Esiste, come ha sottolineato Bateson, un legame tra la vita creativa e il fatto di vivere i metaloghi con Aura o con Robert. La creazione dei metaloghi – come la salute della poesia – è fatta di pulsioni erotiche e distruttive e, come per l’esperienza dialogica, il gioco, la passeggiata e il foglio bianco, si presentano e si perdono, esitano e soggiacciono. È comunque indispensabile alla sopravvivenza, soprattutto nei casi di afflizione. In modo confuso cerco, in alcuni scrittori, un sapere su una parte ignorata di me stesso. Il mio interesse per Walser riguarda così l’itinerario percorso: un’infanzia tra i metaloghi e le passeggiate, le solitudini e i fogli bianchi mai riempiti, la separazione da genitori amati a sei anni, quindi Napoli, un ambiente di teatro naturale, i sarcasmi, una vita descritta nel silenzio della cultura ebraica di mia madre. Per sopravvivere Egli (noi,Io, scelga un po’ il lettore) tentò in modo disperato di restituire alla sorellina – il suo unico interlocutore – il ricordo di un’infanzia perduta. Si attaccò persino agli odori del libro e dei metaloghi, da cui era stato strappato, ed è questo che gli ha permesso di aspettare (senza esserne distrutto) il ritorno della Madre. È questo dramma che lo ha portato precocemente alla scrittura. La forza di Walser – grazie alla sicurezza trovata nella prima infanzia – fu di aggrapparsi alla necessità di testimoniare un passato, al bisogno di reinventarlo. Quel che non bisognava fare era, per disperazione, lasciarsi sottrarre quel ricordo.
Percorrendo la strada che costeggiava il fiume, che Aurora mi disse di chiamarsi Arno, fino ad arrivare ai margini di quel bosco e durante il percorso chiacchierammo molto:
« Aura, come mai non hai accettato il cibo e le bevande che ti ha offerto Robert? Come mai La passeggiata allude al ricordo, come mai Step to an Ecology of Mind, come mai Luciana si rifiuta di scrivere dialoghi diretti? Come mai solo se ricorriamo alla religione, al sacro e all’azione esitativa, riusciamo a connettere domande e risposte? Come mai le Storie, il Placebo, la dimensione in punta di piedi, la Dipendenza, la Mancanza, un’ombra ostinata? Vecchia tentazione quella di leggere i classici con il cannocchiale dell’attualizzazione: Bateson nostro contemporaneo per intenderci, come vorrebbe la figlia di Gregory e come invece sconsigliava il traduttore. In particolare ai tragici dell’epistemologia del sacro spesso e volentieri è stato imposto di indossare l’abito – non sempre di buon gusto e di buona fattura – dell’aggiornamento, tagliato secondo la parola dell’esitazione del momento, del riferimento a contesti culturali estranei. È difficile resistere alla tentazione di decifrare le tragedie dell’esitazione, come se fossero arcani oracoli destinati proprio a noi, meteoriti sontuosi piombati giù dall’empireo della civiltà greca, carichi del pulviscolo di supreme saggezze angeliche ed esitative, raccolte attraversando le varie epoche come strati atmosferici.
