«La conoscenza di viaggio […] sviluppa spesso un’intimità e una apertura[…] a cui sembrano contribuire tre motivi: il distacco dall’ambiente abituale, la comunanza delle impressioni e degli eventi momentanei, la consapevolezza del prossimo e definitivo separarsi. La conoscenza del viaggio induce spesso, in base al sentimento che essa non obbliga nulla, e che di fronte a un uomo da cui ci si separerà per sempre dopo poche ore si è propriamente anonimi, a confidenze strane, a una cedevolezza senza ritegno verso l’impulso a manifestarci, che nelle consuete relazioni a lungo termine soltanto l’esperienza delle conseguenze ci ha insegnato ad arginare» (D. Frisby, Frammenti di modernità, Il Mulino, Bologna 1992, p.104)
Shlomo era arrivato da poco nella stazione centrale di Ancona. Erano le sei di mattina, la gelida raffica invernale sbuffava forte e, talora, oltrepassava l’intera hall di Ancona-Scalo, lasciando a tutti un brivido sul collo e sulla schiena. Era ancora buio, l’alba cominciava appena a comparire, quando Shlomo sentì l’annuncio all’altoparlante: il treno numero quarantadue-quaranta per Roma in arrivo sul binario 15. Shlomo si alzò e uscì dalla sala d’attesa per raggiungere il suo treno. Camminò lungo il binario fino alla quinta carrozza, laddove c’era il suo posto. Portava un vestito sbrindellato, con un trench impermeabile e un foulard che copriva il collo dalla camicia sbottonata. Teneva in mano una borsa con il suo computer portatile ed un trolley nero e verde – brendato – in cui c’erano i suoi vestiti per la settimana. Salì le scalette del vagone e andò avanti, con passo deciso fino al suo posto. Non guardò neanche il pre-stampato on line del biglietto per sapere quale fosse il posto, si sedette senza dubitare e pose il suo computer sul tavolo davanti a lui. Da qualche mese prendeva questo treno. Era provvisto di un abbonamento annuale ed aveva il posto riservato sia per l’inizio che per il fine settimana lavorativa. Sapendo che doveva percorrere diversi giri su quel treno, aveva preferito il suo posto con interesse, richiedendolo con il tavolo grande e con alcuni sedili per poter lavorare mentre viaggiava. Come tutti i lunedì, era predisposto e apparecchiato per dare inizio a una nuova settimana di lavoro: aveva, infatti, firmato un contratto di un anno come consigliere informatico. Era un esperto nel campo di installazione dei computer, server e rete, ed una grande azienda di Roma gli aveva proposto di supervisionare all’installazione del nuovo sito di illimitati post informatici sul coronavirus. Quindi prendeva il treno ogni lunedì ad Ancona, verso le sei, e andava a Roma per fare il suo lavoro da concreto medialista. L’azienda gli aveva affittato una stanza con bagno e cucina nel quartiere Prati, che Shlomo usava come foresteria. Vi si tratteneva fino al venerdì, quindi ritornava a casa per il weekend verso le dieci di sera.
Shlomo, appena seduto, pensava al suo lavoro, agli impegni della giornata, ai rimandi sulla tabella di marcia. Guardava scorrere sullo schermo il bilancio e le azioni da fare, i contatti da chiamare e la riunione con il responsabile dell’azienda. Tutti questi compiti gli balenavano in testa alla velocità della luce. Mentre pensava al da farsi, guardò l’orologio sul suo schermo, erano le sei e quindici, e pensò che era un po’ troppo presto per preoccuparsi della sua giornata. Chiuse lo schermo del portatile e chinò la testa indietro, sul poggiatesta. Chiuse gli occhi e cominciò a pensare. Si chiedeva chi, questa volta, si sarebbe seduto di fronte a lui. Gli piaceva questo gioco: chiudendo gli occhi fino al momento in cui sentiva il rumore di una persona che si sedeva, cercava nella sua mente di immaginarla e, secondo il tipo di rumore, poteva dedurre se si trattasse di un maschio o di un gentil sesso, alto o basso, adolescente o attempato. Alla fine, quando si era creato il personaggio nella sua mente, apriva gli occhi per vedere il contrasto tra sogno e realtà e l’immaginazione letteraria del ritratto si allenava, così come si allenava quel flash fotografico che conservava in memoria. I pensieri lo sfidavano e le citazioni dei suoi studi lo inseguivano come un segugio irato dalla sua preda! Da una parte si ricordava della fonte ispiratrice di Verlaine, per memorizzare una frase di Victor Hugo che diceva: Un uomo si giudicherebbe con ben maggiore sicurezza da quel che sogna che da quel che pesca (I Miserabili); dall’altra pensava al valore di un pensiero medico, come quello del celebre saggista austriaco S. Freud che gli rammentava che il sogno e il tentato appagamento di un desiderio.
