ARCO Lisboa
Timismi
Tommaso Elia Perretta, un fotogramma per videoclip Kero, 2020

Timismi, …

Timismi, …
ancora un inedito dalla Trilogia del Grigio.
(seconda parte)

«E più mi piace di posar le poltre/ membra, che di vantarle che a gli Sciti/ sien state, a gli Indi, a gli Etiopi, et oltre».
Ariosto, Satire

«A chi mi domanda ragione dei miei viaggi,solitamente rispondo che so bene quel che fuggo,ma non quello che cerco.»
Montaigne, Saggi

«si viaggia così veloci, e si incontra una tale quantità di facce nuove e diverse, che spesso si arriva a destinazione senza aver scambiato una sola parola. Ormai la conversazione ha luogo quasi esclusivamente tra persone che si conoscono, a meno che si sia particolarmente in vena di chiacchierare, ma anche in questo caso spesso ogni tentativo fallisce per l’indifferenza di certi viaggiatori»
(W. Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, Einaudi Torino,1988,p.70)

I pensieri lo portavano continuamente fuori e dentro la concretezza, si diceva l’immanenza e poi si ricordava di alcuni incontri che aveva fatto su quel treno. Si era reso conto che il treno era più che un mezzo di trasporto, era anche la possibilità d’incontrare persone che nella vita quotidiana non avrebbe mai incrociato. Per argomentare il suo pensiero, rifletteva sulle varie volte in cui apparvero incontri imprevedibili e inattesi. Per esempio si ricordava di persone incocciate circa un mese prima. Anche allora aveva gli occhi chiusi, il computer aperto su un messaggio di errore, quando sentì una persona appressarsi, udì un rumore di metallo e dei passi piuttosto pesanti; sapeva già che era un uomo dalla maniera di camminare. Udì la persona mettere uno zaino sul portabagagli e sedersi in fretta. Sembrava un giovane, forse uno studente, un universitario con uno zaino pieno di libri. Aprì gli occhi, per vedere la realtà, ma non scorse uno studente, bensì una persona di circa trent’anni. Aveva quindi sbagliato e dei turbamenti gli attraversarono il fisico quando vide dei tatuaggi sulle braccia e dei piercing sotto il labbro e sul sopracciglio. Pensò, chissà forse si chiama Jonatal ed è il titolare dello studio “Jona tattoo art”. Probabilmente la sua storia comincia da un mondo pieno di inchiostro, da ventenne appassionato di disegno, che va a curiosare alla prima tattoo convention di Bologna. Dopo questa esperienza, un po’ presuntuosamente, un po’ per istinto e passione per il disegno, Jonatal inizia a pensare che anche lui avrebbe potuto creare tatuaggi. Comincia così, il percorso da autodidatta, dato che i tentativi di entrare a “fare la gavetta”, in un tattoo studio, furono tutti fallimentari. Verosimilmente, Jonatal iniziò a farsi tatuare e, contemporaneamente, compra il necessario per provare a fare i suoi primi lavori su qualche temerario amico … da quel momento fu travolto dalla febbre del tatuaggio … che non tutti riescono a capire: una insaziabile voglia di sapere, di vedere all’opera quel segno infinito, nelle varie tattoo convention a cui si partecipa. È lì che si incontrano i grandi maestri conosciuti in tutto il mondo, si parla con loro per chiedergli qualche consiglio e rubare con gli occhi la loro abilità. Per questo può darsi che da allora Jonatal ha girato in lungo ed in largo l’Italia e altri paesi. Nel 1998 questo che io chiamo Jonatal comincia seriamente a tatuarsi le braccia a Bologna nello storico studio di Stefano Marchesini, un pilastro vero e proprio del tatuaggio italiano; un tipo schivo della vecchia scuola che ti fa capire che il tatuaggio non è moda. Pare che Jonatal sia portatore di un senso particolare della sua body art. è uno di quelli che pensa che quella del tatuaggio è una storia d’amore e morte, di combattimenti,di iniziazioni, che nasce all’alba e tramonterà se non con la fine di questo mondo. Nasce con l’essere umano e del suo involucro, la pelle come unica geografia dell’esistenza e della bildung.Gli uomini hanno un lato oscuro che può nascondersi nel loro animo oppure uscire in diversi modi allo scoperto, nell’area corticale della loro corporalità. Dal canto suo, chi lo cela, è pieno di pregiudizi, paure, fobie, amore, odio; il lato oscuro è in ognuno di noi ma, se si riesce a controllarlo, la vita potrebbe essere molto più semplice. Controllarlo non evitarlo. Ci sono tante cose che ci appagano, ma mai come quando riesci a coesistere con il lato oscuro, tirando fuori tutto ciò che è sepolto, sotto molto sotto la pelle. Qualcuno compie azioni estreme come lanciarsi da altezze fenomenali, sfida la natura, sfida se stesso, Jonatal invece si perfeziona in stimmate underground. Qualcuno si tatua ed è già estremo, il popolo dei tatuati è sempre maggiore, ma non so quanti ne fanno buon uso, se è solo un momento.Anche la soteriologia – cioè la teologia della salvezza alla quale è finalizzata l’incarnazione – si fonda sulla corporalità del tatuaggio e mediante essa  si realizza al punto che si può parlare di “sacramento semiotico della carne”, cioè della corporeità come mezzo mediante il quale il Tatuaggio incarnato ha compiuto la nostra salvezza di narratori. E’ infatti nella carne che il tatuatore dell’uomo, il performer del segno, compie sulla pelle il sacrificio cruento che porta segno; è mediante l’immolazione del suo corpo che l’Altro dà al tatuatore la propria generosità identitaria. “La salvezza semiotica è una salvezza incarnata – dice Jonatal – : non avviene fuori o al di sopra del nostro essere corporeo, ma dentro la pelle, con e, in definitiva in direzione della cotica. Nell’antica Cina, il simbolismo del tatuaggio è fissato dal senso nativo della grafia wen, che indica i segni ingenui della scrittura, lo scritto, ma anche la sapienza politica confuciana. Wen comunica linee che si corrispondono (il che potrebbe accostarlo all’orditura corporale),vasi sanguigni, grinze, rappresentazioni grafiche. Alcune grafie ritraggono un uomo tatuato: si tratta di un’invocazione stabile, di una coincidenza con le potenze celesti, come un modo fondamentale di comunicazione con esse. E’ il simbolismo più in generale del tatuaggio che viene accordato a seguito di una affiliazione che permette tale medialità. Nello stesso tempo, questa consacrazione è rito d’integrazione a un gruppo sociale, il cui tatuaggio è il segno resistente: è il segno della tribù. Il tatuaggio ha potuto, sempre in Cina, ma anche a noi stessi, permettere di identificarsi con alcuni animali, con chiaro proposito di appropriarsi della Virtù che essi rappresentano, e che è anche manifestazione della potenza celeste oltre che emblema tribale”. 

