Sia nell’approfondire le possibilità della tecnologia nel campo delle arti visive che nell’attraversare linguaggi e tematiche di altro ordine, la pratica di Dainela Cotimbo, storica dell’arte e curatrice indipendente, dimostra costantemente un linea riconoscibile. Dai progetti, ora curatoriali e ora teorici, incentrati sulla relazione fra ricerca artistica e intelligenza artificiale alla realizzazione di eventi dedicati alle problematiche di genere in chiave estetica, la pluralità dei suoi interessi disciplinari si rispecchia nell’articolazione di operazioni di mostra e di critica sempre in grado lasciar affiorare naturalmente i punti di contatto che intercorrono fra aree d’indagine ritenute distanti per convezione. Leggiamo ora dalle sue parole le ragioni e i modi alla base del suo lavoro.
DS: In generale, come ti interfacci con la ricerca artistica contemporanea, nel merito della tua professione di critica e curatrice?
DC: La mia ricerca curatoriale si muove quasi sempre a partire da un substrato di teoria, spesso non direttamente connesso a pratiche estetiche, ma su cui poi si fonda il lavoro con gli artist*. Sono interessata alla multidisciplinarietà e alla molteplicità di sguardi. Ad esempio mi piace leggere di scienza sotto una prospettiva umanistica e di narrativa su temi fantascientifici. In particolare mi interessa ampliare la mia conoscenza del mondo circostante e del come le evoluzioni di pensiero plasmano il nostro rapporto con la vita, le altre specie viventi, tutto ciò che è inorganico, artificiale. Questi approfondimenti, che spesso sono anche un modo critico per affrontare la complessità del contemporaneo, attivano immaginari, si fondono in sguardi ubiqui e molteplici che poi ritrovo nelle pratiche degli artist*. Il mio compito, poi, è quello di creare le condizioni affinché un pensiero possa essere espresso attraverso differenti prospettive estetiche. La curiosità mi spinge ad occuparmi di approcci anche distanti tra loro ma, ultimamente, tutto mi sembra convergere verso un unico grande tema che è quello di problematizzare la coscienza umana in relazione alla continua rinegoziazione del senso, che passa inevitabilmente dall’esperienza con l’ambiente circostante. Tutto questo spesso avviene attraverso la critica e l’analisi intorno ai media tecnologici, così come dimostrano progetti più recenti quali Re:Humanism e Erinni.

DS: Quali sono le ragioni alla base della formazione del collettivo Erinni e quali le sue aree d’azione e interesse?
DC: Erinni nasce a seguito della vincita del bando Vitamina G, indetto dalla Regione Lazio. Era già da un bel po’ di tempo che con Arianna Forte, amica e collega curatrice, riflettevamo sulla possibilità di tradurre in progettualità alcune suggestioni mutuate dalle reciproche ricerche sull’arte e la tecnologia e legate allo sguardo soggettivante e di genere dei linguaggi ad essa connessi. Arianna da sempre ha l’obiettivo di interrogarsi su questi aspetti, io ci sono arrivata a partire dal mio lavoro con Re:Humanism e l’intelligenza artificiale. Gli algoritmi sono stati spesso al centro di iniquità e discriminazioni di genere, al contempo sono oggi i luoghi dove è possibile andare oltre i confini del corpo e ridefinire il proprio spazio identitario, anche in termini di genere e sessualità. In fase di stesura del progetto si è aggiunta a noi Cinzia Forte che è un’esperta di tematiche di genere e questo, in associazione con le richieste del bando stesso, ha fatto sì che Erinni assumesse anche una dimensione più legata ai temi dell’attivismo. Oggi Erinni è tante cose, alcune le dobbiamo ancora capire, tuttavia ne percepiamo l’importanza e la responsabilità.

