Gerhard Merz
Giorgio Celiberti

Una chiacchierata con Giorgio Celiberti

Efthalia Rentetzi ha incontrato Giorgio Celiberti. L’artista, classe 1929, vive e lavora a Udine.

Ho incontrato Giorgio Celiberti nel suo studio, colmo di opere catalogate con cura, un uomo semplice e sincero che accoglie con un sorriso chiunque vada a trovarlo. Si è trattato di un’intervista poco formale, interrotta dalle visite di diversi amici e clienti. Mi ha raccontato che si reca allo studio ogni giorno alle 10:30 precise, portando il suo pranzo al sacco, e che vi rimane fino alla sera a dipingere e a progettare i suoi eventi. Mi ha parlato con tanto amore di Venezia e di Parigi, dove si era integrato meglio rispetto a tutti gli altri posti in cui ha vissuto. 

Lei usa svariati materiali e tecniche e sembra svincolato da rigide impostazioni stilistiche. C’è un fil rouge che lega queste diversità di tecniche e materiali utilizzati?

Ogni tema che svolgo ha le proprie esigenze, ma il mio lavoro è un atto istintivo e non studiato; in un secondo momento elaboro nuovamente l’opera che comunque è condizionata dai tempi e dalle idee.

Come considera e che ruolo dà alla materia che adopera nella sua arte?

Il materiale nelle mie opere ha un ruolo primario e spesso prediligo materiali forti. Amo l’affresco e anche delle malte che uso e che incido, mi danno la sensazione di una verità profonda. Per me è molto importante il materiale che uso, preferisco quelli più forti e pesanti.

Nelle sue opere si registra una costante simbiosi fra tradizione e modernità e fra sacro e profano, in una maniera non conflittuale. Tale connubio riuscito è pianificato in precedenza o sorge spontaneamente nell’atto creativo?

Io sono un’anima pacifista, una persona semplice e diretta e, di conseguenza, dalle mie opere emergono la vita, l’amore e l’amicizia in maniera incondizionata e priva di mediazioni.

Ci parli del forte legame con la cultura della sua terra, spesso presente nelle sue opere e che resiste alle contaminazioni cosmopolite a livello artistico e culturale.

Ho vissuto tanti anni e in una moltitudine di posti diversi; per me il mondo non ha frontiere e i miei sentimenti sono immutabili. Nel frattempo, io rimango sempre la stessa persona umile.

Di solito lei tenta di inserire le sue opere in spazi alternativi a quelli museali, in diretto contatto con il pubblico, che in questo caso risulta disomogeneo, casuale e non sempre informato. Come idealizza e progetta simili installazioni e come valuta questi rapporti difficilmente gestibili e controllabili?

No, il mio visitatore-interlocutore è un uomo senza un’identità precisa e quindi le mie opere possono dialogare ovunque e con chiunque senza nessuna distinzione. La mia arte non è pianificata, sono invece le cose profonde, vissute, che cerco di condividere.

Espone spesso in spazi emblematici, ma tutti con un valore simbolico che ricalca memorie storiche traumatiche e conflittuali. In questo caso la sua techne ha una missione di sensibilizzazione e di educazione?

Certo! La mia arte ha subìto una mutazione radicale quando ho visitato Terezin. Tutto nasce dalla mia visita al campo di concentramento, dove sono morti cinquemila bambini ebrei; è da lì che la mia arte ha preso una strada indirizzata esclusivamente verso una ricerca intima ed esistenziale, verso la salvezza. Si tratta di uno sbalzo drammatico in cui il perdono e l’amore hanno seguito e sconfitto la morte e il dolore.