«Dev’essere un frammento della vita vissuta, un amore disperato, una morte, una soluzione. Ma ancora c’è gente che non capisce il tatuaggio, è storia, cultura, passione, un’arte che ha fucinato guerrieri, ha temprato l’animo degli Indiani d’America, ha ingioiellato i corpi dei polinesiani, accompagnato i marinai, coperto le nudità delle nostre signore dei bordelli, un’iniziazione per le mafie di tutto il mondo e ha dato a noi tatuatori – magari pensava Jonatal – un motivo per esistere! Il tatuaggio aderisce ai simboli di fusione ed è perciò gravido di tutto il loro potenziale magico e mistico. L’identificazione ha sempre un doppio senso: essa tende a concedere a un soggetto le virtù e le forze dell’essere-oggetto al quale si assimila; ma tende anche a immunizzare il primo contro la probabilità malefica del secondo. Avvisteremo così tatuaggi d’animali rischiosi che seguono artisti rischiosi come lo scorpione e l’ofide, o di bestie, come noi, simboli di fecondità, nel modo del  topo, di potenza, nel modo di un leone. L’identificazione comporta anche un significato di dono, o di consacrazione, all’essere allegoricamente rappresentato con il tatuaggio; e allora un segno di devozione. E tale passione è condivisa solo da chi dell’arte ne fa uno stile di vita. La moda è una maglietta che un anno va e l’anno dopo già non va più. Il tatuaggio è passione, è durevole, è un segno che scava dentro e ti segna fuori. Deriva da un’esperienza o da un periodo di vita, quindi deve essere rispettato, soprattutto dalle ipocrisie di chi, esternamente a questo mondo, giudica e si fa dei pregiudizi. Scempiaggine in famiglia, presso il negozio dei tatuatori, pagliacciate domestiche e comunitarie. Non se ne può fare una descrizione dettagliata, e sarebbe un disastro raccontare il migliore di quegli scherzi. È necessaria una famiglia abbastanza numerosa di tatuatori, ma non c’è bisogno che gli interessati abbiano uno spiccato senso da disegnatori o da illustratori fumettari. Si comincia con una qualsiasi striscia sul quaderno del liceo, generalmente durante la pausa, e poi ognuno aggiunge una propria nuvoletta, fino a che tutta la tavola è un tumulto di poesie e le guance scarlatte dei ragazzi sono rigate di lacrime per il gran ridere e per le forti emozioni. Questa scena non entusiasmerebbe affatto un lettore di fumetti intelligente, anzi gli sembrerebbe probabilmente repulsiva. Essa non è per dei fumettari, intelligenti o meno. Bisogna far parte di essa, esserci completamente dentro per apprezzare l’immagine sul corpo. Nascoste in fondo a queste rumorose membra vi sono profonde radici illustrative e in alto, a partire dal capo, al di sopra di esse, gemme informative invisibili che giungono sino all’inguine. Qualche volta una personalità collettiva si sprigiona durante il chiasso che queste mie membra riescono a fare, accompagnando questi segni del corpo. Senza questa felice unione, con me stesso, la piccola farsa non potrebbe aver luogo, il viaggio non potrebbe sentirsi scoperto per voi. E sono scene come queste, prive di dignità, di bellezza o di vero spirito artistico, fatte di grida personali e di schiamazzi e di burle di infimo ordine sulla spalla del mio corpo o sul dorso, che un tatuatore, sentendo la sua vita declinare, rivede con angoscia di ripianto e di tenerezza, ricordando, come uno splendente regno perduto, la performance riunita in me a ripeter ricordi». 

