Ganriele Perretta, Ecoart01, macchia mediterranea invisibile, agosto 2008

Arte senza politica … Crisi dell’agire ecologico

È sempre più facile,infatti, sovrapporre la propria identità politica al proprio profilo creativo, la persona al numero dei suoi follower artistici, ed è sempre più difficile ricordarsi che si tratta solo di un avatar estetico, di un simulacro che fa arte ecologica, land art, eco art e soprattutto arte politica che azzera l’antagonismo. Non è più l’artista a dover assomigliare al militante politico, ma la persona dell’artista ad esprimere i valori della politica. È l’identità reale ad essere funzionale all’identità virtuale della land art. È la vita a servire come opera d’arte utile al metaverso. Quella in cui viviamo è una società in cui ciascun narcotismo artistico è costretto ad avere un’immagine politica, una socialità inautentica, che è costretta a costruire e che potrebbe essere la sua salvezza o la sua rovina.

Fino a non più di una quarantina d’anni fa, l’immagine che il pubblico medio aveva del teatro sociale e politico era costituita da una serie di elementi, o tratti che ne rendevano il concetto assai specifico e, tutto sommato, di relativamente facile definizione: un’azione, una manifestazione sindacale, un comizio, una rivendicazione, la conquista di un governo o di una efficace opposizione, la ricostruzione di un territorio, un piano economico, un piano agrario, etc … Come ricordava Lenin all’XI Congresso del Partito: “Non è serio, in politica, contare sulle convinzioni, la devozione e le belle qualità dell’anima”. Come ricorda Noam Chomsky: “Né il Partito democratico né la sinistra democratica diranno alla gente: «Vedete, il vostro problema è che negli anni Settanta siamo stati tra i fautori di un processo di finanziarizzazione dell’economia e di svuotamento del sistema produttivo. Per questo il vostro salario e il vostro reddito ristagnano da trent’anni, mentre la ricchezza prodotta rimane nelle tasche di pochi. Tutto questo è il frutto delle nostre politiche».”. Lo stesso Alcide De Gasperi, nel discorso tenuto a Milano il 23 aprile 1949, accettò che “La politica vuol dire realizzare”. Questa immagine della politica non è mai stata messa radicalmente in crisi, anzi oggi torna ad essere l’immagine del fenomeno politico-teatrale 4.0, essendo venute meno le condizioni culturali che lo spingevano, qualche anno fa, ad accettare con piacere ed interesse diverse soluzioni, che lo rendono politica vera o politica fittizia! Una certa forma di perbenismo, un certo gusto per le complessità narcotiche della società in cui viviamo, per le dissociazioni delle situazioni e dell’intelletto collettivo, respinge sul fondo altre proposte e fa pensare al teatro politico come al teatro tout-court.