DS: Con quale intenzione critica è stata costituita l’associazione Re:Humanism e come si è sviluppata in questi anni di attività?
DC: Re:Humanism è nata nel 2018, prima sotto forma di progetto e poi 2 anni dopo, come associazione culturale con l’obiettivo di offrire una pluralità di punti di vista critici a supporto di un avanzamento tecnologico, che viaggia così veloce da sembrare spesso inafferrabile dal punto di vista etico e sociale. Oggetto principale, ma non esclusivo, di questa ricerca è l’intelligenza artificiale, che con le sue tantissime applicazioni rappresenta oggi una delle frontiere più interessanti, ma anche più spaventose per l’essere umano e non solo. Proprio nel 2018, quando è nato il progetto, si cominciava ad interrogarsi su come regolamentare questa tecnologia a seguito di diversi episodi spiacevoli quali discriminazioni, incidenti, violazioni della privacy ecc… Tutto questo ci porta a capire come non si stesse parlando solo di indagare un mezzo tecnologico ma piuttosto di capire come esso stesse plasmando la nostra percezione del mondo. In effetti, dal quel 2018 in cui abbiamo lanciato la prima open call internazionale ad oggi, che già due edizioni del Re:humanism Art prize si sono concluse, ho avuto modo di vedere tanti cambiamenti e di rendermi conto di come il rapporto con la tecnologia spesso ci spinge a rinegoziare principi per noi basilari quali quello di vita, di coscienza o di intelligenza. Questa costante messa in discussione rappresenta per me il cuore del progetto che non sempre sfocia in risvolti negativi, al contrario spesso si traduce in un invito costante ad espandere i confini dell’immaginazione, ad immedesimarsi con linguaggi altri rispetto a quello dell’umano e a comprendere delle sfaccettature del reale che sfuggirebbero alla nostra percezione. Re:humanism si occupa di tutto questo non unicamente attraverso il format dell’Art prize; in questi anni ci siamo infatti dedicati a diverse attività quali mostre, talk multidisciplinari, workshop e momenti di co-progettazione e performance (quest’ultime in particolare grazie alla costante collaborazione con Romaeuropa Festival).


DS: Da questa angolazione disciplinare, quali sono le caratteristiche più distintive di “Lorem – Distrust Everything”, l’ultimo progetto espositivo curato come Re:Humanism?
DC: Distrust Everything è un’installazione immersiva ideata da Lorem e che abbiamo avuto il piacere di presentare in un bellissimo spazio, Cosmo, un’ex chiesa sconsacrata del Settecento presente sull’isola della Giudecca a Venezia. La cosa che più mi aveva colpita nella mia prima visita a questo spazio era la sua doppia natura, tanto simile a quella di Re:Humanism, da un lato un hub di innovazione tecnologica, dall’altro un luogo per eventi artistici e culturali. Sono stata molto felice quando il suo fondatore, Emanuele Wiltsch Barberio, ha accolto l’idea di presentare e co-produrre questo progetto. Distrust Everything si interroga sul concetto di post verità e su come il nostro rapporto con le immagini sia reso oggi particolarmente ambiguo, proprio dal fatto che esse nascono e si diffondono negli ambienti mediali, mettendo in discussione il concetto stesso di realtà. Per l’occasione, l’artista ha recuperato 21 anni di sogni archiviati del ricercatore di Stanford e artista, Mirek Amendant Hardiker, che sono stati poi la base per l’addestramento di una rete neurale generativa. A partire da questo dataset, la rete è stata in grado di generare un sogno radicalmente nuovo, che riprende però le trame narrative e le suggestioni di Hardiker. ll risultato è una camera immersiva dove le immagini, realizzate tramite fotogrammetrie 3D e altre tipologie di reti neurali, si susseguono sullo schermo accompagnate dalle sonorità appositamente composte dallo stesso Lorem. Un flusso onirico e sintetico in cui lo spettatore, disorientato, abbandona i suoi criteri di giudizio per lasciarsi andare ad un’esperienza di pura fruizione. Tengo molto a questo lavoro, per tanti motivi: intanto perché ho sempre collaborato con estremo piacere con Lorem, sin dalla sua selezione come finalista per Re:Humanism 1 e poi attraverso Romaeuropa e il suo coinvolgimento nella giuria della seconda edizione. Ma soprattutto credo che questo sia uno dei progetti che meglio rappresenta il panorama in cui ci muoviamo oggi, non solo nel mondo dell’arte contemporanea, ma anche in quello dell’industria musicale, della comunicazione e dei media. Sistemi di intelligenza artificiale come le odierne GPT-3 sono in grado di scrivere interi testi di senso compiuto a partire dallo studio di testi simili, DALL·E 2 è una piattaforma basata su IA che permette di generare immagini a partire da testi, con risultati davvero strabilianti ma anche esteticamente nuovi. Tutto questo sposterà le frontiere dell’immaginazione ma ci impedirà sempre di più di saper discernere il tipo di esperienza a cui stiamo assistendo. Per questo credo che la necessità di un costante esercizio critico sull’utilizzo di questi mezzi tecnologici resti un bisogno inalienabile della ricerca contemporanea.