La ricostruzione di uno dei fratelli di Jonatal

Considerato ciò le smorfie di Shlomo cominciarono subito a moderarsi, nella sua memoria la sottile sfida tra concetti e fisiognomiche continuava; siffatta gara si protraeva tra ciò che di lui immaginava e ciò che di lui effettivamente vedeva ed osservava. E nonostante ciò il suo primo gesto fu di togliere in fretta il suo computer dal tavolo e sistemarlo altrove. Il suo respiro era irregolare, il suo cuore batteva forte per la sorpresa e trasaliva un senso di ansia per quel viso così invadente. Nonostante la stanchezza della mattina per tutto il tragitto non chiuse occhio e tenne la mano sempre sulla borsa del computer. Come da uno schermo, osservava quell’uomo addormentato, pronto a scappare se necessario. Poi, dopo un’ora, l’uomo si svegliò, sorrise a Shlomo e cominciò a parlargli con un fare semplice e gentile. Shlomo, all’inizio, fu sorpreso soprattutto dalla voce dell’uomo: non era una voce dura e arrogante come se l’aspettava, era invece calma e tranquilla. Si esprimeva con delle parole accurate, in un modo lento e particolare, come se fosse l’altoparlante di un monitor. Una strana atmosfera riempiva quel vagone, tra il torpore di Shlomo e quell’uomo che parlava come un libro ed era conciato in quel modo strano da hacker-tatuato. Per immagini e costituzione di una coltre di libridine, il pensiero giocava ancora tra citazioni:“Il libro è l’oppio dell’occidente”(Anatole France)e “la letteratura è una difesa contro le offese della vita”. Pavese poteva essere un buon influencer della filosofia libridica post-leopardiana ed un ottimo termidoro, per poter raccontare del lunghissimo viaggio che andava fatto per raggiungere un gruppo di amici a Roma. Shlomo rispondeva per monosillabi, sperando che l’altro finisse per capire che non gli interessava la sua storia. Una o più vocali con o senza una o più consonanti, che da sola o in gruppo costituisca un corpo fonetico che si pronuncia con una sola emissione di voce grigia, forma una SILLABA fonica: 
«Perché?»
«Era irritante. Lasciava sempre le domande senza risposta, i suoni senza significato. Mi sorrideva dolcemente quando cambiava la struttura delle frasi e generava fottute risposte alle sue inutili domande, facendo finta di ritenere logiche le prime e lecite le seconde. 
Scrutava il volto dell’altro alla ricerca di un possibile assenso. 
Sorrideva. Sembrava sapesse tutto, conosceva le risposte a tutte le domande. Il suo era un silenzio colmo di risposte. 
Il mio infinito poetico era circoscritto dai suoi limiti. 
Sorrideva forse perché capiva il mio infinito fonetico, utilizzando i suoi limiti e giocava con me un gioco del quale conosceva le regole, ma che non sapeva e non voleva insegnare, neanche a se stesso e neanche insistendo con una silenziosa ripetizione a memoria. Ho sempre giocato con le parole. La vita consiste nella partecipazione ad una partita, le cui regole non sono sottoposte al vaglio dei giocatori. Esse preesistono e sono giuste per definizione. L’ironia poetica permette di accettare le regole, e non è possibile rifiutare. La metafora è una buona omeostasi psichica, così come la phonè è un buon test per sentire parole in musica». 

