Transmediale & info-quark
How to Create a Mind(Cin)ema (II parte)

La sceneggiatura, tra mente e racconto fotografico, può fare a meno del dialogo? L’atto narrativo, del quale non si parla espressamente una volta sola, nella drammaturgia mediale, ha un ruolo minoritario ma decisivo? La sceneggiatura del cinema è un gioco, rientra nell’ordine esaustivo del rituale cerebrale e mette d’accordo film sperimentale e cinema realistico. La sceneggiatura è strutturata come un duello rituale, si consuma in questa trascrizione e rappresentazione, quasi ossessiva, della mente e del foto-movimento.

1. Il cinema è l’espressione di una strategia mentale. Il cinema si installa al di sopra e al di sotto di una rete di pratiche esistenti, mettendole in produzione e iscrivendole in un orizzonte concettuale di ridefinizioni e procedure. Una transmedialità è un concreto rapporto di forze: ogni piattaforma mediale offre un contributo peculiare e contribuisce ad accrescere la laboriosità dell’universo narrativo. La pretesa fondativa dell’astrattezza transmediale e costituente del cinema è, dunque, un effetto. La transmedialità e la cerebralità iconica e algoritmica di tale sistema ne occulta l’azione di dominanza. Il cinema lavora sulle pratiche per spostamento di memorie, intrappolandole in un’illusione visiva. Per indagare il cinema transmentale, occorre mettere a fuoco lo strumento con cui allestire il trompe-l’oeil del principio di realismo: l’effetto soggettività oggettiva. La transmedialità provoca spostamenti: pratiche esterne, appartenenti particolarmente alle corticalità tecniche, vengono riordinate e fluidificate in un contesto a loro estraneo. Avviene una traduzione anche durante le associazioni libere: in una visione cinematografica lo spettatore può parlare liberamente se si affida al linguaggio, cioè alla riduzione che viene operata dal linguaggio ogni qualvolta il soggetto dà voce a ciò che emerge nella mente e nel corpo. Nelle associazioni narrative l’ordine sparso dei pensieri, delle immagini e delle sensazioni che vengono sperimentate dal soggetto trova un aggancio nel susseguirsi delle parole e delle immagini che nel loro inanellarsi disegnano il tragitto della mente. Nelle associazioni libere, lo schermo su cui vengono proiettate le immagini mentali del soggetto viene tradotto in parole. Il fruitore non vedrà mai direttamente quelle immagini mentali e non sentirà le medesime sensazioni dell’autore. Il materiale significante che viene presentato nel vivo della proiezione è dunque una traduzione; una traduzione che, per quanto potrà essere fedele, lascerà sempre un residuo. Lo statuto di quanto viene detto, durante la proiezione, si configura allora come una sorta di oggetto intermedio, tra il vissuto intimo del soggetto e ciò che riesce a essere condiviso simbolicamente nella relazione con l’Altro. Lo psicoanalista Donald Winnicott, molto spesso preso in considerazione da F. Guattari, avrebbe parlato a questo proposito di oggetto transazionale, qualcosa che si innesta nella relazione come un ponte materiale e simbolico, che prova a far transitare la realtà psichica nella realtà materiale, in questo caso del cinema. Durante l’associazione libera, il fruitore si trova quindi in una situazione di estrema solitudine, perché entra in contatto con sé stesso e sperimenta costantemente l’impossibilità di una traduzione esaustiva; c’è sempre un residuo che agisce nell’ambiguità simbolica, un reale impossibile a dirsi totalmente. Tuttavia, lo spettatore, proprio nel momento in cui è alle prese con questo lavoro di traduzione, non è solo, perché lì ad ascoltarlo c’è il collettivo con cui condivide la visione. Questa presenza silenziosa crea la condizione affinché l’osservatore critico possa sentire la solitudine del reale e la dimensione relazionale istituita dall’ordine simbolico del linguaggio.

