Giulio Ceppi

Giulio Ceppi: Il design come scienza relazionale

La nostra Angela Faravelli ha intervistato l’architetto e designer Giulio Ceppi – docente al Politecnico di Milano, Creative Director di Total Tool e delegato della Fondazione Italiana per la Bioarchitettura – membro del comitato di esperti per mettere a punto il “Piano per la scuola” in conseguenza dell’emergenza del virus Covid-19

Non si può fare a meno di riflettere sul particolare momento storico che tutti stiamo vivendo e attraversando, caratterizzato da un cambiamento radicale riguardo la gestione del tempo e dello spazio; così le persone, dovendo rimanere nel perimetro casalingo e avendo a disposizione un tempo indefinito, si trovano a dover ristabilire un nuovo modo di vivere, scandito e contraddistinto da nuove abitudini.

In questo contesto è fondamentale tanto la possibilità di esprimersi quanto quella di conoscere le opinioni ed i pensieri di chi, per “deformazione professionale”, è abituato a figurarsi realtà in divenire, come nel caso dei progettisti.

In questa intervista Giulio Ceppi (1965), architetto e designer che vive e lavora a Milano e sul Lago di Como, occupandosi di progettazione sensoriale e design dei materiali, di sviluppo di nuove tecnologie e di strategie di identità, apre un dialogo intorno ad un futuro da visionare e disegnare insieme in seguito alla chiamata da parte della Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina per far parte del comitato di esperti incaricati di progettare una nuova scuola che dovrà nascere dall’emergenza.

Giulio Ceppi, Architetto e Designer
Creative Director di Total Tool
Foto Giovanni Gastel

Angela Faravelli: Compito dell’architetto è saper tradurre in spazi vivibili ed esperienze reali le esigenze di cui la collettività non ha ancora pienamente preso coscienza. L’emergenza mondiale legata al virus Covid-19 che ha investito la nostra società come sta cambiando il tuo approccio al progetto?

Giulio Ceppi: L’architettura è una “scienza inesatta”, nel senso che è un’attività basata fondamentalmente sulle persone, sui loro comportamenti, sui loro bisogni, sui loro desideri e, nel momento in cui un evento come il virus Covid-19 modifica il contesto, anche i paradigmi dell’architettura cambiano, perché stanno mutando le distanze tra le persone, il valore della prossemica e il modo di relazionarsi con gli altri. Non bisogna dimenticare che il progetto è un’attività di relazione: non si può progettare da soli, ma sempre attraverso una negoziazione con altre persone, tramite riscontri e interazioni. Lavorando maggiormente in remoto si modificherà inevitabilmente qualsiasi tipo di progetto e le conseguenze saranno sicuramente di due tipi: una riguarderà gli obbiettivi ed i contenuti dell’architettura e l’altra le modalità ed i processi con cui l’architettura stessa opera nel reale. La missione, per noi progettisti, sarà sempre più saper essere dei traduttori, delle interfacce, tra ciò che è ancora “in potenza” e ciò che potrà poi divenire una pratica quotidiana. La grande sfida – e l’elemento che a mio parere determinerà la differenza – sarà la capacità di saperlo fare in maniera gentile e rassicurante, avendo sensibilità, modestia ed empatia, cosicché chi adotterà queste nuove soluzioni possa sentirsi coinvolto.

AF: Nei tuoi progetti poni grande attenzione alla possibilità di rendere sempre più stratificata e complessa la percezione e fruizione dell’oggetto/edificio inserendovi aspetti e sfaccettature multisensoriali. Questa scelta rivela la tua costante attenzione dedicata alla ricerca di modelli universali e inclusivi. Puoi spiegare meglio i concetti di Design for All e Design for the Common Good? Da quando hai iniziato ad occuparti di queste tematiche? In quali progetti hai concretamente tradotto i punti teorici di queste discipline?

