1. “ … Tutti i cyber-telegrammi, che circolano attraverso le nuove forme di medialità, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone, ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, o addirittura ad un singolo soggetto, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza propria. La mattina del 15 Walter si alzò di buon ora, con estrema discrezione si vestì e cominciò a provare quell’aggeggio per la «performance capture». Con la precisione di sempre aveva preparato gli abiti fin dalla sera precedente: erano quelli buoni della teatralizzazione della sua immagine, lavati e sistemati per l’occasione, tanto che Walter ne percepiva il profumo di bucato. Avrebbe indossato anche i bianchi calzini lunghi e i sandali così lustri che sembravano usciti or ora nuovi dal negozio. Fu proprio nel calzare questi che fece cricchiare la vecchia sedia della Camera. A quel rumore il giovane Walter si alzò seduto sul letto sgranando gli occhi rivolti allo schermo. “Aspettami!” disse “Vengo con te” a quella dimostrazione di Performance Capture. “Ma no!” rispose Gisèle, “dormi è ancora molto presto, ti aspetto più tardi a teatro”.
La giovane Gisèle ricadde sdraiata sul letto, ma fu un attimo, poi, di nuovo, scese ed andò a riaccendere quello schermo e quella macchina da presa.
“Ehi! … su forza dammi quello smartphone, quei telecomandi e quei libretti di istruzione!”, ma Walter spostò gli occhi verso lo schermo e la guida delle istruzioni per la ‘PC: «La performance capture è una tecnologia cinematografica che permette di catturare movimenti ed espressioni facciali di un soggetto reale per poi applicarli ad un personaggio virtuale. Tecnica utilizzata per la prima volta da Robert Zemeckis nel film ‘Polar Express’, è stata poi adoperata e perfezionata da James Cameron in ‘Avatar’. Per permettere alla «realtà di diventare animazione», agli attori viene fatta indossare una speciale tuta di scena che, ricoperta da moltissimi sensori (fino a 300) registra e cattura i movimenti e le espressioni facciali eseguite. In questo modo, viene creata un’immagine virtuale che riproduce perfettamente i movimenti degli attori».
Raccontando l’allucinata vicenda di “un inconscio tecnologico”, di nome Walter, che in qualche modo si potrebbe definire indicativo e tendente ad una statua parlante, trovandosi a interpretare personaggi diversissimi tra loro nel corso di un’unica giornata, il curioso regista non manca di inserire un segmento in cui il primo attore è chiamato a girare una scena in Performance Capture. Ricostruendo un «set politicizzato», Walter Carax presenta il suo personaggio al buio, con la speciale tuta coperta di sensori luminosi, convertendolo in una sorta di prototipo originario dell’attorialità più pura e restituendo allo spettatore solamente l’essenza della performance. L’importanza di questa sequenza, visivamente molto suggestiva, è duplice e riesce a coinvolgere anche la passione di Gisèle: se da una parte si sottolinea come la performatività contemporanea non possa ormai prescindere dall’esistenza della Performance Capture, dall’altra ci suggerisce come quest’ultima rimandi direttamente alla quintessenza della recitazione, estrinsecando l’attore dall’organicità e conservandone solamente il nucleo, l’immagine del reale. Del protagonista resta visibile solo il flusso di movimento degli arti, che si interseca a quello di una comprimaria femminile, in un intreccio di moti ed energia, a suggerire la natura assolutizzante della Performance Capture che, paradossalmente sembra riportare la recitazione allo statuario: “facciamo finta che”, costringendo l’attore a fare i conti con il proprio alter ego senza l’aiuto di alcun orpello. Alla base di tutti i costrutti digitali non vi è che un interprete svestito, su un nudo palcoscenico, solo con il proprio lavoro: il fatto che manchi la compresenza spazio-temporale del “qui ed ora” e che possa esserci un dislivello fisico tra il performer e il proprio alter ego filmico non pare importante. Bisogna ribadire però che i punti di vista attinenti all’impiego di questa tecnica (in continua evoluzione) sono molteplici e variabili. La possibilità di dirigere «statue parlanti» che si fanno foglio