Gabriele Perretta, Tramonto romano, c.print 2010

Timismi,… / quarta parte

Ancora un’inedito dalla Trilogia del Grigio

«I viaggiatori non han mai detto pur una sola bugia,/ per quanto gli sciocchi /che se ne restano a casa/ rifiutino di prestar loro fede»
Shakespeare, La Tempesta, Atto III, Scena III (Antonio) … 

«antigenealogia, che procede per variazione, espansione,cattura, conquista,iniezione,[…] è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante, senza Generale, senza memoria, organizzatrice o automa centrale,unicamente definito da una circolazione di stati». G. Deleuze, F. Guattari, Rizoma, Pratiche, Parma, 1977, p. 56. 

Gentilissimo signor Shlomo, vorrei dire al mio amico Lanier, con le parole di Samuel Beckett, che le “idee si assomigliano in modo incredibile, quando si conoscono”. Il rimedio dello scettico sta nel credere a quello che diceva Andrè Gide: “Le idee chiare e precise sono le più pericolose, perché allora non si osa più cambiarle, ed è un’anticipazione della morte”. Ma come è possibile, che Lanier sia partito da una idealizzazione così nominativa della rete, senza saper distinguere tra mito e forma commerciale della tecnologia! Non è che Internet è solo da adesso contraddizione informatica e poltiglia, che rischia di distruggere le idee. Fino a quando i mezzi saranno idealizzati, i fini saranno sempre più appiattiti! L’anonimo cyborg, con grande sorpresa di Shlomo, non vede altro che critica a questa generazione che dagli anni ’60 fino ad oggi non ha fatto altro che passare da un’infatuazione ad una totale derealizzazione! La parola de-realizzazione significa, letteralmente, “perdita del senso di realtà”.

Pertanto, per capire appieno cosa significa perdere il proprio senso di realtà occorre, innanzi tutto, capire cosa significa possedere un senso della realtà. La realtà, così come noi la vediamo, è un fenomeno sia oggettivo che soggettivo. Ciascuno di noi avrà, almeno una volta, sperimentato quel senso di estraneità e di irrealtà che ci allontana da un contesto sociale: siamo ad una festa, ad una cena, in compagnia di qualcuno e d’un tratto la scena si allontana con la stessa progressione con la quale ci sentiamo separati e isolati dentro noi stessi. L’isolamento emotivo sperimentato (l’estraniazione, appunto) è una forma elementare di derealizzazione. Fenomeni di derealizzazione sono anche la rèverie (l’attività del ricordare in modo vivido e sognante) e la fantasticheria (quel “sognare a occhi aperti” che, nei bambini e in alcuni adulti introversi o creativi, astrae intensamente dalla realtà). Estraniazione, rèverie e fantasticheria sono fenomeni normali nei quali possiamo renderci conto che la percezione ordinaria della realtà è un costrutto psichico, un “film”, da cui possiamo distrarci ogni volta che lo desideriamo, rivolgendo la mente al nostro mondo interno, il quale diventa vivido in modo abnorme, derealizzando la percezione del mondo esterno.

Il corollario di questo teorema è che più il soggetto è passivamente aggrappato al suo mondo abituale, più la sua differenziazione psicologica indurrà fenomeni di ansia e di panico; più il soggetto, viceversa, è fiducioso dei segnali che gli provengono dal mondo interno, meno avrà paura dell’apparente “stranezza” del suo distacco emotivo, affettivo e percettivo dal mondo esterno. La questione, tuttavia, non è così semplice, non basta un’insinuazione od una battuta spiritosa per risolverla. Noi veniamo dalle Marche e stiamo andando a Roma ed io mi occupo di informatica, così come mi occupo di letteratura e quindi sono un appassionato di scienze umane o un semplice lettore anonimo all’opera affetto da libridine. Esaminando fugacemente l’idea di un principio di empatia tra luogo e figure poetiche in viaggio per Roma, viene da chiedere: chi è il poeta più famoso che salta agli occhi? Chi è colui che opera un ritorno conflittuale all’urbe? Chi si chiede, in Sant’Onofrio in Gianicolo, sulla tomba di Torquato Tasso, dov’è che va in crisi il costume degli italiani? Se parliamo di letteratura per dare una svolta psicologica ai frastuoni deterministici della tecnica, questa constatazione è evidente e il problema della de-realizzazione italiana è già ubicazione! No, le cose non sono tanto semplici come sembrerebbe.