Porca troia: nella sua stretta e perseguitata coscienza si facevano avanti gli spettri della cultura del brutto della Francia tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento e quelli della tensione psicoanalitica tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del ‘900, trasportati da un’agitazione e da un ilare nervosismo mai realizzato. Le parole che egli aveva letto ed aveva mandato a memoria per sconfiggere i demoni del tormento erano lì a deposito, come delle insicurezze formative, come un’astanteria di schegge perforate e occluse nella parte più remota della scatola cranica, della sensibilità ipofisea e della bildung.
Spaventare i vecchi impiegati informatici dello Stato. Potrebbe sembrare uno sport crudele, una gioia sadica, ma lui aveva delle attenuanti, poiché era il tipo di ingegnere informatico che quasi tutti i vecchi impiegati statali detestavano a prima vista; anzi, alcuni di essi lo detestavano, immaginiamo, anche senza vederlo. Al lavoro, dunque, prima di tutto, Shlomo sceglieva l’uomo, preferibilmente uno che, se non commetterà un errore, sarà presto promosso o riceverà un’onorificenza; poi gli esporranno, con abbondanza di retorica e qualche gesto enfatico, un complicatissimo e folle progetto che non riguardi soltanto il suo ufficio, ma implichi contatti con un’altra mezza dozzina di uffici. Accennava a qualche personaggio molto influente, già entusiasta del progetto, ma non faceva nomi. Annientava, continuamente, come ridicole le sue obiezioni o qualsiasi altra osservazione. Si dilungava su uno dei dettagli più futili. Poi, quando qualcuno protestava con maggiore vigore, improvvisamente cambiava tattica. Eliminava tutti i sorrisi, i gesti enfatici, i toni caldi ed entusiastici, e diventava l’ingegnere freddo ed ostile; da qualcuno, si faceva fissare negli occhi fino a quando egli abbassava lo sguardo, e quando ricominciava a parlare faceva attenzione a chiamare per nome e, possibilmente, aggiungeva il grado:
«Cantare mentre Roma era assalita dal Coronavirus. Quella mattina avevo finito di leggere le notizie da Internazionale e dall’Haffington Post di Stoleth che erano state appena pubblicate e di cui l’editore, online, mi aveva mandato una newsletter. L’argomento (che a causa dell’aumento della popolazione e della diminuzione delle risorse della terra, ci precipitiamo verso la catastrofe pandemica) non era nuovo; ma Stoleth, in una travolgente frenesia, ci trasportava di continente in continente, gridando le sue notizie di erosione del suolo, di diminuzione delle risorse d’acqua, di aumento del contagio, di trasformazione dei ghiacciai, di popolazioni affamate che si moltiplicano, fino a che non vedete altro nel futuro che guerre, epidemie, conflitti geo-politici, carestie, morte, acutizzazione del liberismo, invasione del pianeta plastica. Allora, dopo aver scritto alla redazione per sostenere queste disperate inchieste, quel allarmismo e catastrofismo da Club di Roma, necessario, mi continuai a dedicare al sito del Ministero: entrai dentro ad alcune pagine di colleghi per capire come si muoveva Assange; scoprii, in una banca dati, alcuni vecchie informazioni della Città del Vaticano, poi tornai a rimetterli in una cartella di Google Suite. Ebbi trenta minuti di vera gioia, assaporando jazz del periodo migliore.