bianco, inserendoli a piacimento su un set da costruire secondo le necessità e avendo la possibilità di migliorare i loro connotati, amplifica enormemente il talento del regista. Più simile a una divinità creatrice che mai, l’autore arriva non solo a raccontare una storia, ma perfino a poterne tratteggiare i personaggi secondo la propria volontà, un po’ come accade per i film di animazione, ma contando su un valore aggiunto: il dato umano nel confronto simulacrale. Se un’animazione può beneficiare di un buon team di tecnici e, nel migliore dei casi, di un efficiente doppiatore capace di restituire energia a un disegno, un essere realizzato con la Performance Capture è a tutti gli effetti un protagonista, che può essere forgiato a immagine e somiglianza della regia. Il cineasta dirige i suoi protagonisti sul set, esattamente come avviene nel cinema tradizionale (in live action), e poi ne straluna la fisicità attraverso la computer graphic, trattandone immagine e azione, portandolo a compiere imprese che i riduttivi limiti del corpo umano non consentirebbero. Addirittura, può utilizzare lo stesso artista per interpretare personaggi dissimili, cercando di conoscere le abilità mimetiche e sfidandone i limiti: può ricondurre in vita i morti. Se è vero che si trova a tirare i fili di un corpo che diventerà Altro sullo schermo, dovendo affrontare in qualche misura una sorta di spaesamento, è anche vero che potrà correggere a posteriori ogni difetto, avvicinando il più possibile il risultato finale alla propria intenzione. Per un regista contemporaneo che non ha paura di cimentarsi con l’indagine digitale, la Performance Capture non può che esporre una miniera di opportunità, liberando la mitizzazione attoriale da quella schiavitù dell’organico temuta da Antonin Artaud e trovando un’immensa tavolozza da riempire a piacimento con le proprie idee, illimitatamente, o per meglio dire, limitate solamente dai restringimenti del budget. Dal punto di vista attoriale, la stima si fa più flessibile. La relazione che il corpo instaura con la propria immagine è stata infatti oggetto di numerose attenzioni speculative in tutte le sue sfumature: dal rapporto con il riflesso speculare a quello con l’ombra, al tema, infinito, del doppio: il simulacro virtuale. L’attore, il cui corpo viene «catturato» tramite dispositivi di controllo e modificato secondo il volere del demiurgo, è costretto a confrontarsi con un «altro da sé» mutevole e ineffabile: il proprio riverbero digitale.
Come un Narciso contemporaneo, Walter vede la sua immagine, se ne innamora, oppure la detesta, riconosce se stesso o nega di appartenervi, ma non può toccarla, né appropriarsene del tutto. Diventa allora simile a Peter Pan che vede la propria ombra ribellarsi nel tentativo di emancipare per sempre dalla dittatura del corpo e come il noto giovinetto se la cuce ai piedi, cercando di detenere il controllo ultimo sul suo performare, attaccandosi insomma alla propria immagine, vestigia ultima della propria identità, alienando la propria ombra per denaro e diventando un essere meticcio, difficile da schedare. Perturbato (diremo con Freud) da un doppio che sfugge alla propria supremazia animale, manipolato da entità esterne, il divo deve imparare a conciliarsi con il mezzo tecnologico, trovando una via per riunirsi felicemente al riflesso digitale, permeandolo con la propria insostituibile individualità. Se riuscirà nell’intento, la Performance Capture diventerà senz’altro un modo per mettere in pratica il sogno di Antonin Artaud e svincolare le proprie capacità dall’ingombro fisiologico. Come nel caso sviluppato da Walter, vi sarà un divario da colmare tra la propria immagine e quella restituita sullo schermo del simulacro, con i connotati stravolti tanto da perdere addirittura la propria umanità: diventerà mostro, creatura fantastica o animale, si vedrà invecchiare o ringiovanire, si farà Altro nel senso più puro e assoluto del termine. Tuttavia riuscirà anche a ritrovare se stesso nell’immagine umbratile dello schermo, attraverso il proprio sguardo, la propria voce, le proprie movenze: in un conflitto troverà il suo io in un Altro, rimanendo insostituibile e unico, diventando onnipotente.