Come non far esitare anche il povero Robert, protagonista dell’omonima tragedia post-sofoclea? Ma è soprattutto il suo arco linguistico, l’arma definitiva in grado di far cadere Troia, a far gola non solo ai fiorentini ma anche al piccolo esercito degli attualizzatori, soprattutto in tempi di Esitazione continuata, basta sostituire al mitico arco delle parole i contenitori di altre parole. Certo l’esitazione pone con chiarezza esemplare, e altrettanto inquietante, alcuni interrogativi validi sempre e le cui risposte sempre vengono rimandate; in particolare il conflitto, che si potrebbe sintetizzare con il titolo di un saggio dedicato da Walter Benjamin all’eroe della tragedia barocca. Se la ferita può rappresentare il poeta emarginato dal contesto sociale, con tutte le sue sofferenze e le sue angosce esistenziali, l’arco rappresenta invece l’interesse collettivo che travolge ragioni e speranze dell’esitazione»
« A dire il vero Robert non poteva offrire proprio nulla, eravate voi stessi a cibarvi delle vostre paure e della vostra inerzia: infatti, solo Storie inquiete, effetti placebo, camminate in punta di piedi, analisi della dipendenza, individuazione di mancanze, ombre ostinate possono accedere a quella radura. Io non mi lascio impressionare dai racconti esitanti dei viaggiatori che, tornando su questa sponda del fiume, parlano di Angeli, dei dolci pendii da cui si calano, dei ciuffi abbaglianti dei ranuncoli e di margherite fuori dei finestrini del treno; poiché quando sono stato un po’ di tempo lontano da Napoli, anche ciò che abitualmente non mi piace di essa può darmi un baleno di gioia. Con gioia saluto gli scuri binari della ferrovia, i marciapiedi che stanno lì in un eterno novembre, il lugubre sudiciume dei ristoranti, gli orribili capannoni industriali, le cittadine che non sono state mai gaie e festose, i teatri che ci danno commedie musicali di second’ordine, la vasta malinconia dell’esitazione e il decadimento della provincia. Che civiltà! Che confusione! Che paese!Ma sono a casa degli Angeli … sono a casa e sulla sponda degli Angeli …».
«Ma anche tu eri lì, eppure mi sembra che tu sia un Angelo diverso, molto diverso da me e da quelli che si trovano lì. Anche i nostri nasi possono procurarci l’esitazione. Si passa la mattina per una viuzza traversa mentre stanno tostando il caffè, o la sera d’inverno, vicino ad una panetteria, e immediatamente si fiuta la delizia e si promana l’esitazione. Ma forse il profumo più piacevole ed anche più romantico è quello della terra stessa. Quella volta, per esempio, che ci accostavamo al fiume, proprio vicino, vicino alla riva, per esitare.»
« Ero lì sul fiume, Papà, perché la mia forza nasce dalla contemplazione e questa spesso mi mostra dolore e malessere, sono elementi che fanno parte della vita e più ci addentriamo nella loro conoscenza, più noi ci avviciniamo a comprendere le forze che dominano le azioni e la vita, il Pleroma e il doppio strappo. Alla fine di una lunga conversazione con un giovane padre, di cui rispetto la personalità (ma non l’autorità), questi mi fissò e disse lentamente: “Il non ti capisco, Aura! La tua conversazione è tanto più complicata e sottile dei tuoi scritti. I tuoi scritti mi sembrano sempre troppo semplici”. Ed io risposi: “Ma io ho impiegato anni e anni a cercare di rendere semplice il mio stile, la mia forma comunicativa e la mia possibilità di esitazione. Ciò che tu consideri un difetto, per me è una virtù, una sacrosanta virtù che serve a sottolineare l’epistemologia del sacro e la necessità dell’esitazione. Ci troviamo davanti l’abisso che divide la generazione di mio padre dalla mia. Egli e i suoi coetanei, diventati adulti negli anni intorno al ’77, volevano che la letteratura fosse difficile e che gli Angeli cominciassero effettivamente ad esitare. Erano cresciuti nella rivolta, contro la buffonata della comunicazione con le masse della loro epoca. E non volevano avere niente in comune con l’elitè. Scrivere qualche cosa che fosse difficile da capire era come la parola d’ordine della Società degli Angeli Metropolitani. Per loro un bravo poeta era quello che faceva faticare e sudare i suoi lettori. Essi ammiravano l’intelligenza e la solennità spinte all’estremo, poeti simili a nunzi apostolici, critici che si avvicinavano al pensiero poetico, come specialisti chiamati al capezzale di un tragico. Un poeta genuino, un artista, da distinguere dai mestieranti che cercavano di piacere alla plebe, cominciava con pensieri ed impressioni semplici e poi procedeva a complicarli, se non altro per tenere lontano le esitazioni. La poesia doveva rispondere a qualcosa di contorto, di tormentato, di esoterico, nella loro segreta natura».
«Non capisco, come puoi essere felice se passi la maggior parte del tuo tempo a ricercare e a capire il Sacro per guardare alcune regole della biologia e della scienza?»