Gabriele Perretta, ecoart2, macchia mediterranea invisibile, agosto 2008

Cos’è la politica? E cosa vuol dire essere politici? Dipende dall’epoca e dalla cultura di appartenenza; dipende soggettivamente dalla propria sensibilità e dai gusti. Insomma è cosa opinabile, quindi è impossibile dare una definizione univoca di politico. E ancora ci sono grandi politici che non vengono considerati in vita, mentre «polituncoli» che vengono celebrati come dei grandi autori: sberleffo, «derisione sistematica e senza freni», insomma bisogno di ridere obbligatoriamente. La società narcotica attuale, per chi la scopre in televisione, è sotto il giogo di una sorta di «umorizzazione della politica o del politichese» nella quale la figura dell’artista, che imita i politici di professione, ha assunto un vero e reale potere. Una comicità, quella dell’attore che «parodia il politico», per niente negativa, anzi. D’altra parte gli stessi operatori governativi della società dello spettacolo, caduta buona parte delle motivazioni ideali che li spingevano alla ricerca di nuovi progetti civili e sociali, impauriti all’idea di una applicazione che cominciava a diventare routine liberale, di un avanguardismo fine a se stesso, ovvero soltanto cabarettistico, messi in crisi dalla fulminea obsolescenza delle nuove proposte, hanno in gran parte preferito tornare a insistere su modelli “più o meno fascisti”; forse argomentando che anche all’interno di quei modelli le varianti repressive, confusionarie, decadenti, comiche, artistiche sono talmente numerose (leggi anche omertose e fictionali) da permettere qualsiasi simulazione. Così l’immagine prevalente, l’attesa dominante torna ad essere quella “sala di governo” con quegli attori che recitano una storia autoreferenziale dell’arte d’avanguardia, magari dadaista. Per certi aspetti è grazie a comici come il politico di turno, diventati ormai veri e propri specchi dell’Occidente, che s’intuiscono e percepiscono meglio i fatti della società e, soprattutto, della politica. Non a caso la parola di un attore che prende in giro tutti i politici e tutta la politica è più ascoltata di quella di un governante. Il mondo è oggi rivestito di linguaggi  simulacrali e governativi che non ammettono altro se non lo spirito del capitalismo. Si è prodotto così un familiare spazio consensuale, dal quale sono eliminate ogni negatività e ogni estraneità al potere, uno spazio di risonanza estetica in cui lo spirito politico incontra solo se stesso e la sua estremistica artisticità. Esso ricopre il mondo del Comando, per così dire, con la propria pelle di regime. È capace di produrre consenso, perché a differenza del politico che fa sogghignare, l’attore invece rimuove, dissuade, sconsiglia, perché è un brillare senza quel noioso e ripetitivo dibattito che suscita tedio e disdegno. Ma allora, qualcuno potrebbe pensare, in Europa o in Occidente, mentre i simpatizzanti di Spengler realizzano il loro progetto definitivo (mi riferisco ironicamente a Il Tramonto dell’Occidente), tutti se la ridono? Non è proprio così. È vero però che essere seri di questi tempi, oppure non partecipare alla «società dello spettacolo» insieme agli altri, rischia di essere una “svaloriale” accusa di moralismo o nel migliore dei casi di «qualunquismo intellettuale», che è come cadere dalla padella nella brace. Una cosa è comunque certa, non c’è spettacolo d’informazione politica che non inizi o finisca con l’ondata di risate comiche: il Simulatore docet. Al punto che una trasmissione d’informazione politica, senza l’intervento dell’attorialismo, che dissimula o oltraggia il politico di turno, ridurrebbe i suoi ascolti di molti punti percentuali. A spiegarne il successo non basta sicuramente il fatto che viviamo in un’epoca repressiva e offuscata da una sorta di “metafisica dei costumi” e che di conseguenza «fa bene ridacchiare ». No, non basta.

Secondo le parole di Angelo Shlomo Tirreno è la «fatigue d’être soi», del trash! Potere è il verbo modale del rischio e della narcosi. La totalizzazione della facoltà di narcosi, che i rapporti di produzione neoliberisti conseguono oggi con la forza della creatività, rende l’io cieco nei confronti dell’altro, in tal modo la pratica narcotica della politica porta all’espulsione dell’altro. La sindrome da greenwashing e la depressione climatica sono i deserti che la natura narcotica della facoltà di potere lascia dietro alla sua stessa maschera. Il greenwashing si manifesta in una forma diversa di stanchezza, e cioè come una stanchezza per l’Altro, ovvero non è più una stanchezza per l’Io. Così la morale politica parla di performance invece che di body art. La sclerosi primordiale indica una passività radicale, che sottrae all’io ogni iniziativa. Essa inaugura il tempo della maschera mediale truccata. La performance, invece, nasce dal tempo del Sé. L’ambiguità primordiale tra l’artistico e il politico apre ad uno spazio transitivo per ogni teatro e per ogni televisione. “Di fronte all’Altra maschera politica, io sono indifeso, sono ambiguo per l’altro”. Soltanto attraverso una fenditura in uno spettacolo televisivo, soltanto attraverso una inanità nella bugia politica in quanto bugia, soltanto attraverso una debolezza dell’Essere, l’Altro si rende presente. Anche quando l’artistico abbia soddisfatto tutti i suoi bisogni, resta comunque sempre in cerca di un palcoscenico. I bisogni concernono il Sé, anzi collassano nel Sé. L’orbita del politico sta al di fuori del Sé. Non è soggetta alla forza gravitazionale del Sé governativo, che invischia la corruzione sempre più profondamente in se stesso. Questo peso ontologico della spazzatura cresce in modo smisurato all’interno dei rapporti neo-estetici di produzione e di riproduzione artistica. La massimizzazione del peso ambientalista, identitario e greenwashing ha in definitiva lo scopo di aumentare la sclerosi identitaria dell’arte ecologica: basta dare un’occhiata a 474 risposte di Penone/Elkan (di recente uscita: Bompiani 9/022).