Allora, possiamo dire che “essere soli, dinanzi allo schermo, oppure partecipare con degli schermi condivisi, inaugurati dalle installazioni del medialismo interattivo, ma non senza l’Altro”, è la particolare condizione che viene ricreata nel setting mediale, nel setting post-letterario della camera-stylo, il fenomeno dello screen bleed, l’accelerated cinema, nonché il modding e l’interattività dal basso. Anche i comportamenti più banali possono diventare oggetto di un’osservazione curiosa, che riesce a rintracciare stranezze e irrazionalità. La mappa-cinema è uno strumento che aiuta a sviluppare nuove idee secondo un metodo compositivo: la sua costruzione, infatti, procede grazie alla libera associazione mentale. Le mappe mentali possono costituire il punto di partenza di un processo creativo, che porta alla realizzazione di materiali diversi per natura e per formato di rappresentazione. La loro caratteristica distintiva è la struttura radiale: l’elemento centrale rappresenta l’argomento (o il punto focale della visione) della mappa e funge da riferimento per lo sviluppo di tutto il fotogramma mentale. Da qui si agganciano, infatti, progressivamente nuovi elementi, aggiungendo concetti oppure “diramando” quelli già presenti (un concetto letterario si può articolare in ulteriori sottorami). Fra le diverse qualità che il racconto di Edmondo De Amicis, Cinematografo cerebrale,rivela fin dalle prime battute, una appare specialmente rara, nel quadro della narrativa italiana ottocentesca. Si tratta della sintonia – discreta e non ostentata, ma limpidissima – con il tempo storico in cui lo scrittore viveva. Una contemporaneità concettuale e naturale, lontana dalle improbabili parabole, o dalle involontarie parodie sui nostri pensieri tipici di certi momenti di deriva interiore; si avverte subito, in quei casi, il finto, l’inconscio macchinico del cinema, il nervoso insegnamento dei propri pensieri: la letteratura, le sceneggiature e il mondo interiore di scrittori ed intellettuali si sono nutriti di tale curiosità. Da qui si va affinando un inconscio che – in questo racconto – Edmondo De Amicis trasforma in una specie di «reporter cinematografico» della sua epoca; lo specchio dei problemi che qui pone in prospettiva è forse l’ultima, o la prima, delle grandi narrazioni sull’estetica microemotiva (mente e cinema). I parametri sono certo eccessivi, ma è fuori dubbio la capacità di questi pensieri incoscienti – e di altri – di informarci sul suo tempo; così come è indubbia la loro perspicacia nell’affrontarlo, la loro sintonia con la psicologia in evoluzione. Il racconto di Edmondo De Amicis, in un simile contesto, rappresenta un salutare e confortante segno di contraddizione. È un racconto che appare subito d’autore, e non tanto perché De Amicis viene dal lavoro sul cinema o sul teatro, quanto per l’approccio umoristico della velocità mentale (è con la scoperta del cinema, dal 1895, che la dromologia, la velocità e la politica, acquistano un nuovo significato) e della presa d’atto della scrittura di Emile Zola. A tutta prima, impianto narrativo e linea formale appaiono piuttosto tradizionali: il racconto è segmentato in microsceneggiature, raggruppate in diverse figure. È la mente attorno alla quale ruota l’attorialismo della cerebralità: il protagonista vittima di vorticosi giochi di libere associazioni mentali, scopre di covare un io perverso, capace delle più ignobili azioni. De Amicis dice che nel Cinematografo Cerebrale si può «pensare per pensare», che è il caso di «fissarsi»: “C’è dunque un cimitero nella nostra testa, pensò. Quando rincorriamo col pensiero la nostra vita, e crediamo di rincorrerla intera, ne ricordiamo una parte soltanto: un’altra parte, e chi sa quanta, è scomparsa, perduta, come se non l’avessimo vissuta: una parte di noi è già morta […] Che cos’era quindi la spontaneità, la libertà del pensiero? Che cosa la volontà? E che era lui se non una macchina pensante, che si moveva secondo che i suoi congegni volevano e di cui egli non era che spettatore? E mentre faceva queste riflessioni, nella mente che gli si cominciava a confondere […] Ah mai più sarebbe rimasto solo a quel modo come in un carcere a sovreccitarsi il cervello e a torturarsi l’anima! […] Ma non ricadde mai più in quel peccato della meditazione; il quale rimase nella sua memoria come un’orgia dello spirito, fortunatamente unica, di cui un poco si vergognava” (ed. Salerno, Roma, 1995, p.29).