Con un’abile strategia linguistica la nostra figura anonima reitera: “anzi se si tratta di quelle della vita e del viaggio per Roma del nostro recanatese (e lo dice come se stessimo sottintendendo la voce e la presenza di Leopardi), il discorso si fa sempre più complesso. Ma vado oltre e cercherò di esprimere tutto il mio pensiero, se lei signor Shlomo avrà la pazienza di ascoltarmi, insomma se avrà l’umiltà di non fermarsi alle apparenze hacker. Esiste un poeta che più di tutti dalle Marche viaggia per Roma, proveniente da quella nobile e frustrata provincia maceratese. A tale questione si potrebbe rispondere a priori, in tanti modi, secondo la diversità delle concezioni della poesia e del genius loci che si hanno o si possono avere! Non volendo in alcun modo procedere a caso, anticipo dunque delle questioni seducenti dicendo che il viaggio a Roma di un italiano dell’800, ovvero la prima ascesa fuori dal carcere recanatese per il ventiquattrenne Giacomo Leopardi, riguarda la materia di discussione con Carlo Antici, la derealizzazione al cospetto delle “sudate carte” e la folgorazione del piccolo chiostro del convento di Sant’Onofrio, che risale al periodo della fondazione dell’abbazia, della galleria porticata al piano superiore, delle lunette affrescate con storie ad opera del Cavalier d’Arpino, del rifugio delle ultime angosce di Tasso, che vi arrivò da Napoli dietro la promessa di Clemente VIII di incoronarlo poeta, come era stato secoli prima per il Petrarca, il ricordo della scomparsa stessa del poeta che vi morì il 25 aprile del 1595 e della quercia stessa del Gianicolo che ancora adesso si trova nella parte alta e viene ricordata come sito di pii trattenimenti.” 

ASP, Strane sembianze di Roma, c.print 2016

“Leopardi- dice l’anonimo intellettuale del treno 42/40 per Roma – con le sue tensioni ci aiuta a gestire la libridine, cogliendo una terra di mezzo tra le passioni per la tecnologia e quelle per la poesia e la sua fonte originaria!”. L’anonimo cyber-lettore, riferisce Shlomo, ci mostra che il suo interesse negli ultimi anni ha tentato di ripercorrere le tappe che hanno portato la spiritualità artistica contemporanea ad individuare un nuovo campo di interesse, un diletto che si concentra sull’affettività e le passioni iscritte nelle culture e nelle rappresentazioni dei libri (ovvero la libridine) e a cercare di mettere a punto nuovi orizzonti concettuali e opportuni strumenti che potremmo chiamare le “nuove sudate carte”. “Non c’è bisogno di ripetere – continuava col dire l’anonimo, suscitando sempre più sorpresa in Shlomo – che gli uomini comunicano e si trasformano reciprocamente, modulando i contenuti concettuali dei loro discorsi, attraverso immagini ed effetti passionali condivisi all’interno di una cultura: la continuità dell’interesse odierno per Leopardi è la testimonianza di tutto ciò. Aveva ragione il vecchio ferrarese Cesare Luporini, Leopardi è modernità e profondità lirica collegata alla tradizione più antica e passionale della libridine! Lo aveva già affermato Aristotele nella Retorica che le passioni scorrono nell’efficacia dei segni! Leopardi a Roma trasporta l’umore del disincato che si consuma al di là della libridine e in attesa di liberazione dalla dura potestà casalinga di Monaldo ed Adelaide. Il ventiquattrenne Leopardi nel ‘22 aveva già assimilato un herpes e un’ipermetropia che si portò avanti per tutta la vita, una probabile tubercolosi ossea, un’acutizzazione della deviazione della spina dorsale e i problemi respiratori che cominciavano a diventare persistenti. Prima dell’arrivo a Roma, Leopardi aveva già progettato una fuga, con un passaporto clandestino per il Lombardo-Veneto, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga fallì. Chissà forse in Giacomino si annuncia un caso clamoroso di zoofobia isterica. Giacomino si chiama Hans Leopardi e a quattro anni è cresciuto con la fobia dei cavalli. Giacomino forse si rifiutava di uscire per la strada a causa della paura dei cavalli. Monaldo e Adelaide rappresentano un serio conflitto di ambivalenza. Il desiderio di Giacomino, di scappare nel Lombardo-Veneto è frutto del complesso di eliminazione del padre. Si tratta di un moto pulsionale che sottende la rimozione, è pertanto un impulso ostile nei confronti di Monaldo. La fobia di Giacomo sembrerebbe essere un tentativo di risolvere il conflitto di ambivalenza nei confronti di Monaldo. Ma andando a Roma si scopre, negando le interpretazioni geometriche di Freud, che Giacomino non è segretamente innamorato di Adelaide. È la sostituzione del padre con il cavallo l’elemento che rende tutto ciò una nevrosi, una fobia, ed è proprio questo spostamento a generare il sintomo. Riportando le parole di Freud: “Si tratta di quell’altro meccanismo che permette la soluzione del conflitto di ambivalenza senza l’aiuto della formazione reattiva”. Il conflitto di ambivalenza, pertanto, non viene risolto in relazione alla persona verso la quale gli impulsi sono diretti, ma viene aggirato surrogando a questa persona un oggetto sostitutivo. Il caso di Hans è nello specifico molto particolare, poiché il processo di rimozione ha coinvolto la quasi totalità delle componenti del complesso edipico, ovvero l’impulso d’amore e quello d’odio verso il padre e l’impulso d’amore verso la madre. In realtà, la rimozione che conduce alla zoofobia, sarebbe secondo Freud, alimentata dall’angoscia di castrazione da parte del padre, rivale in amore, di un bimbo che nell’età dello svolgimento del complesso edipico è innamorato dell’amore per la libertà e della possibilità di usare la poesia come processo anti-edipico e a questo rituale rivolge i suoi primi impulsi sessuali. Il bimbo dunque, avrebbe timore di venire castrato dal padre, suo rivale nel contendersi l’amore per l’alternativa genitoriale. Nel caso di Giacomino, l’impulso ostile nei confronti del padre si riversa su una figura sostitutiva, quella della poesia che da Roma e da Firenze aggredisce gli usi e i costumi degli italiani e, in un certo senso, abbandona tale impulso per paura di essere castrato. Giacomino riscrive le parole del Piccolo Hans di Freud: “La sua paura che il cavallo lo morda può facilmente essere compresa come paura che il cavallo gli stacchi con un morso i genitali, lo castri e quindi egli non può più inseguire donzellette e bei ragazzi, alla Joe D’Alessandro, per sfogare la libido, come forma di liberazione contro il costume degli italiani”. 

