Gerhard Merz
Una scultura per Margherita Hack. Photo courtesy Giancarlo Pastonchi

Una scultura per Margherita

Fino al 13 febbraio 2022 presso la Casa degli Artisti di Milano sono visibili le opere scultoree realizzate da diverse artiste per celebrare l’astrofisica, accademica e brillante divulgatrice scientifica del ventesimo secolo: Margherita Hack.

Il peccato originale di Margherita è stato l’amore per la visione scientifica del mondo e il soffitto, quello stellato dell’universo. Che cos’è mai una scienziata? Brillano auree astrofisiche nel gran libro della sapienza antica e a noi vengono lumi. Ateo è il nome della scienziata, poiché nessuna idolatria poté mai violarlo. Quel che per bocca dell’astrofisica dicono le osservatrici dell’infinito universo, è eterno come i frutti della terra, le stelle del cielo, le acque che trascinano i fiumi. Perché la voce dell’astrofisica varca – ben lo sapeva Margherita Hack – il silenzio dei secoli: lo aveva appreso dalla madre Maria Luisa Poggesi (miniaturista agli Uffizi di Firenze 1887-1960) e dal padre Roberto Hack (contabile fiorentino di origini svizzere e di religione protestante, segretario della Società Teosofica Italiana). La celebre scienziata e umanista non temeva di esprimersi come una classicista, con le sovrapposizioni e le illuminazioni di un Ovidio, prezioso amante ed architetto di ampie visioni, che affermava “Vi è un dio in noi e naturale è il nostro rapporto col cielo, che dalle eteree sedi scende a noi l’ispirazione”. È amaro proferirlo, ma forse è proprio così: chi ha bisogno, oggi, degli astrofisici e dello sguardo naturale? Ma, chissà, potremmo provocatoriamente capovolgere la domanda e chiederci: chi non ha bisogno, chi può fare a meno, oggi, delle viste di scienziate e di osservazioni STEM?

“Una scultura per Margherita Hack” (dal 19 gennaio al 13 febbraio 2022, presso Casa degli Artisti  di Milano) vorrebbe porre l’attenzione sulla sua “ricerca scientifica”, ma anche sulla sua “vita personale”, sulla “coerenza delle sue scelte professionali, civili e politiche”, e infine sulle pertinenti “forme della comunicazione scientifica”, ponendosi addirittura l’obiettivo di tradurre il suo impegno didattico “per la divulgazione della scienza”, il “rapporto con lo spazio pubblico” e un “ripensamento dell’atto del ricordare”. Lo statement dell’iniziativa vola così alto, da dichiarare che questi obiettivi, precedentemente sottolineati “sono elementi chiave che legano – seppure in modi diversi e con scelte anche distanti – i lavori presentati”. L’ambizioso obiettivo dell’iniziativa è quello di donare alla città di Milano la prima scultura, su suolo pubblico, dedicata a una storica figura femminile, nonché massima espressione del mondo delle STEM. Le artiste che hanno aderito all’invito sono Chiara Camoni, Giulia Cenci, Zhanna Kadyrova, Paola Margherita, Marzia Migliora, Liliana Moro, Sissi e Silvia Vendramel. La mostra pur presentando i testi, i disegni, i rendering e le maquette che illustrano gli otto progetti proposti, si spinge molto lontano, volendo configurare “donna Margherita” e il “suo operato”. Ma la domanda che sorge spontanea, alla luce dei rapporti tra teorie scientifiche e illustrazionismo artistico: è veramente e “chiaramente identificabile in quanto tale”, come recita il comunicato stampa, il progetto di congiunzione di un meteorite “in scultura”, o installazione o quant’altro? È veramente possibile che, l’arte contemporanea possa ritenersi  capace di concentrare in sé tali universi, e  proporsi come ombra di Ipazia o come artigiana di interventi, e al contempo come “riflessione sul concetto stesso di monumento, sulla sua forma tradizionale e soprattutto come medium di esposizione scientifica”? Quindi dobbiamo porci ironicamente questa domanda, magari con la stessa ironia di Ipazia: chi se la sente di rinunciare alla lucente o dolente nitidezza dell’avventura matematica e fisica e cimentarsi in un riduzionismo artistico? Chi se la sente di rinunciare alle giornate invase da un sole in piena prima della notte stellata, alle notti frementi e labirintiche, alla lontananza degli astri che cospargono l’aria con la loro scia dorata e imprimere sul paesaggio lunare l’immagine icastica dell’eterno? Esiste un astrofisico che voglia rinunciare ai pensieri dell’amore per la conoscenza dell’universo e della morte?