Una pennellata di verde alla comunicazione dell’arte povera, dialogata con Alain Elkann, non è sufficiente a catturare la fiducia del collezionismo green. L’esserci dell’artista che può più del politico non è mai stanco. L’instancabile facoltà di dominio della conoscenza estetica ed espositiva, l’enfasi del potersi crogiolare nella macchina simulatoria della politica green domina la sua scelta greenwashing, come sostanza allo specchio di se stessa e del proprio delirio tardo-duchampiano (o pardon tarlo-duchampiano). La morte dell’arte stessa è compresa dall’artista medio come una possibilità eminente di confondere il Merz-bau nel Merz-Dead: di fronte alla retorica della morte dell’arte si risveglia un enfatico “je suis la révolution de l’art”. Per Angelo Shlomo Tirreno la morte dell’arte, quella dell’agire ecologico-effimero, si manifesta coerentemente come un non poter-potere, come radicale passività di una vuota retorica borghese, pregna del diritto di trasformare anche il Programma di Gotha nella segregazione dell’impolitico! Le preoccupazioni sull’intenzionalità “eco-bio-logica” della «critica acritica» di Germano Celant si annunciano come quell’evento di fronte al quale l’artista depone ogni «situazionalità ecologica» del sé, ogni critica del potere, ogni possibilità, ogni iniziativa che non muoia nella chiacchiera estetica dell’ecologia espositiva!

Il non-poter-potere di fronte alla replicazione sociale dei rapporti di produzione, che “l’a-criticità eco-bio-logica” chiama eros, nei fatti si chiama semplicemente fotografia:

“Il concetto di standard morale va però al di là di questa visuale. È il suo tratto eminente. Dove infatti in precedenza si esigeva esemplarietà morale, il presente esige riproducibilità. Il presente riconosce come giuste e conformi allo scopo solo quelle modalità di pensiero e di comportamento che, accanto alla loro esemplarità, mostrano anche la loro apprendibilità. E precisamente qui si richiede più che la loro apprendibilità da parte di un numero illimitato di singoli. Si richiede piuttosto che tali modalità siano immediatamente apprendibili dalle masse” (W. Benjamin, L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica (1935/36), a c. di S. Cariati, V. Cicero e L.Tripepi, Bompiani, Testi a fronte Milano 2017, p.25). 

Il greenwashing massificato di opere d’arte sta dunque in connessione non solo con la produzione massificata di oggetti industriali, ma anche con la riproduzione appiattita di atteggiamenti green e di lavori apparentemente ambientalisti. Trascurare queste connessioni vuol dire privarsi di ogni mezzo per determinare la funzione odierna dell’antagonismo ecologista e della critica dell’economia politica dell’ecosemiosi.

È quanto evidenzia uno studio condotto da The Fool utilizzando – insieme a Brandwatch e GWI – la piattaforma Audience. I risultati, pubblicati e relativi al periodo luglio 2020 / giugno 2022, confermano l’accresciuto interesse dell’Italia per le tematiche ecologiche. Il greenwashing, cioè l’insieme di strategie di marketing che fanno passare come ecosostenibili i brand impattanti sull’ambiente, costituisce il freno all’acquisto dei prodotti di un marchio per quasi un italiano su due (48%). Il Greenwashing non convince: il 42% degli italiani non si sincera della propaganda «verde». Come si veicola il greenwashing nello stadio estetico-politico? Il greenwashing, prospera attraverso la pubblicità. Più in generale, nel 2021 lo studio annuale Sweep della Consumer Protection Cooperation, ha segnalato che su 344 slogan (green claim) riportati nelle confezioni di prodotti provenienti dai supermercati europei, il 42% ostentava qualità ecologiche false e sleali.