Di conseguenza, tale caratteristica è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta denigratoria, ove anche intesa in senso lato che presuppone la destinazione delle medialità alla divulgazione nell’ambiente sociale. Le ricerche in questa direzione hanno innanzitutto rintracciato un salto concettuale molto forte, tra l’età che precede l’ingresso nel teatro e quella immediatamente successiva. La principale differenza tra gli attori pre-teatrali e post-teatrali riguarda gli attributi della performance capture come indicatori di spettacolarità. Ecco di seguito il caso di Walter e Gisèle, due performer che vivono nello stesso contesto registico, ma sperimentano in modo assolutamente diverso il senso delle proprie e altrui abilità espressive.
2. Il popolo dei social media vedendo che “il fotografo prescelto” tardava a scendere dal suo studio alle rampe di Pizzofalcone, si affollò intorno a Cristoph-Walter e gli disse: «Facci una macchina fotografica – come un iphone – che cammini alla nostra testa, perché a quel catturatore di realtà, la donna che ci ha fatto uscire dal Paese del Diluvio, non sappiamo che cosa sia accaduto. Un simulacro designa un’apparenza che non rinvia ad alcuna realtà dietrologica, e pretende di valere per quella stessa realtà. La parola deriva dal latino simulacrum, Terracotta, Struttura, e «indicava» da principio l’immagine o la rappresentazione di una divinità, in special modo nelle camerette dei templi, oggetto di culto nell’antichità. Questo, almeno, il senso greco di “εἴδωλον” (eidôlon) e la parola idolo in latino, e che è tradotto come “simulacro”, in opposizione all’icona, “εἰκών” (eikôn), traslata come “copia”: la copia rinvia sempre per imitazione al reale, senza dissimulare il reale stesso (come indaga il Sofista di Platone). L’eidôlon si contrappone allora all’eidos o idea (ἰδέα), tradotto come “sagoma” (e presente nel Cratilo). Il concetto di simulacro è presente, inteso in quanto eidôlon nel Sofista, ma anche, in un senso radicalmente differente, nella teoria edonistica degli epicurei (in particolare di Lucrezio ed Epicuro, dove appare il termine “simulacrum”). Per alcuni l’effigie è la rappresentazione della verità che sottende, soprattutto in ambito religioso. Per il concetto di Statua-Parvente si veda anche la parola “ad instar”. Diciamo la verità, una cosa che in arte resta quasi impossibile: questa diffusione di “Algoritmi Luminosi”, «Robot specializzati», “intelligenze artificiali resistenti” e Simulacri al margine della loro stessa apparenza, non cancellano l’animo umano, bensì lo rielaborano, lo montano, attivano il vecchio sistema-collage fondendosi col sistema cut and mix, lo miscelano secondo formule nuove e nuovi meccanismi di compenetrazione che, grazie all’avanzare dell’ “Antropologia delle Macchine”, cerca di mettere in crisi la vecchia disposizione della realtà materiale per riformularsi in una idealistica e frammentata molteplicità di ciò che vediamo, di ciò che mediaticamente digeriamo. Il mondo esterno appare sempre più in una dinamica di immagini e in una perenne molteplicità di cinematografi spettacoli). Nessun’altra parola d’ordine oggi domina il discorso pubblico quanto il termine statua. Essa è enfaticamente invocata soprattutto in riferimento al “Nuovo Pasquino”. L’onnipresente richiesta di messaggi anonimi, contenenti per lo più opinioni e componimenti satirici contro i governanti, messaggi spesso detti (nell’antica Roma) pasquinate (del Social Media), che si radicalizza nella feticizzazione della rete, risale ad un cambiamento dell’arte istituzionale. La società delle Statue Parlanti cede, oggi, di fronte a una società nella quale l’espressione del Simulacro è costantemente soppressa a vantaggio di una minorità utopica che Ri/recita la narrazione dell’avanguardia. Perciò la società delle NUOVE STATUE PARLANTI costruite sui SOCIAL