«Musica … Musica … Musica». Risultava evidente all’ingegnere informatico che i desideri di un poeta non si sarebbero tradotti mai in musica digitale o in atti politici, facendo leva sulla sua ferma convinzione dell’esistenza dell’Immagine. 

«Ingegnere, lei mi prende in giro» 

Il dirimpettaio di sediolino, nel vagone del treno per Roma, si alterava. 
L’affermazione del rappresentante dell’Accademia della Crusca lo aveva lasciato molto perplesso. 
Il nostro normalissimo linguaggio informatico che afferma alludendo e nega affermando, nasconde dicendo e dice nascondendo, possibilista, sempre astratto, mai preciso ed inequivocabile, dava molto fastidio all’ascoltatore di quella mattina.
Un diplomatico mi accusava di essere ambiguo; uno di noi due, nella pronuncia, non lo era. 
L’ambasciatore della Crusca pretendeva chiarezza e accusava tutti gli astanti di nascondere dietro l’ironia delle parole un grave attacco alla sicurezza della sua persona e dello stato che egli rappresentava. 

«La sillaba dunque è l’indicazione grafica di una vocale o di un gruppo di vocali o di un gruppo di lettere contenente almeno una vocale che si pronunzia con una sola emissione di respiro. Si tratta di vapore sillabico! E non può essere inciso sulla pelle, adesso e mai più! Mi sembra anche facile comprendere, benchè sia tutt’altro che ovvio nella prassi, come – in ordine a questo processo di trasfigurazione – sarebbe assai fuorviante considerare i tre impegni del tatuaggio: segno,immagine, esposizione, come indipendenti fra loro. Sotto angolature diverse, tutti svolgono infatti il medesimo ruolo di mediare la testimonianza del desiderio, nei suoi radicamenti più epidermici: un corpo indiviso è il suo obiettivo!». 

Aveva il culto del vagone ferroviario e del treno come succursale dello studio per tatuatori. Ci si riposava in ogni primo viaggio; i raggi del sole lo riscaldavano seduto sul sediolino in ferro battuto dipinto di bianco luccicante ed in rilievo sul pallido  segno dei writer. Ascoltava la musica con il suo walkman aspettando l’ora dell’inizio del suo turno lavorativo; era un rito che si ripeteva ogni giorno inappuntabile ed inesorabile come il recarsi a letto per dormire e sognare. Ascoltava la musica, contemplava la geometria delle aiuole ed incantato dalla bellezza del paesaggio, fuori dal finestrino, sognava. Il paesaggio era un piacere, una panacea, un meato per il suo spirito hacker in formazione. I fotogrammi che si sintetizzavano – davanti ai suoi occhi – gli ricordavano della collaborazione ai corti di Wenders. Si sentiva un regista incontrastato ed indisturbato. La memoria lo riportava alle sequenze di uno strano film di un filmaker inglese ed al suggerimento  di rendere il suo fotogramma come un luogo di pensieri, giochi e di spazio per l’attenzione alla singola foto. 