Registrando i racconti dell’artista, circondato da un immenso numero di opere, penso che l’arte, per Giorgio Celiberti, è un bisogno intimo, una forza dinamica, un flusso costante che estrinseca le percezioni dell’artista. La sua ricerca estetica si focalizza sul concetto di conflitto come atto psichico complesso e profondo. La sua arte è un mezzo potente di espressione e di provocazione, tesa a catturare il fruitore per raggiungere insieme a lui la catarsi. La sua capacità di captare nuovi stimoli, tradotti in diversi stili, metodi di composizione e forme, riflette una rivitalizzazione intrinseca in grado di coinvolgere il pubblico e di trasmettere emozioni e stati d’animo. 

Celiberti sa che l’arte modernista, di per sé, esemplifica un drammatico cambiamento di stile, reso necessario dalla difficoltà che le forme del passato incontrano nel rappresentare il tragico sconvolgimento sociale che cambia drasticamente. Egli non si fa intrappolare nella concettualizzazione e nel riconoscimento ontologico delle opere d’arte, ma naviga liberamente tra diverse forme intersecate dell’informale; respinge le dimensioni metaforiche della rappresentatività rivolgendosi piuttosto verso forme originali attraverso movimenti, segni e colori che si trasformano in suoni e gridi silenziosi in cerca di risposte. Le sue opere sono entità mutevoli impegnate in una riflessione esistenziale, psicologica ed emotiva e nel contempo portatrici di testimonianze storiche e culturali.

Elementi costanti nel suo operato sono la variabilità e la convergenza a livello tecnico, stilistico e formale. Usa svariati materiali, spesso di recupero, tra cui legno, vetro, cemento, metalli, ceramica e carta per creare opere con varie tecniche come affreschi, sculture, opere su carta, su tavola spesso riciclata, ma anche serigrafie e litografie;  altrettanto diversificate sono le sedi espositive, che spaziano da siti archeologici a strade e piazze cittadine, da palazzi museali aperti al grande pubblico a sale esclusive e riservate a pochi – come il caso della sala VIP dell’aeroporto di Venezia – confermando così la sua apertura al dialogo con un pubblico variegato.

Tale percorso artistico, ricco di sfaccettature rese attraverso diversi stilemi e tecniche espressive, è in realtà un cammino lineare che ha come obbiettivo il liberatorio ritorno alla physis. L’artista si concentra sulla materia informe che allude a una disarmonia esistenziale; usa il dinamismo del gesto e il mondo dei segni e dei simboli – questi ultimi usati non in chiave allegorica, ma come un “medium” comunicativo e di ricerca per agire sulla coscienza e raggiungere la salvezza.  Non crea idoli di realtà, ma entità interattive attraverso segni tracciati con vigore su materiali ruvidi. Con la sua pittura ricerca forze originali attraverso il colore, usato non più come tale, ma come puro elemento materico. Facendo tesoro delle sue contaminazioni artistiche e culturali, raccolte nel tempo in giro per il mondo, genera un linguaggio proprio, carico di archetipi e di segni, un linguaggio criptico indirizzato al fruitore, invitandolo a decodificare, interpretare ed analizzare il messaggio trasmesso. Si tratta di un invito ad una ricerca comune verso la conoscenza della psiche e dell’inconscio collettivo, dove il pubblico passa dallo stato di fruitore a quello di interagente, mutando la sua identità passiva in attiva. 

Se volessimo indicare un denominatore comune nel lungo operato di Celiberti, lo troveremmo nel concetto di primitivismo, nella ricerca dell’archè, spaziando dalle figure smaterializzate ai simboli del mondo medievale, dalle maschere africane alle figure arcaiche raccolte dai nativi americani, fino ai cuori strappati a Terezin, che battono ancora nelle sue pitture, lasciando gocciolare il loro sangue ancora fresco. Il suo primitivismo, privo di sapore esotico, prescinde da culture, epoche ed etnie, e risale al concetto di anthropos nella sua dimensione incontaminata, un interlocutore capace di rilevare la psiche umana. Si tratta di una simbiosi sempre in tensione tra sacro e profano, di una pluralità di archetipi usati per dare voce alle emozioni, sia individuali che collettive.