All’anonimo compagno di viaggio pirsingato [del Quarantadue-Quaranta], dopo aver espresso tali frattaglie psy, non resta che ricordarmi che forse la disperazione della prima mancata fuga provoca in Leopardi le basi della sua filosofia della libertà. E poi – mi ricorda ancora – che, riflettendo sulla vanità delle speranze e l’ineluttabilità del dolore, il nostro recanatese scopre ch’è inutile drammatizzare; così come la pratica stessa del dolore è inutile. Anzi dall’inutilità del dolore nasce la composizione dell’Idillio, degli Idillii, ovvero de L’Infinito, de La sera del dì di festa e Alla Luna. Qui, il marchigiano si prepara, per nutrire devozione all’innata infelicità, trasferita a Roma dal Tasso. Sembrava quasi che nel sentimento dell’ingenita malinconia,l’Anonimo del 42/40 volesse scendere a patti col diavolo e giustificare lo sguardo verso l’adeguatezza al presente, nonché l’incessante ingestibilità del pessimismo! Ormai, dal suo discorso era chiaro che, per Giacomino, Roma era il simbolo della catastrofe societaria. Era chiaro che nella descrizione dell’ambiente culturale romano, ritardato e chiuso, c’era stato per lui, e prima ancora per il maceratino, la constatazione della carcerarità e della cultura del controllo. Un fenomeno che evolvendosi in una forma abnorme si era profuso dalle fortune dell’autorità e della famiglia a quello delle comunicazioni di massa e della rete tutta.