MEDIA si manifesta in primo luogo come società del POSITIVO … Le cose diventano apparenza che raffigura una realtà senza esserne la copia (ovvero una riproduzione d’arte) in quanto entità che ha significato di per sé e per sé stessa come immagine della dispersione presentificata diviene nuova realtà. Le azioni filmiche hanno doppia valenza quando – attraverso i Social Media – formano operazioni mediali, quando si sottopongono a un processo di “critica superficiale” e si abbandonano alla proiezione su uno schermo. Il profilmico diventa trasparente a se stesso, tutto ciò che compare davanti alla macchina da presa, si riduce alla successione di un presente disponibile. Il profilmico è un tempo senza destino, ed è improntato su un fattore naturalistico, si libera da ogni drammaturgia per rendersi pornografico. Gli algoritmi vanno in direzioni diverse, opposte, con una reinvenzione del visivo e delle forme di vita ed una esplicita artificialità, che spesso si manifesta come salvezza reale. Il denaro, che si nasconde sotto l’immagine filmica, quindi, riprende e riproduce il profilmico, mettendolo, poi, in quadro e trasformandolo in qualcosa che è simultaneamente uguale e differente. La società del simulacro è un Inferno dell’uguale. L’immagine del racconto cinetico, l’algoritmo dello spettacolo (rassicurante) si raddoppia con la sua valenza di duplice assenza(essente, essenza), subdola illusione. La riproduzione filmica è la fotocopia di una riproduzione. La riproduzione filmica è l’apparenza della somiglianza alla realtà, una coercizione sistematica che coinvolge tutti i processi sociali e li sottopone ad una trasformazione virtuale. Il sistema sociale espone oggi tutte le Statue dell’Avanguardia ad un obbligo di trasparenza, al fine di svuotarle del metodo che le reggeva e di accelerarne la medicalizzazione apolitica. La pressione dell’accelerazione mediatica va di pari passo con la simulacralizzazione della negatività. La medialità raggiunge la sua massima velocità, là dove la statua parlante risponde alla chiacchiera del “monumento processuale”, dove ha luogo una reazione a catena dello specchio del simulacro». Questo giudizio è purtroppo esatto. Ed anche se da quel tempo adesso sono trascorsi molti anni, le cose non sono affatto cambiate in nulla. Problemi e difetti restano ancora tutti, sia la carenza d’immaginazione e la riluttanza per la fantasia contro-simulacrale, sia un’ignoranza di fondo verso le regole delle forme più elementari di sintassi e di ortografia cinematografica. Le statue infatti continuano ad eludere le frasi dei social media come acqua dalle maglie di una rete, e pure il gusto dei paragoni come si può facilmente constatare, è piuttosto argilloso e difficile da lavorare. Le similitudini, al di là dello sguardo delle statue, aiuterebbero la chiarezza d’una descrizione, ma l’immagine dell’acqua melmosa che sfugge all’immagine di una rete,è, comunque sia, un esempio troppo umido e dilavante.
3. Vorrei raccontare qualcosa, ma mi sono scordato. Qualcuno, per cortesia, può darmi un “la”? Grazie, ora dovrei esserci. La mia voce, manco a dirlo, suonerà grave e profonda. Forse anche un po’ roca. Il mio anti-monumentalismo non riesce a cambiarmi le corde da più di sei mesi, il che per un basso elettrico da registrare in un nuovo videoclip equivale ad una discreta artrosi. Se sono qui è solo perché voglio far continuare a parlare Walter. Dunque, facciamo parlare Christoph-Walter! In un gruppo il fotografo è sempre o quello estremamente equilibrato o quello banalmente estremo. In entrambi i casi, a mio parere, ci si perde. Christoph degli avverbi non sa che farsene. Non gli servono. Quando mi suona è capacissimo di evocare le sirene di un aereo e le sirene di Ulisse, nonché di unirle martellando quando serve ed esplodendo quando vuole. Ma questo non serve certo a scagionarlo, vero?