Sì la singola foto di viaggio … accarezzare e curare i meati, le piante e il prato che scorrevano, stendersi sopra quel montaggio vivo, organico, naturale e rotolarsi come un gioco liberatorio. Lo definivano un poeta per tali leziose abitudini. In quanto tale, in fondo lo era, detestava gli altri poeti che lo facevano con la parola. 

Il meato per lui, nella struttura del suo spazio, rispecchiava la visione del mondo e del viaggio che aveva. Il viaggiare era il suo regno … Il fenomeno del pendolarismo tende ad essere un comportamento timico sempre più diffuso e consueto; molti lavoratori flessibili, che non risiedono nel centro urbano in cui lavorano (ma nei sobborghi, lontano dalla città di Roma e dalle strade per Roma), sono quindi costretti a raggiungerlo con quotidiani viaggi di andata e ritorno ed è come se  dovessero pervenire alla loro stessa Bildung. Infatti alle trasformazioni della geografia urbana è concomitante lo sviluppo di una formazione addivenire: nasce il tipo suburbano, colui che fa il tatuatore nei sobborghi e lavora con le tattoo delle grandi città. Alle modificazioni personali della Bildung si accostano le modificazioni passeggere dell’hackerismo di frontiera. Per la prima volta un tempo pubblico, determinato e immodificabile, fissa i tempi e gli orari dei viaggi quotidiani del pendolare, la cui formazione e i cui tatuaggi viene da essi condizionata, quasi subflessibilizzata. Il pendolare flessibile è il viaggiatore che più risente di tali cambiamenti interni ed esterni; il tempo della macchina entra nella sua vita, ed il tempo della vita entra nella sua macchina, segnandone l’inizio e la fine del lavoro e condizionandone geografie,corpi, tatuaggi e hackeraggi. È un tempo che Kafka definisce “terrificante”. In La Metamorfosi il tempo pubblico si insinua nell’orologio mentale di Gregor Samsa, che al risveglio, dopo essersi scoperto trasformato, è terribilmente angosciato, più che dalla metamorfosi subita, dalla consapevolezza che perderà il treno. Il tempo pracario, il tempo flessibile, il tempo indefinibile prevarica il suo tempo “personale”. La rottura con la routine del tempo pubblico è il simbolo del crollo totale  della sua relazione con la crescita, l’esperienza della Bildung e quella del mondo.» Le mani richiamano i piedi, quei piedi che calpestano il luogo del tatuaggio in cui il viaggiatore ha posto il suo obiettivo e la sua forma di vita. I piedi di un tatuato sono molto più che un semplice strumento per camminare. Essi servono a mettersi nelle scarpe degli altri e vivere una vita in sintonia con la storia e i vissuti degli altri tatuati. Il corpo del tatuato è soggetto dei sensi: fa toccare, vedere, odorare, avvicinare e distanziare. Una delle figure impiegate a decrittare l’essenza della corporalità tatuata è l’attenuazione, in essa, del pathos della distanza, senza il quale, egli ricorda, tramite le parole di Nietszche, non può nascere ciò che per lui è vitale: «quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza» all’interno della propria pratica corporale e animale, «l’elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste, insomma innalzamento del tipo»tatuato,il continuo«’autosuperamento dell’uomo’,per prendere una formula morale in un senso sovramorale». È con il corpo inciso che si vive lo statu nascendi del tatuatore e del morire: della prima separazione che consente di venire al mondo e dell’ultima che fa andare da questo mondo. È con il corpo del tatuatore che si sperimenta la crescita e il divenire di una pellaccia, l’incontro e l’amore di possedere una geografia di sé, il consumarsi e il decadere del proprio segno. Il tatuaggio è la parola del corpo e della sua storia, una realizzazione di un’amore filiale all’arte che non c’è più. 

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