“Si ricordi, caro Shlomo – mi disse il tolemaico cyborg – Leopardi a Roma finirà per frequentare solo studiosi stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen e Barthold Niebuh! Quest’ultimo un danese che si occupava di Storia romana e, come tutti i nostri amici adepti del medialismo internazionale, era dunque uno straniero: nemo profeta in patria. Ecco, questo potrebbe essere un bell’argomento da sottoporre ai nostri storici ed anche a quegli intellettuali italiani radical chic che non amano le risorse che una nazione esprime e un territorio esplicita e che quindi per mandare avanti la loro attività lavorano con le strategie di contrapposizione dei luoghi e delle etnie. Ricordo che, a Roma, così come sono diventato amico di Lanier, di Reinghold e di tanti altri della cyberculture, senza mai essere veramente accettato per la proposta del medialismo, anche Leopardi, prima ancora che lo suggerisse Fabio Mauri, ha avuto la sensazione di essere rifugiato a Martinica. In fondo, Barthold Georg Niebuhr fece anche la prova del 9, ma il tentativo fallì di sana ragione! Propose a Leopardi di farlo entrare nell’ambito dell’amministrazione pontificia, ma l’indomabile progressista, rifiutò. Al nuovo carcere Pontificio, Leopardi preferisce apprendere il rapporto con la storia, con la natura, i valori del passato e la situazione statica e degenerata del presente; del suo presente, che somiglia così tanto al nostro. Il nobile contadino recanatese si lancia nella virtualità delle illusioni, nella nozione di gloria e di noia: la ragione non è più un ostacolo all’infelicità, ma l’unico strumento umano per sfuggire alla disperazione.

Un antesignano della poesia di dissidenza petrarchesca e che non aveva niente a che fare con i pregiudizi storici delle avanguardie, ma semmai con il gusto per Lev Tolstoji e le sue domande sull’arte fu sicuramente Carlo Michelstaedter, che ne La persuasione e la rettorica dice che le Operette Morali di Leopardi e in particolare il Dialogo della Moda e della Morte, il Dialogo di Tristano e di un amico costituiscono una parte sostanziale della filosofia del recanatese a Roma”. 

Ma dopo aver ricordato quelle pagine così eroiche della nostra dissidenza poetica e della nostra diversità letteraria, il nostro hacker ante litteram, non si stanca di aggiungere al sibillino metalogo ferroviario, che forse Giacomino a Roma matura il sentimento che ci trasmette nel Saggio sul Costume degli italiani, anticipando ciò che nei Canti diverrà la sua voce modulata e libera. 

«Ai miei tempi provavo un’immensa gioia tra i metafisici, specialmente tra coloro che possedevano la dialettica più geniale. Il Presidente dell’Associazione segreta degli Hackers, per esempio. Assistevo ai suoi speech più popolari, a Roma, e li gustavo in ogni particolare. Egli stava in piedi, con il capo un po’ inclinato da una parte, e sembrava un colossale monaco cercante dal volto rubicondo recitante la sua lezione sulla società digitale, con una specie di stupida innocenza; dopo molti esempi nei quali tirava in ballo elefanti e unicorni, strategie di accumulazione dati. Impianti per software e linee di condotta per hardware, egli esiliava nel limbo materialisti e dualisti e si dedicava a costruire un’atmosfera superiore; il suo castello incantato dell’dealismo della rete. Ancora oggi leggendo i suoi scritti, ritrovo un po’ di quella vecchia tensione poetica che lui tanto lamentava. E sono la sue tecnice superbe, simili a quelle del prestigiatore, a darmi tanto piacere nell’applicazione di programmi in rete. Io non sono un discepolo del professor Lanier, né ho la pretesa di intendermi di filosfia della rete; eppure, non mi è mai sembrato che mi dicesse veramente qualcosa di Second Life, o che si preoccupasse di rivelare la verità. Non che trovassi da ridire sulle sue dissertazioni. Ciò che egli si proponeva di dimostrare, lo dimostrava. Mi sembrava allora e mi sembra ancora oggi. Non avrei mai osato contraddire una sola delle sue affermazioni. Lo seguivo sempre con facilità, in quel castello sospeso a mezz’aria. Ma, in realtà, non credevo neppure a una parola. Tuttavia, lasciandolo, mi sentivo rincuorato e arricchito di nuove esperienze digitali, come se avessi passato un’ora con un mago benefico. Sono scomparsi tutti, oggi, questi illusionisti dei grandi computers e dei grandi schermi, questi prestigiatori della parola che potrebbe essere utilizzata, meravigliosamente, in rete? Non vi sono più al mondo hackers che insegnano ad altri hackers, informatici che abilitano altri informatici. Quelli che una volta rimangono estatici, a bocca aperta?». 

Immagine in evidenza: Gabriele Perretta, Tramonto romano, c.print 2010