Allora sentitegli dire le sue cose. Ieri sera, durante la risistemazione dello studio di regia, Gisèle è venuta a salutarlo. Lui l’ha portata dietro allo sgabuzzino delle attrezzature, dove erano gli strumenti musicali, fotografici e cinematografici e dove ero anch’io, chiuso nella custodia della meditazione. Ho sentito i loro passi, leggermente affrettati, interrotti all’improvviso. Vestiti spostati, spodestati dai corpi, un contatto infinito, silenzioso ed eloquente. Respiri, appena disturbati da rumori di gente lontana. Quando dopo un tempo non calcolabile, Walter mi ha tirato fuori e si è sgranchito con qualche scatto verso il set! Christoph-Walter rispose loro, ovvero il coro di suggeritori poc’anzi emerso: “Togliete tutto l’oro che ha addobbato le vostre cose e le vostre casseforti e portateli a me”. Tutto il popolo tolse i monili che ciascuno aveva gelosamente conservato in forma di NFT, blockchain e quant’altro e li portò a Christoph-Walter. Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un sofisticatissimo android, un pregiatissimo smartphone fuso in oro luccicante. Allora dissero: “Ecco il tuo Simulacro, o popolazione di fotografi, colui che ti ha fatto uscire dall’Accademia Fotografica Analogica e ti ha fatto fare il salto nella realtà!”. Ciò vedendo, Christoph-Walter costruì uno studio/Simulacro ad hoc davanti al web e al pregiatissimo smartphone e proclamò: “Domani sarà festa in onore del Simulacro d’Oro (detto anche Photophone)”. Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono servizi fotografici infiniti e satellitari. Il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per darsi alla fantasmagoria della merce …
scattò,
scattò,
scattò
e poi caricò su FB, Istagram e tutti gi altri social: icone, immagini, simboli, allegorie, performance, eventi, cronache, documentario, frammenti di realtà, film, musiche, suoni, dialoghi, conversazioni, poi si alzò per darsi al divertimento …” (Libretto delle Istruzioni (in lingua originale); Capitoletto: Esodo Smartphone 32, 1-6).
4. Christoph-Walter e Asia-Gisèle, pensando al sostituto della “Chambre Claire, provavano una profonda gratitudine verso la smartphone d’oro: avevano visto sgretolarsi il loro studio-Simulacro pieno di ricchezze analogiche, pellicole di film e quant’altro e la loro vita era tutta da ricostruire; la forza di quel l’accumulatore di “Algoritmi sociali” era intervenuta con potenza e tutto si era ricomposto. Christoph-Walter, uomo molto sensibile, era giunto alle soglie di un forte esaurimento nervoso; bramava vivere una vita piena da saggista e da fotoreporter, dinamica e ricca di immagini di cronaca e, giunto a quarant’anni, si era trovato a condurre una vita totalmente opposta.
Scoprì quanta ipocrisia ed affarismo si nasconde nell’uso dei “social media”; fu deluso dallo spirito di realizzazione che trovò negli ambienti del volontariato che aveva cominciato a fotografare e ad inserire in performance capture; non provava alcun interesse per il denaro e la carriera accademica e, di conseguenza, cercò la pace rifugiandosi nel privato e nel perfezionamento di quella scoperta che gli veniva dal montaggio delle sue vecchie immagini fotografiche, messe in cinema, e che lui chiamava: video-grafemi da performance capture. Anche nel matrimonio si cavalcavano insidie che Walter non si aspettava di trovare: nonostante desiderasse donare tutto il suo archivio saggistico e fotografico ad Asia (lei che era il nome di quella strada a senso unico), quello che prevaleva nel loro rapporto era l’interesse per la performance capture.