La percezione dei telespettatori, ascoltando i monologhi che burlano il politico di turno, è quella di essere informati ridendo, o forse di accertarsi che finalmente è avvenuta la trasformazione radicale, ovvero: il politico è un’artista e il comico è il vero antagonista. Ad esempio, non è tutto oro quello che è green: sebbene il connubio tra finanza ed ecosostenibilità stia crescendo e cominci a dare buoni frutti, non mancano gli ostacoli sulla strada di un’economia davvero e totalmente rispettosa dell’ambiente. Facciamo il punto sull’agire spettacolare dell’ambientalismo: sviluppo sostenibile significa continuare a crescere, ma con un occhio di riguardo per le future generazioni. Anche il mondo della finanza, che nell’immaginario collettivo è caratterizzato esclusivamente dalla presenza di avidi speculatori, si è fortemente concentrato sulla prospettiva di generare plusvalore economico. La finanza sostenibile, in particolare, nelle parole molto più che nei fatti, si pone l’obiettivo di creare valore nel lungo periodo, indirizzando i capitali verso attività che non solo generino un plusvalore economico, ma siano al contempo utili alla società e non siano a carico o a detrimento del sistema ambientale. Un ingrediente che si rivela essenziale per il comico, e per altre forme d’arte che hanno abbondantemente superato la politica o addirittura l’attivismo ecologico, tramite l’esperienza della land art, dell’eco art o della earth art, è la forma dell’estetica politica. Sarà buono, sarà efficace? Forse qualche dubbio viene, nonostante la qualità dei monologhi comici che hanno sostituito il nome della critica politica e delle scienze politiche in generale. E poi gli italiani non chiedono di più. Ascoltano in tv quello che vorrebbero fosse loro raccontato. L’artista, l’autore teatrale nonostante il suo aspetto positivo di risata intelligente, rischia di diventare deleterio alla formazione di una coscienza critica. Perché il ruolo che tradizionalmente era appannaggio dei giornalisti, degli scrittori o intellettuali, oggi è occupato dal fantoccio estetico-politico che si è visto dare più potere e presenza. E così l’artista recita la sua forma attoriale (infatti la sua stessa forma politica), con un talento enorme, il ruolo del comico che fa ridere e nello stesso tempo, quello di commentatore politico, di moralista per dirla in parole semplici. In quest’ottica il comico non è più, come poteva esserlo una volta, un’arma per lottare contro il potere, ma ne è un suo prodotto, ovvero un prodotto della forma artistica della politica. Un sistema che produce la propria presa in giro, interna, senza che questo lo rimetta in causa anzi, per certi versi lo conferma. La prova che si tratta di ratifica del sistema che pretende deridere, è fornita dal cachet del comico, dalla macchina di produzione della risata politica, dal frastuono mediatico che si comunica. Tutti, dunque, attori appropriatisi della funzione politica, protagonisti di uno stesso copione, di una stessa commedia, si adattano allo spazio propagandistico. In un convegno su “La Fine della Politica?” (del 1984), quel kamikaze di Jean Baudrillard diceva che “La classe politica poi ha smarrito la sua specificità: il suo elemento non è più tanto quello della decisione e dell’azione: paradossalmente, la decisione viene assunta in un ambito analogo a quello dei videogame. L’essenziale non è più essere rappresentativi, bensì essere collegati. Del resto, gli interventi dei politici si riducono il più delle volte a questa sorta di partecipazione straordinaria, di collegamento che è anche esibizione. Noi non siamo più oggetto di convinzione ideologica, ma solo elementi di contatto. Così i politici perdono la loro aura specifica, e possono essere sostituiti da personaggi provenienti da un’altra scena […] dagli attori, con il concorso dell’immaginario forgiato dai professionisti dei media. Ciò non vale solo per gli attori: la regola non esclude eventualmente gli intellettuali, gli specialisti, ecc… purchè le loro caratteristiche professionali possano riassumersi in una prestazione spettacolare” (Editori Riuniti, Roma 1986, p.34). L’artista professionista che fa parte di questo sistema, ne ha perfettamente capito gli ingranaggi e vi opera da tecnico degli affari pubblici, più professionale del suo sé artistico ed estetico. La maniera in cui prende in giro la politica ha addirittura portato al risultato che ormai i politici vanno in televisione e sono contenti di farsi coprire di ridicolo e di sarcasmo. La doppia inquadratura dell’Attore-politico e del politico di turno in TV lo dimostra chiaramente. Tutto è studiato alla perfezione. Per i politici essere nel mirino del comico è mediaticamente un bene, significa che finalmente l’arte ha scavalcato la politica fronteggiando sia le certezze di Lenin, che quelle di De Gasperi e di tanti altri. Per questo l’arte ha surclassato anche l’ecologia della mente e, mentre i politici vengono presi in giro e non sempre in maniera rispettosa, il potere della recitazione trionfa sul collasso della realtà politica. Questo perché ormai molti artisti, senza saperlo, si sono fatti erigere dalla politica, in una maniera nuova, come il braccio secolare e armato del potere.