La nostra specie insensata era votata alla fame e alla rovina pandemica. Il futuro non era mai apparso più nero, ed io lo sapevo, lo sapevo bene. Ma ero là che viaggiavo: la mente cullata dalle note, solido, ormai istituzionale, sui cinquant’anni, e per circa mezz’ora non mi curai di nulla. Lontano. Bisogna andare lontano. C’è qualcuno in noi che viene da lontano e si comporta come un compagno di viaggio che impone la sua presenza, i suoi pensieri, le sue necessità. La carrozza correva dritto.

Il sole illuminava il lungomare.
I passanti impauriti dal coronavirus divoravano il vialone sterrato, diritto, e si ponevano ad un passo armonico, sincrono. L’abitacolo scorreva sulle ruote, anzi sulle rotaie, liscio come l’olio. Il mio compagno di viaggio, stanco di una movimenta sosta all’ultima stazione marittima delle Marche, riposava avvolto nel suo mantello. Dormiva, non dava segni della sua presenza. I lineamenti del viso erano decisi.
L’avevo osservato mentre riposava: il sonno, invece di rasserenarne il volto, sembrava stendere sul suo profilo una tensione incontrollabile, sempre pronta ad esplodere. Alcuni sassi, sui binari segnavano l’inizio dei disagi del sisma imprimendo scossoni alla carrozza. Guardando fuori dal finestrino, si vedeva la gente che correndo rompeva il passo. Ogni variazione brusca di curve e di scambi di binari imprimeva alla carrozza un’impennata. Sui primi paeselli dell’area umbra, una nube nera si poggiava livida di pioggia. I continui sobbalzi scuotevano il torpore del mio compagno di viaggio. Il conducente faticava a tenere sulle rotaie la linea e il percorso ».
Oscar Wilde aveva scritto che la società esiste solo come un concetto mentale, ovvero nel mondo reale ci sono solo gli individui e quindi Shlomo continuava a chiedersi chi sono gli individui, sono veramente individui o dividui? E cos’è la realtà? Forse poteva aver ragione Albert Einstein che sosteneva che la “realtà è solo un’illusione” o ancora un’allusione?
« … Pensare a libri di epistemologia seduto nella poltrona del treno. Trovo ciò delizioso in viaggio, e anche più delizioso quando sono lontano e mi sento sperduto. Il lavoro della giornata è cominciato con la partenza da Ancona e mi sento già sperduto. Il lavoro della giornata è appena cominciato; sono comodamente nel vagone centrale del treno, nel mio cantuccio illuminato, e mi accingo a dare alla mente lo stesso piacere di cui gode il fisico! Ma perché libri di epistemologia? Perché non della buona letteratura? Perché, con poche eccezioni – e ve ne sono pochissime – la buona letteratura, che impegna ed eccita la mente, non è adatta a questi viaggi. Secondo me questa bisognerebbe leggerla lontano dalla carrozza del treno e del tran tran. Ma perché non roba solenne e noiosa, memorie straordinarie, vecchi libri di teologia, sonniferi legati in pelle di trattatistica musicale e di teoria quantica? Perché – e questo vale solo per me – se il libro da leggere in treno è troppo noioso io comincio a pensare al mio lavoro e passano ore prima che riesca ad addormentarmi sopra i dati del pc. No, il libro di epistemologia è quel che ci vuole e le sue particolari virtù non sono state ancora abbastanza apprezzate. Quanto di peggio abbia udito asserire dall’associazione dei minimalisti americani fu a proposito di una inchiesta sulla popolarità delle ricerche che si denominavano Dalla Naftalina alla Luna. Quella dottissima gente parlava di violenza della tecnica e di delitto delle macchine intelligenti, allontanandosi di molto dalla questione (Ma d’altronde chi legge libri di epistemologia di mattina, non si preoccupa di appartenere al Sindacato degli Scrittori Divulgativi di Filosofia della Scienza). Noi entusiasti non siamo affascinati dall’elemento