Il risultato di tutto ciò fu che Walter precipitò in una crisi ancora più profonda: si sentiva schiavo dell’incapacità di rinnovare la sua ricerca filosofica e del non senso della vita di critico. Anche Asia, stanca di vivere con un uomo sempre concentrato sui propri problemi, cominciò ad essere schiava di un malessere profondo: in quale scatto fotografico appariva quella strada a senso unico, in quale progetto o disegno si rovesciavano tutte quelle istruzioni della performance capture? Lei, oltre al non senso della vita e alla difficoltà di raccogliere la sua ricerca fotografica e video, era oppressa da un altro problema: il tempo del reportage era passato e la maturità letteraria si stava avvicinando a grandi passi al sistema totale delle “Statue Parlanti”: quindi, forse era giunto il momento di circoscrivere la ricerca foto-video in un campo semiotico, che insieme alla musica ed alla parola riuscisse a salvare dei video-grafemi? Una persona serena può aiutare un infelice ad uscire dal suo isolamento, due infelici rischiano di distruggersi a vicenda; questo fu quanto accadde a loro. Walter cominciò ad alienarsi con il gioco, divenne un assiduo frequentatore della Biblioteche. In un anno collezionò quasi tutti i libri del repertorio di Filosofia della Biblioteca Centrale di Berlino. Asia non disdegnò la compagnia di altri performer sottoposti a quella tecnologia; in pratica si ritrovarono entrambi slegati nei loro bisogni: insoddisfatti dell’esistenza e con una condivisione complessa.
La loro vita di letterati e di fotografi sembrava essersi incanalata su un binario morto. Fu allora che la passione per la realizzazione di brevi clip sull’esito dei concerti e delle prove sulla performance capture intervenne usando tutta la sua forza e sonora curiosità. Donò loro il suo spirito, li colmò di interesse, regalò loro un cuore nuovo, un cuore capace di performare tra le Statue.
Fu un periodo quello denso di avvenimenti e di scoperte. Asia ebbe il coraggio di confessare i suoi problemi con la Rivoluzione tecnologica; Walter superato il momento dell’ira, provocato da una simile confessione, trovò con la grazia del teatro, la capacità di capirla. Ritrovarono il gusto del dialogo tra di loro; provarono, uno per l’altro, un profondo sentimento di appartenenza a quel lavoro video che si risolveva in “videografemi capture”. Walter abbandonò il suo studio-Simulacro fotografico; Gisèle si rassegnò ad accettare l’idea del montaggio sonoro, anche perché la consapevolezza della grammatica cinematografica rendeva la prospettiva del decadimento meno preoccupante.
– Quando penso a che punto eravamo giunti, senza letteratura, mi vengono i brividi – soleva ripetere Walter.
– Se non fosse stato per la misericordia della poesia e della musica, ora staremmo ognuno per conto proprio infelici e distrutti – rispondeva Gisèle.
– Hai ragione. Tutto il male, però, non viene per nuocere, grazie a tutto quello che ci è accaduto ho scoperto l’amore per il cinema ed ora non posso che provare gratitudine per Pier Paolo Pasolini. Per quel che mi riguarda, ho deciso di cambiare vita: basta avanguardia fine a se stessa, basta liti con gli scritti di S. Kracauer, basta tutto; da oggi voglio consacrare il totale senso dell’autoripresa alla letteratura nel cinema, alla narrazione della PC, alla predisposizione della scrittura analogica nella scrittura digitale.
– Anche io, rispose Gisèle, sono della stessa opinione.
Da quel momento la loro vita cambiò veramente; ogni giorno dovettero affrontare i problemi che affliggono due lavoratori del mondo dello spettacolo: l’educazione alla macchina da presa, la mancanza di denaro, problemi di crowdfunding, difficoltà di rapporti con attori, direttori della fotografia, dirigenti casting, ma lo Spirito che li animava dava loro la forza di essere, comunque, dei comunicatori.
5. Passarono due anni e la memoria di quell’intervento della PC cominciò ad affievolirsi. La routine della vita lavorativa, e il non riuscire a risolvere i nuovi problemi che si affacciavano in quel periodo, insinuarono nella loro mente che il Grande Simulacro si fosse dimenticato di loro.