GC: Il mio avvicinamento al tema del Design for All e della progettazione inclusiva è maturato durante i 10 anni di collaborazione con Autogrill, azienda che opera nel settore dei servizi di ristorazione per chi viaggia, in cui ho avuto modo di rendermi conto e imparare che l’attenzione specifica ai bisogni e alle esigenze di individui appartenenti a categorie particolari modifica inevitabilmente il progetto, portando però una miglioria al complesso. Nel caso specifico del progetto dell’Autogrill Villoresi Est – collocato sull’autostrada Milano-Varese – mi sono trovato a dover operare in un contesto in cui l’architettura in quanto oggetto andava in secondo piano, basando principalmente le mie scelte sul fatto che si trattava sostanzialmente di un luogo di relazioni, dove la gente vive lo spazio per un tempo limitato ma caratterizzato da esperienze e bisogni tra loro molto diversificati: c’è chi viaggia per lavoro come un camionista, chi si sposta con dei bambini o degli animali, oppure chi arriva in motocicletta; si tratta di persone che hanno esigenze tanto diverse quanto le ha un disabile, un anziano o una persona che non parla la nostra lingua. Quindi questo progetto è stato un’esperienza sul campo, che mi ha permesso di definire e sviluppare una serie di attenzioni e di servizi basati su una logica inclusiva, capace di soddisfare esigenze differenti e particolari. Ad esempio il modo in cui è stato pensato che una persona disabile potesse fare la coda o portare un vassoio durante una fase di free flow ha modificato il modo in cui tutti fanno lo scontrino o acquistano un prodotto. Analogamente nel market si è pensato di inserire dei contenitori delle merci molto bassi per permettere sia ad un bambino che ad un disabile di prendere i prodotti a qualsiasi altezza e ciò ha cambiato interamente il paesaggio del market e l’ha reso per tutti più godibile. Dunque l’aspetto più interessante del Design for All è come le esigenze specifiche di alcune persone che sembrano delle minoranze – e magari quantitativamente lo sono – in verità rendono un edificio migliore per tutti, evitando le ghettizzazioni. L’attenzione dedicata alla protezione di categorie fragili, soprattutto il questo periodo in cui il virus Covid-19 ha colpito la popolazione in maniera indistinta, sono convinto ci permetterà di crescere, sviluppare e implementare questi micro-aspetti progettuali.
Il Design for the Common Good rappresenta un passaggio in più in cui l’attenzione è posta a favore del “Terzo settore”, legato a scopi sociali, mirando a progettare luoghi di grande qualità di relazioni ma anche di spazi dentro cui le relazioni avvengono; è importante trasmettere questo messaggio alle aziende, a chi si occupa del Corporate Social Responsability, perché l’attenzione verso terzi e la capacità di aiutare chi ne ha bisogno devono diventare pratiche diffuse nel quotidiano ed equamente distribuite nella società. Personalmente ho maturato questi aspetti nelle numerose collaborazioni con Dynamo Camp, realtà americana fondata da Paul Newman di diffusione mondiale che si occupa di far vivere a bambini con malattie terminali o con situazioni di vita molto difficili una settimana adrenalinica; l’Italia rappresenta un’eccellenza con la sede situata nel Parco dell’Abetone. In questo contesto ho avuto modo di constatare come il settore del volontariato fosse anche portatore di qualità estetiche, ambientali e architettoniche, consentendomi di guardare al progetto come ad un’attività molto orizzontale, al fine di creare delle strade – non dei sentieri elitari – percorribili ed accessibili a tutti, in cui la qualità arriva a toccare tante persone in maniera democratica e comunitaria; non mi è mai interessato il design come un esercizio solipsistico o puramente estetico, perché non credo che sarà la bellezza a salvare il mondo, ma l’etica dei valori, in quanto la bellezza da sola non può essere un valore fondante.

AF: Come pensi che l’architettura e il design possano aiutare a superare questa crisi mondiale? Come possono agevolare l’avvento di nuove modalità per vivere il tempo e lo spazio che in questo periodo hanno subito da una parte una forte dilatazione e dall’altra una pesante restrizione?