Si dia uno sguardo d’intesa all’essenza di Margherita Hack, senza considerare questo o quello in particolare: brillerà negli occhi una polvere di stelle, libero gioco di giorni per cui non vale la regola del dare e dell’avere artistico, che non può essere registrato sui libri di storia dell’arte, affidati come sono alla spontaneità e al diletto laico. Margherita ha parlato degli astri, così come Giacomo Leopardi aveva parlato della Luna o della nostra esistenza rispetto ad essa. È lecito rappresentare una visione astrofisica attraverso un sistema di traduzioni simboliche? Quando la rapidità dei processi tecnologici prende il sopravvento sulla capacità di esposizione, probabilmente non è più così facile. L’élite artistica col compito divulgazionista appare oggi come un circolo di menti criptiche di un mondo ormai trasferito nell’Università dell’Esclusivo, nella Costellazione lontana da qualsiasi immagine concreta. E chi tenta di violare i sacri battenti del cenacolo, di immettersi nei labirinti dell’extra-artistico, costui finisce per cadere vittima di un’arte debole: ed è breve lo spazio che separa l’immagine del valore autonomo di scienza e tecnologia, da quello che si identifica nelle capacità dell’artista.

L’avvento delle tecniche sembra aver davvero chiuso lo sviluppo di alcune arti e generi, averle definitivamente ridotte a una dimensione postuma, oppure gli ha fornito un nuovo potenziale espressivo, costruttivo o addirittura semiotico? La storia insegna che la stabilità si ottiene con l’applicazione dell’esperienza artistica e scientifica; la comunicazione fra questi due universi, a volte, è il frutto di aporie contrastanti, che si bilanciano o si contaminano. In questa nostra tormentata epoca, sembra diffondersi un inquietante sentimento di anarchia liberal, che va bene per tutti. Che sia il peso della crisi delle scienze globali, o che sia l’impossibilità delle arti visive a dover essere per forza altro, lo scoglio per superare la loro stessa crisi? La consapevolezza di essere giunti ad un punto-limite, nell’incessante e ambizioso spirito di ricerca, di conquista e di conoscenza dell’umanità, dove la mettiamo? I nuovi mondi di Margherita o di quelli che vorrebbero essere disegnati e realizzati dalle scultrici (di questo Concorso, si fa per dire) non sono cosa d’oggi. Oggi il nemico è la finta corrispondenza che l’arte visiva cerca di legittimare con la scienza, il linguaggio scritto e parlato, gli stili e le identità di genere, le antropologie fantastiche e gli immaginari ambiziosi.

Si può giungere all’arte contemporanea per vie diverse. La più consueta penso che sia quella che attraversa insieme la passione per l’arte e l’interesse per le sue stesse pertinenze. Meno praticato, e comunque meno sintomatico, mi sembra il percorso di chi vi giunge per interesse esclusivamente sensazionalistici e ordinati alla «logica dell’esposizionismo». È proprio così: la vita e il pensiero dell’astrofisica è meravigliosamente indipendente dall’essenza dell’arte moderna e, a un tempo, straordinariamente necessaria per dare alimento alla nostra mente investigante; nonché alla ragione-sentimentale, che è un inesplorato e sterminato paesaggio, e al corpo, che ha voglia di errare in quella indipendenza astrale, insieme a tutti i soggetti, consapevoli, senza regno.

