetto di queste figure […] la nostra perpetua trasformazione”, questa dinamica non restituisce angoscia o rassegnazione. È il mandato dell’arte, che si assume la responsabilità della creazione, e che se ne compiace. 

È quindi il narcisismo, indagato da Valerio D’Angelo, il principio che al netto delle esuberanze patologiche è a fondamento del processo di costruzione identitaria. Le strutture in pellicola dicroica su plexiglas – una delle quali è appunto intitolata Narciso – addolciscono il fiato caldo del pessimismo: le colpe dei padri non ricadano sui figli, e non si accollino ai nuovi nati le responsabilità del naufragio. “Dobbiamo guardare il nostro oggi con affetto e compassione”, scrive Mannocchi, perché “occorre rivolgere carezze senza timidezza alle nostre guance, bandire l’idea che alla fine sarà solo ombra”. Le colpe dei padri non gravino sulla discendenza, ma la stessa prole trovi ancora il coraggio di guardare, di osservarsi e di osservare ciò che la circonda, di studiare il contesto, nell’accezione più vasta di mondo, per contestarlo – come ha fatto il curatore, dando un ruolo da protagonista a un ambiente gregario e ribaltando le gerarchie consolidate – e per riprogrammarlo daccapo. 

Contestabile
Permeabile

(Alessia Armeni, Genuardi/Ruta, Mattia Sugamiele, Monica Mazzone)
a cura di Davide Silvioli
La distanza tra pubblico e privato è di 37 cm
(Dario Carratta, Flavio Orlando, Wang Yuxiang)
a cura di Niccolò Giacomazzi
Post Scriptum
(Valerio D’Angelo, Davide Serpetti)
a cura di Davide Maria Mannocchi

Contemporary Cluster
Palazzo Brancaccio, Via Merulana, 248, Roma
07.06. – 12.07.2023
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