Certo, ci sono sempre stati artisti vicini al potere, ma forse mai come in questo momento gli artisti sono il potere stesso. C’era una volta La società del prenarcotismo, il saggio dell’attore che si apriva, parafrasando Marx/Debord, con la tesi lapidaria: l’intera vita delle società liberali in cui dominano espressioni politiche e poteri forti dell’oligarchia liberale, si annunciano come un immenso accumulo di narcosi. Tutto ciò che era direttamente vissuto dalla stupefazione politica si è allontanato in una rappresentazione mediale. Era il 1984, l’anonimato writerista di Città senza Confine si faceva portavoce del clima che di lì a poco avrebbe portato alla sostituzione della politica in art pour l’art e, prendendo in prestito il lavoro di Marx, compiva un’opera di riscrittura che metteva brutalmente la società contemporanea davanti ad uno specchio narcotico, mostrandole cosa stava diventando lo spettacolo artistico: un sistema di finta politica, dominato dall’apparenza dell’arte, controllato da mezzi mediali in grado di indirizzare qualsiasi disegno politico verso uno schermo artistico. La trasformazione da politici a lavoratori dello spettacolo si era ormai compiuta e il capitalismo stava già realizzando il passo successivo: trasformare i politici in protagonisti del sistema dell’arte, colonizzare il loro tempo libero – lo spazio pubblico, lo spazio della sfera pubblica – con una finzione artistica che li avrebbe allontanati ancora di più dalla critica della vita quotidiana. Il politico, infatti, era soltanto un artista che non sapeva di recitare: non si rendeva conto che il suo intrattenimento e i suoi desideri erano doveri funzionali alla trasformazione del mondo in un grande ready-made. Cos’è cambiato, a poco più di trentacinque anni di distanza? Città senza confine aveva visto bene o era semplicemente una provocazione che voleva vestire i panni di una rivoluzione culturale destinata al fallimento? La trasformazione da politici ad artisti si è effettivamente completata e sta lasciando oggi spazio a un altro terribile passo: la trasformazione da artisti a greenwasher. Ogni zoon politikon, che vive in una società tecnologicamente avanzata, che ha accesso al web e ha un profilo su un social network, è automaticamente un partito politico, cioè un brand, un simbolo, un’attività destinata a fare mitologia politica: “Evola dichiara in sostanza che la Tradizione e la civiltà altra si sono definitivamente ritratte da questa fase della storia del mondo, e che quindi non bisogna più sperare in una salvezza proveniente dal rapporto individuale con quella Tradizione: non si può più far altro che difendere la propria interiorità in perfetta apolitìa, “bisogna applicarsi al problema puramente individuale consistente nel far sì che “ciò su cui io non posso far nulla, nulla non possa fare su di me […]”. Nel dominio politico e sociale non esiste più nulla che meriti veramente una piena dedizione e un profondo impegno” (Furio Jesi, Cultura di destra (Milano 1993, p.79), che cita Il Cammino del Cinabro, Milano, 1972, pp.198-208). Se non sei online, e non condividi ogni aspetto della tua esistenza, – anche il più insignificante alla «cittadinanza» πολιτεία (Sinon. di apolidìa) artistica – politicamente non esisti, il tuo progetto greenwashing muore, e dunque muori anche tu. Basta poco per far sparire il valore politico dell’apolitìa o darti il successo dell’artistar: è insufficiente una sola performance e quindi, tramite l’urna elettorale del rosatellum, siamo veramente tutti «artisti acritici», tutti agiamo come protagonisti dell’arte povera, della body art e dell’arte sociale. La società del teatro della politica 4.0 è una società che divora tutto, rende tutto narcotico – cioè qualcosa attorno al quale è possibile creare un mercato del greenwashing, fare marketing ecologico, green hype. I politici, che in certe trasmissioni partecipano alla loro stessa desacralizzazione e alla loro derisione, non fanno altro che il gioco del farsesco. E la narco-espressività dello schermo lo sa bene. Sa bene che non prende nessun rischio nel ridicolizzare i politici, dato che il vero potere non è più nelle mani dei politici, ma come sempre è rimasto allo stesso posto dov’era: nel dio denaro.

