Broken nature. La natura si è rotta (di noi)

Presentata “Broken Nature” alla XXII Triennale di Milano. Il tema: la crisi ambientale. Ma è davvero possibile affidare al design la soluzione ai problemi ambientali? Nell’articolo una ragionata risposta

Il rischio peggiore nelle questioni ecologiche, e questa è una paura di cui la collettività dovrebbe fare esperienza al più presto, è che parlando delle trasformazioni subite dal pianeta terra, e parlandone in modo ancora antropocentrico, egoistico, o solo per destare fascino… il rischio peggiore, ripeto, è che venga assegnato un valore carico di spessore, anche se non dimostrato, e cioè non valutato ontologicamente, a quelle idee che, analizzate attraverso dei semplici calcoli logici, risultano invece in opposizione a qualsiasi questione davvero inerente l’ecologia.

Quando questo passo sarà compiuto, le idee, insinuandosi pian piano nelle menti collettive, purtroppo radicheranno la loro presenza, causando una violenta cancrena. In questo modo l’impegno per eliminarle, per ritornare a quei momenti che precedevano tale crisi, sarà sofferente; poiché l’itinerario che condurrà a una sognata soluzione avrà caratteristiche paradossali, trovandosi di fronte a miti sociali sacralizzati, difficili da estirpare*.

Be’, prima di raggiungere la sognata soluzione, al fine di non perdere la preziosa vita degli “ambienti” sociali e naturali, con urgenza ci scontreremo -per assorbirla, è chiaro- contro un’etica che non riconosceremo più: cioè contro quell’etica funzionale che non ha mai riflettuto su valori che vadano oltre al valore intrinseco della vita. A peggiorare la situazione sarà il tempo a disposizione: ridottissimo, inferiore ovviamente alla quantità dei disastri stratificatisi.

La vera sostenibilità, termine che meriterebbe analisi a parte, è evitare che accadano “celebrazioni”** ecologiche, oggi davvero diffuse e martellanti, che non propongono né satira (mi auguro che la parola non venga fraintesa), né piattaforme progettuali, né inviti al sapere. La vera sostenibilità è evitare che le questioni ecologiche vengano travestite da “occasioni”. La vera sostenibilità, insomma, è evitare: e per svariate ragioni. Una ragione è la citazione seguente, che non commento perché desidererei venisse letta metaforicamente (trovata in Pietro Stancovich, L’agricoltura naturale nell’800, Libreria editrice fiorentina):

«Nel Castello di Sanvincenti un seme di fico vegetò nella fessura del muro di una torre quadrata costruita tutta di grandi macigni di marmo. […] Questo fico nacque, crebbe, e sfiancò quel cantone di marmo colla semplice influenza dell’aria»***.

La cattiva dimensione dell’ecologia contemporanea sta raccontando che essa è entrata nella sua fase di declino, contrariamente a quanto qualcuno intende illudere. A testimoniarlo sono le modalità con cui i temi vengono trattati: protestano gli adolescenti simpatici e malinconici, come la sedicenne Greta, vengono diffuse informazioni sugli effetti terapeutici della natura in libri effervescenti, alla Clemens G. Arvay, e l’economia contemporanea comincia a sbirciare l’ecologia tentando un (fallimentare e ridicolo) matrimonio…

Il declino è associato a una collettività apparentemente “impegnata”, o meglio reclutata militarmente alla sostenibilità, senza idee proprie maturate pedagogicamente, la quale -mi pare evidente, troppo evidente- non è concettualmente pronta ad accogliere l’accozzaglia orgiastica proposta, manchevole della formazione prevista (mi spiego: la collettività, “motore” ideologico dell’ecologia, non essendo pronta accoglierà tale accozzaglia ludicamente, e di utile non rimarrà nulla).

Rendendo sostenibili i nostri consumi, decrescendo felicemente, inondando il mondo ossessivamente di un design presunto “sano”, differenziando i rifiuti (per produrre altri rifiuti) e sprecando quelli buoni, innalzando verticalmente giardini al cielo, e altri inconvenienti, ci lasceremo sulla terra e alle spalle i problemi delle questioni ecologiche, e proporremmo soltanto scelte che avranno lo scopo di immunizzarci. In altre parole, faremo maggiori danni, avremo più muri, più “antibiotici” concettuali pronti a difenderci, e il peggio continuerà a vivere intorno a noi.

Osservando per un po’ l’orizzontalità e della terra, il suo “non aggiungere altro che essa non desideri” (l’etica funzionale alla quale sopra accennavo viene da qui), trarremo quella saggezza che la cultura occidentale ha temporaneamente dimenticato. Tuttavia, ripeto: ciò ha senso solo se anteporremo la formazione alla “celebrazione” green, il sentimento della natura all’azione umana, la narrazione alle scienze, un’etica che con coraggio distrugga il marcio a un’etica da spargere come zucchero a velo sulle ferite di Madre terra.

*I miti sociali guidano le collettività, donando loro ordinamento e “filtro” con cui osservare il mondo. Spesso descrivono ciò che è adatto e fungono da sintesi per l’ampio ventaglio di misteri che la realtà offre.

**La “celebrazione” alla quale ci si riferisce è la mostra “Broken nature” (ma il senso dell’articolo è estendibile), e la critica qui sollevata si rivolge unicamente alla terminologia adottata. Ecco il comunicato stampa: “La XXII Triennale di Milano pone un interrogativo quanto mai urgente: come possiamo restituire alla sfera naturale quanto in questi secoli, e in particolare negli ultimi decenni, le è stato sottratto?”. A porre la domanda è il presidente della Triennale di Milano Stefano Boeri, durante la presentazione della XXII edizione […]“.
Ancora una volta, come in molte altre in questioni ecologiche, il soggetto proponente rimane l’uomo, cioè quello stesso ente che è causa dei problemi (come possiamo restituire…, recita il comunicato). La natura, purtroppo, riveste ancora il ruolo di una sterile e immobile entità, non bene identificata, su cui intervenire, forzatamente. La natura, purtroppo, riveste ancora un ruolo neutro, e non quello di un essere, vivente alla stregua nostra, da ascoltare, da interrogare, da vivere; ovvero non alla stregua di un contenitore su cui «intervenire» guidati da chissà quale paradigma.

***La citazione ha un’unica motivazione: mutare il nostro sguardo. Così deve essere intesa.

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.