« Ciò che ricerco non è il dolore, ma l’ombra del Pleroma, la cui conoscenza si avvicina all’esitazione degli Angeli. Prendendo le mosse dall’analisi freudiana del Mosè di Michelangelo il Messaggero sviluppa una teoria dell’esitare, anzi un vero e proprio sistema fondato sull’esitazione. L’esitazione rende visibile la dimensione del tempo e della storia e stimola quindi il senso della possibilità. Ce ne vuole per andare da sé a sé: è lungo il cammino che porta all’esitazione. È su questo cammino che si impegna ogni Angelo, ogni qual volta che si arrischia a far nascere qualcosa dalla psiche. Strada tracciata in modo movimentato, vie traverse o sentieri oscuri nella profondità dei boschi, ogni itinerario è valido, purché rappresenti il corso reale del cammino, con le sue insidie, i suoi limiti, i suoi difetti, le sue scoperte e le sue schiarite.
La funzione dell’esitare, il ruolo della posticipazione, dell’incertezza, dell’indugio, emerge come fenomeno di contrappunto nella storia del mondo occidentale, dominata dall’azione. Il Pleroma ci fa esitare a partire dalla sua stessa definizione. Te l’ho già detto: gioia e dolore sono solo cose accidentali, ciò che è forma è oltre questi stati d’animo così volubili»
« Così mi stai dicendo che tu non sei mai felice, o mai triste?»
« È una condizione che sto cercando di raggiungere. Metalogo, è dire l’intimo. Ogni opera qualunque sia il suo grado di elaborazione, qualunque sia il suo livello di estetizzazione, si presenta fin dal primo istante come una espressione di sé.»
«Sai, credo che non valga la pena vivere una vita priva di sentimenti, d’emozioni, con questo non voglio offenderti … ma non capisco proprio! A torto o a ragione, non temo la folla. E l’arte, per me, non è sinonimo di introversione (che mi sembra l’errore critico fondamentale del nostro tempo). Il fatto che io sia ciò che si chiama un intellettuale, – e sono altrettanto intellettuale quanto questi artisti sconosciuti – non crea una invisibile parete di esitazione tra me e la gente dei social, dei twitter, dei cinema, dei video più vicini. Io non penso che le mie idee e i miei sentimenti siano completamente diversi dai loro. Quindi, preferisco una larga via di esitazioni. Nei miei scritti miro deliberatamente alla semplicità e non alla complessità dello spontaneo. Di qualsiasi argomento si tratti, voglio scrivere qualcosa che all’occasione io possa esitare a leggere. Non aspiro ad essere sottile e profondo, e quando lavoro cerco di apparire più semplice di quanto realmente sia. Forse rendo le cose troppo facili per il lettore; riservo troppa fatica e sudore a me stesso e ai miei indugi: senza dubbio sono assolutamente troppo ovvio per i troppo profondi e troppo profondo per i troppo leggeri. Ma non mi lascio impressionare da questa concezione della poesia come attività cerebrale. Parecchi critici contemporanei farebbero bene ad occuparsi di problemi di scacchi e di alfabeti cifrati.»
Mentre ascoltava le mie ultime parole, si chinò e prese una pietra da terra e porgendomela disse:
«Forse tu credi che questa pietra non sia viva? Eppure questa non ha sentimenti per ciò che ne sappiamo, ma è piena d’energia e anch’essa partecipa al mistero della vita e questo per il solo fatto che è qui, che ha consistenza e che da me, da te e ogni altro può essere toccata, vissuta.»
Rimasi pensieroso su quelle parole, mentre continuavamo a camminare fino all’ultimo albero del bosco oltre il quale vi era un’immensa pianura; Aura si accasciò per terra e, trovando la sua solita postura, cominciò a meditare e io che ero li accanto, decisi di provare insieme a lei.