Per i politici la loro presenza agli sketch televisivi vale la loro esistenza e sanno bene che la gente non perde una sola puntata dell’estetica mediale diffusa. In questo senso, il buffo è diventato un politico potente, non certo perché una delle sue battute possa rovinare la reputazione di un artista, ma perché il fatto stesso che lui ne parli lo fa esistere agli occhi della gente. Buffone e Re, saltimbanco e attore professionista, performer e cabarettista nello stesso tempo, inventore di happening, il nuovo politico si presenta come un dandy assai incisivo. L’atteggiamento che oggi è più richiesto, è quello dell’impertinenza, ma non nel senso d’irriverenza, sfacciataggine o altro simile, no. Impertinenza nel senso proprio etimologico del termine, cioè di mancanza di pertinenza. Essere im-pertinente è esattamente l’opposto della pertinenza, che è poi sinonimo d’autorità, proprio ciò di cui oggi ha bisogno globalismo e nazionalismo. E allora ecco che assistiamo alla risata di compagnia, una compagnia di beati benpensanti, caratteristica principale della nostra epoca. Sopprimere i problemi attraverso una clamorosa risata, con la convinzione in più che nemmeno ci seppellirà. Una facciata land-artistica per coprire le pratiche inquinanti: più aumenta la concretezza ecologica, più avanza il greenwashing. Infatti, virare verso la sostenibilità costa, ed è un costo di cui non tutti si fanno carico, soprattutto per i politici che nel frattempo, grazie al consiglio del pensiero progressista-liberale sono diventati tutti artisti. Di contro, il riferimento alla sostenibilità ambientale ed etica diventa sempre più importante per attrarre i consumatori e aumentare il credito del brand. Secondo un report della Commissione Europea, pubblicato nel 2021, nel 42% dei siti web aziendali presi in esame, le affermazioni di posizionamento eco-friendly sono green claim ingannevoli e pratiche commerciali sleali. Essere performatici alla propria espressione non significa semplicemente essere liberamente biopolitici. Il sé artistico è anche un carico e un peso, che si esaurisce nella zona estetica. Essere artisticamente sé significa essere un peso per la propria estetica, un peso per l’estetica in generale che si consuma dentro al proprio circolo vizioso. In sostanza, significa essere un disvalore per l’arte sociale stessa! A proposito dell’essere ecologico attivo ed antagonista Herbert Marcuse scrive:« Iniziando con una verità ovvia, dirò che oggi qualunque forma nuova di vita sulla terra, qualunque trasformazione dell’ambiente tecnico e naturale è una possibilità reale, che ha il suo proprio luogo nel mondo storico. Noi possiamo fare del mondo un inferno, anzi come sapete siamo sulla strada. Ma possiamo anche farne l’opposto. Questa fine dell’utopia, e cioè il rifiuto delle idee e delle teorie che si sono servite di utopie per individuare determinate possibilità storico-sociali, oggi possiamo anche concepirla come fine della storia, nel senso che esse costituiscono una rottura con il continuum storico e con il passato»(La fine dell’Utopia, Bari 1967 p. 9). Il pronome riflessivo soi(tanto usato da E. Levinas) indica che l’io artistico è inchiodato a un pesante alter ego, che il Sé, come dimostra l’opera – squinternata – di «Piero Barducci (uno e due) (nonché la pagina FB che rappresenta il gruppo Rottamiamo l’Arte inutile: https://www.facebook.com/groups/870028786343481»), impegnata ad illustrare gli aforismi-visivi di Angelo Shlomo Tirreno, grava su un macigno, produce un surplus di sovrappeso che non è più in grado di abbandonare. Questa costituzione esistenziale ma nello stesso tempo catastrofica si manifesta come il paesaggio narcotico-bioinfestato medio (PNBIM ). Lo sforzo della sua sedimentazione non risiede semplicemente in una mente narcotica che traccia il peso della sua rappresentazione, ma in un gesto che rappresenta ciò che rifiuta anche quando l’ha riciclato.

Gabriele Perretta, in sabbia, mediterraneo, agosto 02, 2008

Quelli che fanno la raccolta differenziata come me, in una città ostile alla forma ecologica sostanziale, sanno bene che quando si arriva ai cassonetti dell’immondizia, e ci si confronta con il gesto del «depositare e distinguere», si rivive il ciclo biologico dei resti. Attraverso lo sversamento e il contatto degli odori, dei sapori, dei consumi tradotti in immondizia l’esercizio si fa confuso, nel senso che miscela esistenza, corpi, masse di spazzatura e ansie globali. La raccolta differenziata può essere interpretata come un riflesso patologico della moderna attenzione alla soggettività ecologica. Secondo le parole di Angelo Shlomo Tirreno, essa è la fatigue d’être soi del trash! Questo peso ontologico della spazzatura cresce in modo smisurato all’interno dei rapporti neo-estetici di produzione e riproduzione artistica.