Vivevano nuovi problemi, erano insoddisfatti della gestione dei social, come mai il Simulacro (dell’Algoritmo) non ripeteva i suoi prodigi? Li aveva condotti a trovare quella pace e poi li aveva abbandonati? E se quegli impegni di un tempo nel mondo del cinema non fossero stati frutto di un miracolo ma delle loro capacità? E se tutto fosse stato frutto del caso? Questa idea cominciò ad albergare nel loro animo e quando se ne impadronì totalmente partorì un ulteriore pensiero: se Simulacro non era intervenuto nella loro ricchezza digitale, evidentemente, non li amava in modo particolare. Se Simulacro non li amava, allora non avevano bisogno di lui e, se erano già stati capaci una volta di liberarsi da soli dalle schiavitù, chi impediva loro di farlo di nuovo? Quest’idea cominciò ad albergare nel loro animo e, quando se ne impadronì totalmente, partorì un ulteriore pensiero: se Simulacro non era intervenuto nella loro vita, evidentemente non li amava in modo particolare.
Sicuri di poter dirigere da soli la propria vita, certi che nessun ostacolo era insormontabile, affrontarono il futuro contando sulle proprie forze e, questo, li esaltò. Si sentirono liberi ed euforici.
Privi di ogni freno e limite, si abbandorono ai propri desideri fino a giungere ad infrangere ogni potere dei social media con il risultato di ritrovarsi, dopo un certo periodo, tristi e soli nel proprio studio-Simulacro e sui propri set.
Indietro non potevano più tornare, avanti non vedevano una via di salvezza e la loro situazione divenne più penosa di quanto lo fosse stata un paio d’anni prima. Allora cessò il silenzio del Simulacro e del PC; si manifestò un’ennesima volta nella loro vita indicandogli una strada nel deserto. Ripresero il loro cammino con il Simulacro e fra di loro, perché ora avevano capito che, staccandosi dall’Alleanza con le Statue Parlanti e le atmosfere da Performance Capture, e confidando solo nelle loro forze, erano destinati alla sofferenza.
6. La Performance Capture, forse più di ogni altra tecnica, permette all’attore sociale di farsi sostanza malleabile, perché incorporea, nelle mani del regista e allo stesso tempo mantenere un saldo legame con la propria particolarità performativa, apponendo un autografo impossibile da contraffare alla propria creatura. In questo modo, si questua il tradizionale divario tra immagine digitale e corpo attoriale. Senza trucchi, travestimenti, né attrezzature di alcun tipo, l’interprete viene abbandonato alla propria performatività, tornando al teatro di strada, al black box, alla nudità della finzione assoluta. Walter diventa così un pupazzo con l’anima, i cui fili vengono manovrati in parte dal suo demiurgo (Simulacro; statua parlante) e in parte dalla propria creatività. Anche per il performer le possibilità realizzative si moltiplicano: può arrivare ovunque, sganciandosi dal proprio corpo e allo stesso tempo mantenendone il controllo. Walter e Gisèle possono interpretare diversi personaggi, o mutare di aspetto senza doversi sentire soffocati dalla gravezza di bautte deturpanti, possono sperimentare liberamente l’intera gamma significativa. La Performance Capture però, rispetto all’artificio tradizionale, permette maggiore libertà di movimenti ed espressione, mantenendo più salda l’identità del corpo che va ri/scrivendo. Agli occhi del sociale la Performance Capture resta ancora un mistero da chiarire e vi si guarda con la diffidenza di chi teme che il dilagare dei mezzi digitali e della computer graphic possa in qualche modo cambiare il set in una officina tecnicistica, facendo del cinematografo un prodotto sintetico e privo di anima (il Nuovo Gabinetto del Dottor Calligari). La Performance Capture sembra rappresentare quel trait d’union tra organico e inorganico: senza che nessuna delle due parti prevalga sull’altra e senza che nessuna possa sopravvivere se privata dell’altra, per lo meno in questa forma. Per quanto il cinema digitale sia ancora in evoluzione, e le regole dell’immagine siano da riscrivere di pari passo con i cambiamenti introdotti dalle nuove tecniche, diventa chiaro come sia necessaria un’apertura alla tecnologia, elemento ormai
irrinunciabile e costitutivo del processo di creazione artistica. Appare allora possibile, anzi inevitabile, una conciliazione del tecnico con l’umano, per riscrivere una nuova morfologia del cinema che possa beneficiare del valore aggiunto di infinite possibilità realizzative. La produzione industriale tramite il pc si ricongiunge all’artisticità: sonora, con la musica elettro-acustica ed elettronica, visiva, con la computer graphics. Se si riuniscono le arti derivate dal pc sotto il nome di “nuova medialità” (l’equivalente visivo della tecno-scienza), nulla vieta a priori di considerare la possibilità che ciò che ancora appare come una semplice minaccia critica, o un’attrazione da spettacolino da camera, del genere “pre show”, con altre piattaforme fruitive e cinema dinamico, possa assurgere al rango di critica dell’avantgarde.