GC: Penso che l’architettura e il design debbano fare una profonda riflessione sul proprio statuto esistenziale e sugli obiettivi veri della disciplina e della professionalità del progettista, perché in questi anni ci si è occupati molto del superfluo e dei fattori puramente estetici a discapito dei contenuti, dei valori concreti delle cose e della loro autenticità. Una catastrofe come quella del virus Covid-19 mi auguro serva a far tornare autocoscienza, responsabilità e attenzione verso la qualità, togliendo la spettacolarizzazione che rende i progetti troppo autoreferenziali, narcisistici e autotelici, riportandoli invece al servizio della comunità, all’insegna di un vero e proprio richiamo alla deontologia e alla serietà dei progettisti, che dovranno dar prova di saper lavorare forse con meno ma “mettendo” di più.
Durante questi anni ho curato per Material ConneXion Italia alcune rassegne sulla Smart City, ovvero sull’impatto delle tecnologie e dei nuovi materiali nelle nostre città; sono certo che quello che sta accadendo in questo periodo modificherà in maniera drastica il futuro delle megalopoli, perché la densità e la promiscuità diventeranno un problema sempre più grande. Design e tecnologie dovranno operare per rassicurare le persone e stabilire dei nuovi comportamenti, diversi da quelli che abbiamo vissuto in precedenza, che non possono essere surrogati, ma dovranno creare nuove dimensioni antropologiche. Si dovrà lavorare sull’ibridazione tra digitale e analogico, tempo reale e differito, al fine di trovare delle dimensioni che permettano di incontrare gli altri pur mantenendo delle distanze; cambieranno tutti i servizi Pay to Rent e Sharing, ci saranno nuove regole dettate dalla necessità di incrementare l’igiene, focalizzando la ricerca sull’implementazione di materiali e processi legati alla sanificazione delle superfici.

AF: L’architettura e il design sono strumenti messi a disposizione della collettività affinché, attraverso il loro utilizzo, si possa procedere in direzione di un miglioramento della propria esistenza tramite la percezione e la consapevolezza. Pensi che il progetto possa educare l’anima e il comportamento delle persone?

GC: Certamente! Assolutamente sì. Dal mio punto di vista i progetti sono validi se maieutici, cioè se capaci di trasmettere alle persone valori e se sono in grado di suggerire in maniera partecipativa, aperta e positiva nuovi comportamenti. Uno dei miei maestri è stato Achille Castiglioni, il quale sosteneva che qualsiasi operazione progettuale non era relativa all’oggetto in sé ma al comportamento che questo avrebbe suggerito a terzi. Quindi è fondamentale pensare in una maniera human based, ponendo l’uomo al centro e cercando di dare alle persone non solo la sicurezza, ma soprattutto la consapevolezza attraverso la percezione sensoriale, estetica e funzionale. La mia attività di docenza al Politecnico di Milano mi ha permesso di compiere molta ricerca in questa direzione: anni fa infatti avevo diretto un laboratorio titolato Awarness Design, per aiutare concretamente le persone ad essere più consapevoli sui prodotti che ci circondano. Inoltre, quando devo citare un esempio che esalti l’aspetto legato alla consapevolezza mi viene sempre in mente l’attività che svolge Slow Food – associazione fondata da Carlo Petrini – che, attraverso il concetto di filiera, tracciabilità e biodiversità, ha contribuito ad innescare consapevolezza relativa al cibo, facendo capire cosa si sta mangiando e perché selezionando quel cibo si fa una scelta di natura etica ed esistenziale, non solo sensoriale. Insieme a Giacomo Mojoli, che è stato il Vice-presidente di Slow Food, abbiamo fondato il movimento Slow Design, non perché si andasse più piano ma per sondare la profondità, perché la slowness è comprensione, coscienza critica, rispetto a ciò che ci sta intorno e, a mio parere, per i progettisti è la mission più importante del loro lavoro: non creare stupore o presumere di creare bellezza – che comunque è un fattore molto soggettivo – ma aiutare le persone a capire la complessità del mondo e quindi, forse, capire di più anche sé stesse.

AF: Puoi parlarmi dei tuoi progetti futuri? Quali occasioni lavorative pensi nasceranno per le figure di architetti e designer nel contesto di emergenza legato al virus Covid-19?