«Tieni le spalle più dritte e chiudi gli occhi, inoltre fai dei respiri profondi e svuota la mente, immaginando Il Grido di Edward Munch del 1893: immagina l’immagine. In norvegese la parola skria, collegata al tedesco Schrei, deriva dalla radice indogermanica (S)KREI, a sua volta connessa con il radicale onomatopeico KER, con il significato di gracchiare, e dalla quale derivano anche le parole italiane cornacchia e corvo. È un grido paralitico, quello raffigurato nel dipinto; un grido più molesto che miserabile; un’immagine, un dipinto che tenta di farsi immagine, ma che di fronte al suono esita. Omofonicamente, il termine radicale potrebbe essere collegato ai termini delle lingue anglo-germaniche Kreuz, cross, con il significato non tanto e soltanto di croce quanto soprattutto di incrocio, crocevia, punto di incontro, di scambio e di contraddizione, in cui la corrispondenza tra suono e immagine si strozza. Sì, perché, l’immagine strozza il grido lo lascia morire nel segno della stessa immagine. In questo senso il grido assume solo la funzione rappresentativa. S’è fatta immagine e tornò immagine!».
Seguivo i suoi consigli mentre mi addentravo in quell’esperienza e la sua luce sembrava farmi da guida in quel silenzio, in quell’oscurità che mi apprestavo a visitare. Cominciai a sentire un potente flusso d’energia, che dal basso ventre risaliva verso il mio capo e diverse visioni e voci cominciarono a invadere la mia mente: voci della vita, voci strazianti e voci silenziose, immagini vivacissime e altre sbiadite. Trovai me stesso e mi vidi solo, perduto, che vagavo alla ricerca di un senso, quel senso che mai avevo nemmeno sfiorato, quel senso che mi portava alla disperazione e poi tutto svanì nel Grido di Munch.
Aura, in seguito, si alzò e guardandomi negli occhi disse:
«La tua anima è macchiata da una straziante ricerca di un senso e per trovarlo sei stato disposto anche a rinunciare a ogni senso possibile, eppure ogni cosa è ben determinata e ogni vita è una spiga di un immenso campo di grano. Perché mi imiti? Cerchi forse qualcuno o qualcosa da emulare? Non essere stupido, ciò che proverai nell’emulare le mie meditazioni è solo una suggestione”.
Cercai di capire quelle parole così enigmatiche, ma non vi riuscii, così riprendemmo il nostro cammino verso chissà quale meta, quando a un tratto vedemmo distante una città cinta da un enorme muro alle cui porte vi erano due pile di libridine: avevano entrambe i tratti di un mattone foderato da testi in brossura. Appena ci avvicinammo le due statue dalle proporzioni monumentali ci espressero tanta esperienza esitativa:
“Messaggeri, questa città è sorvegliata e governata dalla legge: la legge umana e quella divina. Se volete entrare dovrete rispettarne le regole e i dogmi, le esitazioni e gli indugi”.
Stupito e intimorito dai movimenti fonetici di quelle enormi costruzioni grammaticali, risposi:
“Non credo ci fermeremo molto, ma in che cosa consistono queste parole?”
E le due statue alternandosi, mi risposero:
“La legge divina implica assoluto rispetto nei confronti di ogni forma di vita in questa città e la sua preservazione con ogni mezzo, inoltre implica il dogma della fede nei confronti della Grande Lingua, a cui tutti noi dobbiamo la comunicazione”.
“La legge dell’uomo vieta ogni forma di violenza nei confronti degli altri esseri umani e richiede sostegno e lavoro per mantenere la pace e la prosperità su questo suolo”.
Sinceramente ero molto infastidito da quei moniti e avrei preferito di gran lunga cambiare meta, eppure Aura, senza dire alcuna parola, passò le statue ed entrò per il cancello principale e voltando il capo mi fece cenno di seguirlo; alla fine così mi convinsi a oltrepassare le due statue ma proprio nel mentre, esse ripresero a parlare:
“Ricorda: la legge dell’uomo punisce con la sofferenza e il biasimo”.
“Sappi che la legge divina punisce con i sensi di colpa e la dannazione”.
Passai velocemente e raggiunsi Aura, che impassibile avanzava tra le case della città mentre io mi soffermavo con lo sguardo sugli alti palazzi stile gotico, che cercavano di raggiungere il cielo in un’estrema smorfia di dolore.