Nessuno ha diritto di derubare lo scienziato dai suoi concreti incantesimi astrofisici: dobbiamo, anzi, ammirarne la finissima trama e contemplarli con attenzione muta, rispettosi di un enigma matematico, che spesso Margherita Hack ci offriva con infantile candore. È quel che non fanno le otto cesellatrici, nella loro trasognata collezione di umori concettuali e personali, troppo personali, ostinatamente, dedicati a Margherita! Chissà?! Troppe sono le zone oscure che dovrebbero essere rischiarate, troppe divulgazioni si muovono alla luce di “media inspiegati”. E la visione matematica della Hack non è che il lampo breve del calcolo, acceso nel gran buio di un universo primordiale. Sarebbe fin troppo facile, poi, giocare sull’assonanza “Stella di Hack” o “Visione di Hack”, sulla complessità deliziosa di un pensiero che ti sollecita l’anima, mai poi si ferma, prima dell’arte, equazione strisciante di un calcolo lontano, di un’icona di Cefeidi: “È così bello fissare il cielo e accorgersi di come non sia altro che un vero e proprio immenso laboratorio di fisica che si srotola sulle nostre teste.” (M. Hack).

Il mondo cambia: è il luogo comune che assilla la scena del dibattito politico dell’arte e della dimensione intellettuale ad essa collegata. Secondo questo principio, mentre le società occidentali starebbero implodendo, dismettendo tradizioni e ideologie storiche e ripudiando i grandi valori che hanno animato antropologie recenti, l’arte e la scienza ne uscirebbero indenni, come delle salutari pillolette vegane. È quasi come se l’arte non fosse consapevole del fatto che si inventa un mondo ogni volta che si alzano gli occhi al cielo: ma non è proprio questo il gesto che faceva Margherita, grazie alla tecnologia? Chi alza gli occhi al cielo non dovrebbe avere nessuna certezza duchampiana (tralaltro fatta di risata e di masochismi cubisti e dada), così come una astrofisica non dovrebbe per forza di cose considerare una Cefeide un ready-made! Si tratta, nel senso etimologico del termine, in invenire, di far emergere ciò che già di collegato può esistere fra arte e scienza e ciò che le nostre risorse mentali ci suggeriscono di vedere e di capire. Tuttavia, tra arte e scienza questa corrispondenza è comunemente vissuta nella vita quotidiana: “La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l’universo, la terra, il proprio corpo, di rifiutare l’insegnamento calato dall’alto, in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede.” (M. Hack). In questo senso, una riflessione o una stringa teorica di Margherita non ci insegna nulla di più che già non conosciamo, o che già non dovremmo conoscere visto che, con l’arte, siamo impegnati a rappresentarlo? In effetti, è ozioso voler sempre dire la verità di un’arte e di una scienza che si sono poste al di là della verità! Perché, piuttosto, non rilevare le questioni che un dato momento storico pone e costruire una mostra d’arte che sia coerente con esse? Senza dover dedicare niente a nessuno; senza, in fondo, avere la presunzione di sollevare biografie o biografismi; senza sentire il dovere di “innalzare monumenti” a ciò che diviene deterministicamente irrappresentabile.

In alcuni dei suoi lavori, Margherita Hack, ignorando indirettamente l’arte visiva, sottolinea “l’elemento di dubbio o del fare metafisico dell’arte”. Ella precisa di continuo: “Potrebbe essere il mio motto” e, come una semiologa che si esercita sulle “punte invisibili degli universali”, le sue riflessioni non smettono di porre dubbi, di affermare scetticismi, di chiarire la complessità del discorso scientifico e l’impossibilità di dare per scontato che Arte e Scienza, così come Scienza e Cultura, possono navigare nelle stesse acque o addirittura che una scoperta scientifica possa essere un’individuazione di genere. L’idea che le parole della scienza fossero una cosa e le performance un’altra è stata radicalmente accertata nel 1955, quando J.L. Austin ha esposto la propria teoria degli «atti linguistici», in una serie di idee dal titolo How to Do Things with words (Come fare cose con le parole, 1962). La funzione del linguaggio, diceva Austin, non è sempre o soltanto descrittiva; a volte è performativa, da qui il termine «atti linguistici». Diversamente dalle dichiarazioni descritte, dagli atti linguistici non va verificata la verità o la falsità di un’installazione, di una fotografia, di una scultura, di una illustrazione, di un opera d’arte.