GC: In questo momento, anche in seguito lavoro svolto sulla comunicazione del Cenacolo Vinciano, con il MiBACT ci stiamo confrontando su come il virus Covid-19 abbia modificato i concetti di scurezza e prossemica nelle strutture museali, tenendo presente che non si tratta solo di una questione batteriologica ma anche di fattori inquinanti legati alle polveri sottili; stiamo quindi cercando di creare un progetto che permetta di fruire diversamente le opere d’arte e che aumenti la sicurezza – sia per gli oggetti che per le persone – e aiuti l’economia gestionale dei musei.
Un altro progetto su cui sto lavorando è il nuovo museo dell’ADI – Associazione Design Italiano – di cui sono responsabile per gli aspetti legati al Design for All e alla progettazione inclusiva. Sarà il più grande museo di design in Europa e avrà la funzione di avvicinare la gente alla quotidianità, perché gli oggetti di design sono pensati e progettati per un uso quotidiano, con l’accortezza però – per tornare alla consapevolezza – di farne capire la natura, l’origine, le motivazioni, quanto i limiti produttivi o gli aspetti di sostenibilità. L’idea è di dare corpo ad un museo dialogante che sia in grado di raccontare a tutti 60 anni di storia attraverso il Premio del Compasso d’Oro, rivolgendo particolare attenzione ai giovani, abituati ormai ad un consumo molto veloce degli oggetti, per farli invece ragionare sul valore estetico, simbolico, funzionale, ambientale e sensoriale: un vero e proprio esercizio di acquisizione e comprensione della complessità che ci circonda, ma in maniera dolce e positiva.

AF: La sera del 21 aprile 2020 la Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha reso noti i nomi del comitato straordinario di esperti incaricati dal Ministero per lavorare sugli aspetti legati al “post-covid” per quanto riguarda la scuola. Facendo parte di questi membri puoi raccontarmi la tua visione di “scuola ideale” tenendo conto del contesto di emergenza che stiamo affrontando?

GC: Professionalmente sono cresciuto dentro la dimensione della “scuola” perché l’esperienza per me più significativa sono stati gli otto anni trascorsi in Domus Academy, considerata negli anni ’90 la Scuola di Design più importante al mondo dopo il Bauhaus. Qui ho imparato ad avere un approccio aperto in quanto ho sempre inteso l’attività progettuale come esperienza formativa. Secondo me la “scuola ideale” è quindi una scuola dove si possa esplorare e ricercare, incuriosirsi verso il nuovo: esempio emblematico sono le scuole di Reggio Children con le quali ho instaurato un rapporto di interscambio da più di vent’anni. Infatti nel 1997 il mio ultimo lavoro in Domus Academy è stato il metaprogetto di ambiente per l’infanzia “Bambini, spazi, relazioni” concretizzatosi poi anche in un libro – ad oggi tradotto in molte lingue diverse – diventato un manuale di riferimento. Con Reggio Children abbiamo sempre avuto la comune condivisione dell’idea di scuola come un luogo estremamente aperto, non autoreferenziale e legato ad una definizione preconcetta di sapere, ma uno spazio dove i soggetti hanno la possibilità di dotarsi di strumenti per imparare a gestire autonomamente conoscenza e cultura.
Infatti ritengo che il designer sia una figura in perenne apprendimento e formazione, concetto che cerco di passare ai miei studenti del Politecnico di Milano, comunicando loro la voglia di imparare e di crescere culturalmente durante tutte le fasi della vita. La scuola dovrebbe essere non tanto un luogo definito da un perimetro di mura, bensì un’attitudine da trasmettere a tutti gli individui nel momento in cui frequentano fisicamente un edificio, trasformando un atto individuale in qualcosa di cui ci si deve impossessare, in una necessità personale che nasce nella collettività e diventa una condizione di vita.
Ho insegnato in molte Facoltà di Architettura diverse tra loro – da Torino a Milano, da Roma a Genova – e ho tenuto Master, Corsi e Laboratori in una ventina di paesi diversi del mondo – dalla Cina al Sud America, e tanti altri luoghi fuori dall’Italia – cercando di portare sempre l’idea che la scuola sia una forma di curiosità personale: saper osservare il mondo estraendone le differenze, sviluppando capacità critiche e di analisi della complessità.
La scuola è un luogo tanto importante quanto diverso perché significa considerare categorie differenti: i nidi, le scuole dell’infanzia, le elementari, le medie, il liceo, l’università, le attività di formazione professionale; ciascuna di esse richiede spazi diversi con caratteristiche differenti a seconda della fascia d’età. Uno degli ultimi incarichi su cui ho lavorato è la Flos Light Academy: attività formativa interna mirata a far prendere coscienza della storia dell’azienda ed a ragionare sulle caratteristiche emergenti della luce. Quindi ci sono tante idee di scuola e diversi contesti in cui essa si articola, importante è che mantenga dinamicità e sia vissuta attivamente, mai come un’attività passiva di pura acquisizione.

Immagine in evidenza: Manifesto della rassegna sulla Smart City edizioni 2018-2019 curate da Giulio Ceppi per Material ConneXion Italia