Perché mai, l’avantgarde “immateriale e mediale” non potrebbe partorire un giorno un’estetica originale, alla maniera del materiale foto filmico di una volta? Le “nuove medialità”, relegate fino a oggi negli effetti speciali, nei titoli di testa televisivi o nei videogiochi, offrono in modo del tutto pianificato evidenti possibilità ricreative, vivificando il meraviglioso dei testi d’avanguardia con nuove sperimentazioni. Integrando l’astrazione all’audiovisivo. Si delinea un «nuovo barocco all’orizzonte?». Come scrive Norman Mailer: «qualsiasi prodotto della tecnologia tende oggi a entrare nell’atto della creazione, così come una volta avveniva con l’arte»(Mailer, Marilyn, Dalai Editore, Milano 2012, p. 82.). Tecnologia e creazione artistica, lungi dall’essere in contrasto tra di loro, diventano oggi elementi “inizianti” della nuova performatività, e dunque del nuovo cinema, costruendo un flusso inedito, i cui esiti, come Walter e Gisèle, «restano ancora da svestire». Il poco più che quarantenne Walter – come lo era Gisèle – al tempo delle performance dei Just Stop Oil – si scopriva affascinato dai soggetti del sit in e delle sovversioni ecologiste del pianeta, che lottavano così come si sperimenta in arte o forse più dell’arte: forze autentiche, fresche, prive dei condizionamenti culturali e politici delle generazioni precedenti (quelle avanguardie che hanno spostato i movimenti sociali nei movimenti artistici e creativi: confondendo arte e politica), pronte a mettere da parte le masturbazioni mentali dei narcisismi avanguardistici, pronti ad immergersi nell’anonimato della rivendicazione collettiva ed umanitaria. Spiriti scaltri e coraggiosi che hanno provato a farsi carico di un cambiamento epocale e pronti ad evitare di farsi sommergere dall’ignavia del sistema estetico.
Oggi nella società della trasparenza i pregiudizi oculati dell’arte e della pubblicità non permettono di vedere la performance necessaria dell’indignazione sociale. La rete dei creativi ha portato a compimento il processo di trasformazione del dissenso in performance apologetiche del simulacro. Hanno trasformato la lotta di classe come una lotta contro se stessi. Il neoliberismo artistico fa sì che il necessario si esaurisca da solo: la società liquida propone la produttività artistica, proprio grazie ad un’illusione di liberalismo che nasce e muore nell’arte, sfruttata in tutte le sue forme ed espressioni, dalle emozioni alla comunicazione politica. Il compito del futuro dei movimenti sociali sarà proprio quello di trovare una nuova libertà. Non si tratta dunque di rifare la storia a partire dalle rappresentazioni o dalle intenzioni degli attori di teatro, dal loro vissuto incomunicabile (per dirla con N. Poulantzas). “Si tratta di ricostituire – come dice Jean Pierre Faye – e di analizzare la produzione di quel prodotto sociale che è l’enunciato attivo e riferente (relatore), o di cogliere quanto fanno gli uomini dicendo” (Il geroglifico sociale. Ideologia dei linguaggi e semantica della storia, in Classi sociali, articolazione e potere, Cappelli, Bologna, 1979, p. 76).