Un altro giovanissimo lavoratore è morto schiacciato da una lastra di due tonnellate mentre si trovava in una fabbrica metalmeccanica per uno “stage”, istituito dal famigerato percorso dell’ “alternanza scuola lavoro”. Giuliano De Seta va amaramente a connettersi alle grandi quantità di caduti sul lavoro dal dopoguerra ad oggi (più di duecentomila). Cifre da guerra civile. Una carneficina di classe, perché muoiono solo lavoratori, non certo banchieri o divi del cinema, e di genere, perché a morire sul posto di lavoro sono quasi esclusivamente uomini; né più e né meno di come quella dell’aborto clandestino era una tragedia di classe (perché a spegnersi erano le donne bisognose) e femminile (perché, ovviamente, erano soltanto femmine a scomparire). L’arte non può veramente nulla di fronte a tutto ciò. Così come non può nulla rispetto a tante altre cose che richiedono un bagno nella realtà e non una bella metafora che annebbia tutto! In fondo, l’arte è un linguaggio apodittico che, a differenza della politica, non ha bisogno di dimostrare e di applicare nulla; a meno che non si tratti di eco art, di bioart o di land art . Ciò che Marx testimonia, ne La Questione Ebraica del 1843 con vigore, è che la politica, nel senso forte che una lunga tradizione storica gli accorda, è semplicemente lo stadio successivo dell’emancipazione religiosa, forse già morto nell’esautorazione dell’espressione estetica, in ogni caso molto malato: politica in agonia artistica, come recita la parodia di uno slogan televisivo! Una politicità più libera sarebbe adatta a smantellare il discorso dadaistico strumentalizzato da Julius Evola. L’antagonismo politico ed extra artistico – al di là delle accuse tipo le critiche al Ruangrupa di Documenta 15 – ha sperimentato sulla propria pelle quanto sia difficile fare «stand up antagonism» al post di «comedy», tant’è che si rischia di sparire e di essere ostracizzato, oscurato o fare la fine di Julian Assange. I Benpensanti della strategia politico-estetica usano il loro talento istrionico ormai solo per spiegare le grandi opere del Passato e poco altro. La strategia estetologica viaggia a fasi alterne: se una Pedina dello Showbiz riesce a pungere con l’imitazione di una militante di Casapound – ma si tratta pur sempre di un tipo ideologico, e non dell’imitazione di un politico – la Pedina B o quella C Aliquid è «ridotta al ruolo di guest star», obbligate a ripercorre lo stesso catalogo. Da una parte c’è l’opportunità di infilare il discorso critico all’interno di un quadro farsesco, dall’altra un mulinello di bautte e caricature, come un comizio elettorale perenne, in cui si stenta a capire se è il Politico che fa parodie, o se è la parodia di un comico. Si tratta del narcotismo anti-umanistico contemporaneo, la preoccupazione di rapportare ogni cosa al suo prezzo sul mercato dell’isolamento teatrale, esposizionale, la dimensione fotografica che organizza oggi il comportamento degli attivisti dell’ambientalismo greenwashing! La politica contro-estetica, nella sua verità, è infatti ribelle a tutte quelle norme del mondo anti-antagonista proprio perché non è un semplice patto di gradevole coesistenza politica tra individuo “o dividui”, ma l’esperienza sociale, dell’esistenza quale terzo stadio della possibile “emancipazione umana”. È naturale che questo piccolo ritrovamento di un antagonismo umano e post-politico-estetico, teso e ricco, tanto sublime nell’elogio di un bisogno mondiale eterodosso, chiami alla discussione del movimento di classe o dei movimenti di critica ecologica del politico a venire. Noi tutti, stiamo aprendo solo una pista: siamo proprio certi che alla concezione consumistica e contrattuale della relazione di comunità si possa opporre solo uno stadio estetico del politico? Alla rozza positività della ripetitiva masturbazione narcisistica bisogna opporre il destino del negativo? Forse la politica antiestetica dei Ruangrupa (lumbung, Documenta 15: 16 luglio 2022- 25 settembre 2022) è solo transitoriamente la prova assoluta del desiderio di “salvezza umana”.