Ma cosa sono le libere associazioni mentali? Quale significato assumono nel lavoro analogico tra mente e cinema? Nel lavoro post-psicoanalitico e nella psicoterapia ad orientamento istituzionale, visto che Guattari era affezionato a Winnicot, le libere associazioni in Uiq rappresentano uno strumento fondamentale per comprendere a fondo il metro della traduzione mediale. L’essenza della tecnica delle libere associazioni, individuata e sviluppata da S. Freud, può consistere nel fatto che il cervello dell’attore e dello spettatore entrano nel materiale inconscio. Gli effetti ottenuti con la libera associazione sono permanenti, con il vantaggio che il paziente non era sotto ipnosi. Il metodo catartico, dunque, viene sostituito dall’associazione cinetransazionale, che diviene una proposta fondamentale e un mezzo per accedere alla nostra biografia e porre delle immagini. Quindi, il cinema di Guattari, che scalza la centralità psicoanalitica delle libere associazioni, cerca una forza di attuazione irresistibile che si sposta sulla tecnologia, perché utilizza tutte le forme di espressione artistica e psicoterapica. L’infra-quark si trasforma in una sonda potente, che entra nella nostra mente, esplora e riporta all’esterno un mondo inedito, ricco di desideri, fantasie, vissuti inconoscibili, che però si fermano sulla pellicola stampata o nella post-produzione digitale. Secondo Cesare Musatti, il cinema parla direttamente all’inconscio, quest’ultimo può far risuonare la sua cassa armonica emotivamente nella relazione con le immagini filmiche. Ma qual è la differenza tra l’affermazione di Musatti e l’intento di Guattari? Con gli anni ’90 e con l’introduzione della mediamorfosi, inizia una nuova era e Guattari con il suo progetto Uiq ne voleva essere il profeta. Alla fine della sceneggiatura di Guattari, il collettivo si sente per un attimo vicino a tutti gli esseri umani e alla loro storia antagonista. Abbiamo a che fare, con una parabola che include senza continuità tutte le opere di Guattari, sregolatamente e lucidamente eclettico, come pure affascinato da tutti gli estremismi formali. Paradossalmente, attraverso Uiq, si entra in una di quelle opere in cui l’autore non ha più nulla da inventare né da trasformare, in cui si limita ad apportare piccoli assemblaggi, a eliminare con leggeri ritocchi gli ultimi elementi superflui di quella sua unica, eterna opera che ha scritto su Psicoanalisi e trasversalità (1972). Guattari ha usato però tecniche sempre diverse: aveva fornito i suoi primi scritti di trame esili, di spunti multidisciplinari, che volutamente non faceva confluire, mentre per le opere di enunciazione collettiva aveva adottato il meccanismo seriale dell’immagine elettronica e della post-produzione figurata. Da L’Amour d’Uiq in poi, i lavori di Guattari saranno un unico, graduale, tentativo di rendere credibile l’immediatezza delle cose della mente, del mondo del cinema, inteso come macchina desiderante immensa.

Guattari aveva capito che, per essere vivibili, anche se precariamente, la forma di desiderio, che passa attraverso l’arte e il disordine dello scontro sociale, devono essere accettati e devono far sprofondare quella corticalità proposta da Jean-François Lyotard con l’Acinema (1977). L’idea di un film sovrano è l’ultimo importante contributo che Jean-François Lyotard offre al cinema. Si tratta di una conferenza tenutasi nel novembre 1995 presso l’istituto francese di Monaco di Baviera. Il tema degli incontri è Il futuro del cinema. Nel suo intervento Lyotard passa in rassegna le sue posizioni precedenti, in particolare quelle del suo saggio Acinema (1973) e quella degli Immateriali (1985). Si apre all’analisi dei film narrativi e rappresentativi e vi individua la presenza imprevedibile di un fatto filmico sovrano. Nella fine della sceneggiatura di Uiq, perduto qualsiasi senso di totalità, resta solo l’esatta visione dei ribelli, anarchici e post-hegeliani, che si giocano il dolore e il disordine prima di essere accettati: esatto è il transmedialismo particolareggiato, e quasi esasperato, con cui l’autore, nelle sue opere descrive i piccoli gesti, la quotidianità dell’assurdo e, magistralmente, la natura del desiderio della stessa lotta di classe. Lo shock è la richiesta di partecipazione al dolore, resa palese per merito della distorta temporalità dell’immagine. Per Lyotard, alcune manifestazioni del cinema contemporaneo (che all’epoca del saggio corrispondono al cinema di sperimentazione dell’underground americano) tentano di recuperare le icone rimosse dall’attuale sistema sociale. Queste immagini sono prive di descrizioni analitiche e declinano di porsi all’interno dei soliti scheletri e dispositivi di cognizione (perciò Lyotard parla anche di “sublime”); rifiutando la logica della “fotocopia” del mondo esterno, queste immagini fanno segno verso ciò che è stato dimenticato dall’attuale ordine strumentale. Le modalità che l’acinema preferisce adottare per operare questa frattura sono due, ovvero l’“enormità di moto” (la radicalizzazione delle cadenze di sveltezza) e l’“immobilizzo” (la radicalizzazione della fissità e dell’assenza di trasferibilità): “Attratto verso questi opposti, il cinema smette impercettibilmente di essere una forza dell’ordine: produce dei veri — cioè vani — simulacri, delle intensità di godimento, invece che oggetti consumabili-produttivi” (Jean-François Lyotard, L’acinema, in Aut Aut, aprile-giugno 2008, n. 338, p. 21.).