Una scultura per Margherita Hack. Photo courtesy Giancarlo Pastonchi

Scrivendo la tesi di laurea, Margherita, comincia a occuparsi della spettroscopia delle stelle, campo di studi interno all’astronomia, che continuerà a studiare, insieme alla radioastronomia, per tutta la vita. Comincia a insegnare all’università e, nel 1954, inaugura una lunga carriera di divulgatrice. Per dieci anni gira le università di mezzo mondo finché, nel 1964, ottiene la cattedra di astronomia a Trieste e le chiavi dell’Osservatorio astronomico, che rimarrà sotto la sua direzione per quasi trent’anni. Scrive, oltre a centinaia di pubblicazioni scientifiche, testi universitari e libri di divulgazione di grande successo.  Fonda riviste (L’Astronomia, Le Stelle), si impegna in politica ed è in prima linea per difendere con passione le sue opinioni in molte battaglie civili, come quella a favore dell’eutanasia, che lei appoggia perché, dice, “la vita e la morte appartengono all’uomo e non a Dio”. Margherita diceva che: “il cervello sia l’anima, non credo alla vita dopo la morte e tanto meno a un paradiso in versione condominiale, dove reincontrare amici, nemici, parenti, conoscenti”. Ma se secondo la Hack: “la scienza è umiliata dalla politica” diciamo che grazie al sistema artistico contemporaneo il destino della “politica estetica” è proprio quello di un condominio dove si incontrano i simulacri degli sforzi di chi è inconsapevole delle proprie cognizioni e si approvvigiona di incertezze artistiche. La distrazione come astrazione è una levità sublime che ha confidenza con le cifre e i calcoli arcani e con quello che, sotterraneo, si muove il quel pensiero che era lontano dalle idee e dai sentimenti di Margherita. Distratti sono gli artisti e le artiste (è l’illusione del genio che li trascina), vorrebbero, senza perdersi, appartenere al mondo e dargli voce, ma finiscono col fare compagnia solo a se stessi e a costruire simboli e sculture distanti da una visione razionale come quella di Margherita. Sono orfani e stranieri (o esuli, il che vale una superiore elezione) dell’altro mondo rispetto all’astrofisica. E il mondo dell’arte, se ha cuor gentile e comprensione per la loro stravaganza, la loro rivendicazione di genere che non riesce a coincidere con i simboli usati, non sa parlare diversamente dalla donna di Holderlin: “Sii dunque mite, buono, savio. Quasi solo di te, ormai, ho paura, ed è un sentimento che mi affligge. Liberati dalla passione, dominante. Quanta bellezza, grandezza, colore potresti mostrare se fossi deciso a vincerti! Ma l’audacia delle tue fantasie ti uccide e il sogno che ti fai della vita ti rapisce la vita. Non potrebbe essere grandezza il rinunciare alla grandezza? Tutto è pur sempre doloroso”. È amaro, però, rinunciare alle ali che ci portano in alto e lontano. La critica scientifica di Margherita non ammetteva che, nel rinnovato clima dell’arte post-duchampiana, si possa scolpire in un modo o nell’altro: la scultura è una cosa, dice, e l’astrofisica un’altra.

Dai tempi di Austin, il carattere performativo del linguaggio è stato esteso da artisti concettuali e da teorici delle arti visive ben oltre il campo degli atti linguistici. Stando a questo sviluppo, e stando al sui generis tratto da una euristica duchampiana mai verificata, gli artisti e le artiste sono convenuti sul presupposto che ogni linguaggio sia performativo. Per cui ogni espressione visiva, anche quella più neutra, può e deve essere valutata col criterio dell’efficacia di genere e con la possibilità – in quanto visiva – di poter meccanicisticamente spiegare, attraverso la costruzione di un’opera. A partire da qui è necessario chiedersi: è possibile riuscire «a rappresentare» la massima espressione STEM? E, attraverso la configurazione fisica di M. Hack, si può illuminare il fruitore sul suo percorso e sulla sua vita? Come sarebbe realizzabile la corrispondenza tra monumentalità e Cefeidi?