delitto e violenza di questi racconti a sfondo tecnologico. Spesso, come nel caso mio, deploriamo l’atmosfera macabra e vorremmo che gli scrittori di fatti scientifici fossero meno fantascientifici e non ci offrissero sempre assassinii della tecnica. (Si potrebbe scrivere un superbo romanzo di SF – e ho una mezza idea di scriverlo io – intorno a macchine e uomini che non siano coinvolti in nessuna forma di delitto, intorno alla scomparsa di qualche matrice scissa o ad una doppia vita, tra la rete sociale e la rete artificiale, per esempio). Bisogna ricordare che gran parte dei romanzi seri di oggi non sono romanzi e non appagano più il cervello del romanzo e neanche il gusto per la narrativa scientifica. Il romanziere può essere un critico sociale, un filosofo, un epistemologo, un poeta o un pazzo totale, ma non è più soprattutto un narratore Eppure vi sono momenti in cui non sentiamo alcun bisogno di critica sociale, di poesia in prosa, di introspezione psicologica o di una visione del mondo: vogliamo soltanto un racconto costruito a regola d’arte. Ma non qualsiasi genere di racconto, non storie romantiche e simili. Ciò che vogliamo – per meglio dire ciò che io voglio, durante il viaggio in treno, voi potete fare come vi piace – è un racconto epistemologico, un racconto che a modo suo rispecchi le basi fondamentali della vita biologica, ma contenga pure un appassionante elemento enigmistico. E il romanzo scientifico mi offre tutto ciò. Senza dubbio esso è molto convenzionale e stilizzato – pensate a tutte quelle riunioni finali nella Biblioteca, a quei piccoli pranzi al porto di Ancona (dove si spendono sei euro di vino) pagati con uno stipendio di usciere della Biblioteca Comunale – ma i suoi limiti sono parte del suo fascino. Esso oppone alla grande e triste confusione del mondo reale il suo problema coordinato e la sua chiara soluzione. Come cittadini pensanti noi siamo circondati da problemi giganteschi, che appaiono insolubili quanto minacciosi di carenza biologica; come è piacevole quindi staccarsene per qualche ora per occuparsi solo del problema del cadavere della scienza che si rinchiuse nell’Organon di Francesco Bacone e poi usò l’epistemologia, ignorando le pressioni timiche. (Noi sappiamo ora che Madame la Scienza non può essere morta più tardi della comparsa dell’Ape e dell’Architetto, eppure sappiamo anche che l’Organon apparentemente insidiò Spinoza, non è vero Shlomo? Tutto ciò è facile e ragionevole a paragone del problema di conservare una mente sana e timica, nel mezzo del ventunesimo secolo. Dopo aver letto i titoli delle informazioni web è riposante entrare in questo microcosmo ben ordinato, come trovarsi d’un tratto in un giardino dopo aver vagato per giorni nella giungla della Stazione Termini di Roma. Mi piace avvicinarmi al sonno del sogno attraverso queste ordinate semplificazioni, molte della quali profondamente morali e scientifiche, quanto lo stesso Irme Lakatos con la sua bavetta ai lati della bocca. È vero che mi può capitare di rimanere sveglio troppo a lungo per capire come il morto sir Paul Feyerabend riuscì a telefonare, ma una volta risolto un problema matematico, sento che dormirò tanto più profondamente per queste poche ore di veglia, fino a Roma. E quale gioia staccarsi dal caos di una lunga mattinata di viaggio, per immergersi nell’informatica, distendere le gambe su i due sediolini, mentre hanno cominciato a dolere un po’, girarsi sul fianco destro, e ritrovare ancora una volta l’eccentrico incontro occasionale che suona rabbiosamente il violino o cura il suo zaino militare, o scoprire di nuovo l’arcigno poeta dello scompartimento di fronte che medita sulla sua sedia a rotelle, e sapere che un enigma ancora più sorprendente ci attende!»