Molto cinema classico ha preferito adottare la «staticità diegetica», anziché il rallenty (da Antonioni fino alle forme più estreme come in Andy Warhol) al punto che Lyotard parla di tableau vivant. Qui, piuttosto che rallentare, si adotta un’immagine statica, vuota, che si rifiuta di venire trascinata via dalle necessità narrative. Questo perché, come detto nella prima parte, spesso il cinema degenera in retorica, nel caso di adozione del rallenty. Con Guattari, abbiamo invece l’adozione totale della “scrittura rallenty”, come strumento di iper-immobilizzazione, evitando di precipitare nella retorica per merito dell’assenza di un registro narrativo specifico. Quelli di Guattari non sono tableau vivant, ma immagini che conservano la tensione della vivezza, cariche di temporalità, immagini-tensione che sconvolgono la nostra abitudinaria modalità di percezione. Un tempo dell’attesa, che cerca di scavare nella nostra mente e nel nostro cuore, che stride rispetto alla tecnologia schermatica e transmediale di cui si serve, o si vorrebbe servire.

2. Il potere del cinema è forse lo stesso che si trova nei transfert concettuali. Già tra il 1915 e il 1917, infatti, dopo i successi delle prime proiezioni cinematografiche, il filosofo e psicologo tedesco Hugo Munsterberg, ricercatore alla Harvard University, pubblica una serie di articoli sul tema, che verranno successivamente raccolti nel volume The photoplay. A psychological study. Nel lavoro Why we go to the movie (1915), appunto, definisce il film una nuova tecnologia artistica, un nuovo modo di rappresentare la realtà; ma anche, attraverso le specifiche tecniche cinematografiche, per imitazione, gli svolgimenti di memoria, concentrazione e fantasia, facendo spuntare così nello spettatore stupori ed emotività. Quando osserviamo un film, percorriamo le influenze di quella storia, che sollecitano la memoria; l’astante distingue un sentimento di condivisione,  perché avverte che quei godimenti e quelle angosce del film parlano di lui. Qui il cinema introduce una archeologica mediamorfosi della nozione di mimesis! Siamo coscienti che quello che succede sullo schermo non è reale e che siamo di fronte ad un movimento manifesto creato dalla nostra mente, attraverso i nostri meccanismi inconsci e grazie alla nostra esposizione soggettiva. In sintesi, proprio come per le opere d’arte, proviamo un piacere che deriva da un vero e proprio godimento e appagamento estetico. Sarebbero tre, per Munsterberg, le motivazioni per cui andiamo al cinema: a) ci sentiamo rispecchiati; b) possiamo essere creativi; c) il godimento estetico si avverte. In un paragrafo dedicato alla Mente e l’immagine filmica, Munstenberg scrive che: “Sia che questa tecnica venga usata con discrezione artistica o con pericolosa esagerazione, il suo significato psicologico è evidente. Essa ci dimostra, sotto un nuovo aspetto, lo stesso principio dimostrato dalla percezione della profondità, del movimento, dell’attenzione, della memoria, della fantasia. Il mondo oggettivo è plasmato dagli interessi della mente. Avvenimenti talmente distanti l’uno dall’altro a cui ci sarebbe impossibile essere contemporaneamente presenti, si fondono nel nostro campo visivo, allo stesso modo come sono contemporaneamente presenti nella nostra coscienza […] Il gioco delle associazioni controlla le suggestioni come controlla le fantasie e i ricordi. […] Una grande e fondamentale suggestione agisce sia a teatro che al cinema nella mente dello spettatore: che ciò a cui assistiamo, più che finzione, è vita reale. […]” (in AA. VV., La visione e lo spettacolo, Testo & Immagine, Torino, 1998, pp.24-26). È curioso rilevare che, già nel 1917, Munsterberg introduce la questione etica ed educativa, con l’articolo Il pericolo per l’infanzia al cinema, ponendo l’attenzione sui contenuti del film e su come questi possano avere un’influenza sui bambini, e suggerendo una scelta attenta del materiale da far visionare per un uso educativo e sociale del cinema.

Un esempio indimenticabile, che ci indica come fin dai primordi il cinema ha realizzato il coinvolgimento emotivo, è quello di Georges Méliès, che per l’introduzione di numerose tecniche cinematografiche e la sperimentazione di nuove tecniche narrative – in particolare del montaggio, la caratteristica più distintiva del linguaggio cinematografico – può essere considerato come il primo regista. La peculiarità della sua scrittura filmica è che qui l’inconscio viene disegnato nell’immaginario iconografico della ripresa e dell’esposizione, dando quindi a Erwin Panofsky l’occasione per definire meglio lo stile e il mezzo di questo nuovo strumento mediale. Non a caso Martin Scorsese, nel 2011, gli ha dedicato una memorabile pellicola, Hugo Cabret, celebrandone proprio la capacità di espansione della sceneggiatura in atto, della trama e della scrittura tradotta in ripresa diretta. Scorsese, inoltre, mantenendo il clima surreale della cinematografia di Méliès, crea una panoramica sul clima culturale in cui il cinema si è evoluto, offrendo alla prospettiva storica e all’analisi archeologica una nuova vitalità.