L’efficacia dell’opera visiva, viene invocata qui in contrapposizione alla verità, ma nel suo significato di “opera in atto”, come misura stessa del valore di verità dell’opera di Margherita e come mezzo per radicare una qualche forma di dipendenza dell’arte dalla scienza. Va detto, ovviamente, che la capacità, l’efficacia e le possibilità descrittive dell’opera d’arte, si danno semiologicamente e performativamente, in una maniera totalmente diversa da quelle scientifiche, epistemiche, politiche e linguistiche: non perché agiscono direttamente sui propri referenti, ma perché fanno presa sui modi in cui strutturiamo e costruiamo i nostri mondi sociali e materiali. Come attesta l’onnipresenza della metafora, la distinzione classica tra il letterale e il metaforico non regge nel linguaggio comune o nel linguaggio visivo e forse non regge neanche in una trasposizione scientifica. Non regge a confronto con nessuna delle svolte duchampiane, perché usa tutte le forme di razionalità del linguaggio comune come delle metafore da museo. L’universo di cui parlava Margherita non è museificabile, esso è vivo, come è vivo lo sguardo di Ipazia e dell’astrofisica: “Ipazia rappresentava il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio cominciò quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tentò di soffocare la ragione.”.  La composizione artistica della svolta duchampiana ha molto lavorato sulle arti visive: la ragione di questo istallare sta nell’idea che vi siano, sotto lo splendore e la ricchezza della manifestazione artistica dei meccanismi generativi di tipo linguistico, che però non sono ancora chiari per gli obiettivi della divulgazione scientifico-simbolica. È un’idea potente quella che vede questi stessi meccanismi risolversi in rendering, per rappresentare la scienza di Margherita. Quali sono sul piano sintattico, semantico, pragmatico gli idioletti monumentalizzabili dell’opera di Margherita? E quali sarebbero quelli usati in Una scultura per Margherita? Che si accetti o meno una classificazione dei linguaggi e delle loro virtualità, al servizio delle produzioni artistiche, resta il problema di capire che cosa, nell’arte visiva funziona come linguaggio e in che modo e che cosa può corrispondere visivamente a questo linguaggio, nel momento in cui selezioniamo un osservatorio scientifico così complesso come l’astrofisica di Margherita e pretendiamo di sottoporla al riduzionismo alchemico ed enigmatico della comunicazione visiva. Con il rischio costante di omologare l’osservazione scientifica a quella dell’art tout court, oppure a quella di qualsiasi altro testo visivo. Manco a dirlo, non tutte le metafore sono ugualmente utili e nemmeno ugualmente affascinanti. L’efficacia di una metafora è una cosa, quella dell’atto linguistico è un’altra e quella della riduzione e riproduzione di un’immagine fotografica di una supernova è un’altra ancora. Sembra che non importi molto, verificare se le artiste coinvolte in Una scultura per Margherita avessero sufficienti ragioni per esigere nobili origini di “costrutto scientifico”: da quella eredità di affetti e di memorie che segnano un bisogno estetico ed esistenziale, da quel mondo ritrovato in mezzo a precisissime indagini matematiche e ancor più nell’onda vaga dei sogni e degli echi visivi indefinibili, le concorrenti carpiscono un’identità per il loro stesso sguardo, per il loro egoismo artistico, quello che si offre in qualche modo come il perimetro di “un io espressivo”. Eppure, la visione dell’Astrofisica è ben più che una prova d’Autore. La melodia del calcolo, la potenza suggestiva della parola scientifica, l’espansione di un Osservatorio – che è racconto di un attimo ed eterno resoconto di iniziazione all’Infinito Mundi et Uno (Giordano Bruno) – contiene la totalità dell’irrappresentabile: l’esperienza nello spazio di un respiro, serba intatto il valore di un messaggio!

Info mostra
Titolo: “Una scultura per Margherita Hack”
Indirizzo: Casa degli Artisti – via Tommaso da Cazzaniga angolo Corso Garibaldi 89A
Date: 19 gennaio – 13 febbraio 2022
Orari: 12.00-19.00
Giorno di chiusura: lunedì
Ingresso gratuito.
Per informazioni e prenotazioni scrivere a: info@casadegliartisti.org
www.casadegliartisti.net