La notte calò presto e la luna era rossa come un rogo che arde una strega, noi tra quella viuzza incontravamo gente sempre identica negli atteggiamenti, sempre medesima nei movimenti e negli sguardi. La follia dell’uniformazione era ben espressa dall’immagine a forma di croce che tutti portavano ben in vista al collo, ma con lievi differenze: icone d’oro ad indicare i potenti e pendagli d’argento a indicare i ceti medi, infine, ninnoli di legno per i meno abbienti. Ripensai alle parole dei due guardiani della città e ben compresi come ogni cosa in quel luogo era destinata a mantenere un ordine ben preciso e un rigore eccessivo; perfino i poveri ai lati della strada stavano immobili, composti e senza fiatare tenevano il cappello o una scodella un po’ più avanti per chiedere la carità, ma senza un guaito.
Aura procedeva tranquilla e si era lasciata sfuggire poche parole da quando eravamo giunti in quella città, eppure percepivo la sua tranquillità, quasi stesse ancora camminando nel bosco o nella pianura, oltre l’Arno. Poi a un tratto si voltò e mi fece cenno di entrare in una capanna dove passammo la notte; mentre cenavamo, chiacchierando con i paesani, scoprimmo che c’erano dicerie e leggende sulle due statue: esse sono in agguato e sono vive, si diceva, pronte a risorgere ogni qual volta una delle parole venga violata e pronte a colpire nelle maniere più atroci. Nessuno aveva mai assistito a una scena del genere, eppure tutti avevano paura e pensavano che quelle statue fossero l’incarnazione stessa dell’uomo e di Dio; fu in quel preciso momento che compresi quale terribile arma di controllo può essere la paura degli Angeli e l’autolimitazione che esita, ma dopotutto non mi toccava, presto me ne sarei andato da quel posto, da quel rigagnolo di fiume.
Di sera Aura mi parlò di nuovo, dicendomi:
“Vedi, questi artisti hanno rinunciato alla verità in cambio di una tranquillità, hanno rinunciato alla protesta, all’eccesso e sono divenuti cadaveri che camminano; io per conto mio ho rinunciato alle passioni, alle emozioni in cambio di una verità, ho rinunciato all’entusiasmo del vivere e sono imperturbabile, mentre cammino verso il mattino. E tu … tu hai rinunciato al dolore, per avere gioia e sconsideratezza, hai dato un calcio alla riflessione e alla passione che è tipicamente umana e ora sei un folle, che di nulla si cura e che in nulla crede”.
Le parole di Aura mi diedero molto da pensare quella sera. Eppure, sebbene credessi in alcune cose che aveva detto, riuscivo a cogliere in lei un senso di malessere e di rabbia contratta all’interno di quel suo atteggiamento così composto. Da parte mia, sapevo di aver scambiato il dolore per la felicità e ora riuscivo a capire che, se non fosse stato per Aura, sarei per sempre rimasto nel giardino di Elias, ad appisolarmi accanto alla parete di scrittura murale e a cantilenare con gli altri satiri e le driadi della trap. Sapevo che Robert Walser non era l’epistemologia del sacro per la quale si spacciava attraverso le parole di Gregory Bateson e sapevo anche che nessuno in quella città era santo, ma quello che non sapevo era chi eravamo tutti noi e dove stavamo andando. Al centro dell’indugio c’è l’altro, l’estraneo che attraversa l’intimo. L’intimo non è l’io, neanche la sua parte più nascosta, neanche ciò che si è ritirato nei suoi recessi più oscuri. Quali che siano le indagini della coscienza che giudica, valuta e stima, c’è qualcosa che sfugge ad ogni tentativo di entrare in possesso deliberatamente di una verità interiore. Ed è in questa zona d’ombra, al di qua dell’istanza egoica, che la Reprimenda attinge l’energia che galvanizza la sua ricerca e trova la materia bruta che alimenta l’occultamento. Senza un tale ritorno alla fonte originale, non c’è produzione estetica che superi la soglia della pura autocelebrazione a scopo narcotizzante.