Il legame tra Camilla Alberti e Sofia Baldi Pighi con la Corea del Sud prende avvio dal Padiglione Italia 2023 della Biennale di Gwangju curato da Valentina Buzzi, dove aveva visto la partecipazione dell’artista Camilla Alberti con Sofia Baldi Bighi ed Elisa Carollo nel team curatoriale.
A distanza di un anno, Camilla Alberti torna in mostra, con la cura di Sofia Baldi Pighi, in un progetto che unisce l’aspetto didattico-pedagogico alla personale dell’artista nel MOKA – Hyundai Museum of Kids’ Books & Art di Seoul, dal 2 al 29 settembre 2024.
Circa 40 bambini, tra i 6 e gli 11 anni, hanno partecipato ai laboratori con l’artista e la curatrice dando vita ad una nuova narrazione tra arte, storia, letteratura, con l’obiettivo di realizzare una mostra collettiva dei lavori dei bambini in dialogo con le opere di Camilla Alberti.
Le ho intervistate nel viaggio di una pratica artistica che ha tanti punti di contatto con la scoperta, lo stupore, il gioco, la magia, talvolta la paura, tipici dei bambini. Ho approfondito con loro il potere persuasivo dei mostri come chiave di lettura del presente.
Partiamo dal cuore della tua ricerca per meglio comprendere The Spell of Monsters.
C.A. La mia ricerca si basa sull’ interazione tra le specie intesa come collaborazione con ciò che è altro rispetto all’essere umano. Mi focalizzo sulle modalità con cui è possibile rendere tangibili tutti quei collegamenti che avvengono costantemente tra specie viventi. L’obiettivo è fornire all’essere umano degli strumenti immaginativi che gli permettano di avere maggiore consapevolezza di ciò che lo circonda e di riconoscere il legame indissolubile con ciò che definiamo con “altro”. L’alterità non è qualcosa che sta lontano, ma è qualcuno con cui viviamo vicino e spesso che ci compenetra.
Ho iniziato la mia pratica principalmente con la scultura, ora lavoro con diversi media come scultura, installazione, ricamo industriale attraverso l’uso di macchine computerizzate e pittura. Spesso c’è anche un’ibridazione fra differenti media, ne sono un esempio le opere scultoree che dispongono di parti ricamate.
Sin dall’inizio della mia ricerca ho collaborato con organismi viventi. Le prime sculture che realizzavo erano delle strutture architettoniche costruite con materiali di risulta, ovvero oggetti ed elementi che trovavo nei cassoni di scarto di aziende. Principalmente si trattava di materiali lignei con cui creavo questi microambienti, molto minimali nella loro forma. Poi lasciavo anche per mesi queste strutture scultoree nel giardino che ho attorno allo studio e osservavo come le differenti specie (ragni, insetti, piante) colonizzavano gli spazi.
Cosa hai ottenuto da queste “colonizzazioni”?
C.A. Quando le sculture venivano colonizzate da altri organismi, la forma stessa dell’opera risultava modificata. In parte, la causa è da attribuire all’umidità che porta alle componenti lignee a gonfiarsi e inclinarsi. Ne sono un esempio tutte le opere prodotte in collaborazione con muschi o piante, dove oltre all’umidità, ciò che è stato interessante per me osservare è stata la manipolazione che gli organismi coinvolti effettuavano sulla struttura. Per i vegetali, questo, voleva dire come essi modificavano i loro stessi corpi in relazione allo spazio che li circondava.
Grazie a queste “osservazioni” il mio lavoro ha lasciato le forme architettoniche per trasformarle in figure sempre più organiche, fino ad arrivare alle sculture a cui lavoro oggi dove la forma è del tutto decentralizzata e ibrida. Non c’è più un centro, non c’è più un fronte o un retro, le sculture sono organismi che non possono più essere riconosciuti.
I materiali di risulta e gli oggetti di scarto sono diventati parte integrante e fondamentale del mio lavoro. Sono, infatti, elementi in grado di rappresentare perfettamente le dinamiche dell’interrelazione tra le specie. L’oggetto abbandonato diventa un frammento di rovina ovvero un elemento che verrà manipolato e modificato da tutte quelle specie che lo abiteranno dopo il suo abbandono. L’oggetto, quindi, diventa una mappa di traccia interspecie.
Un esempio pratico?
C.A. Come anticipato prima in riferimento a questi elementi parlo di “rovine”. Se pensi al concetto di rovina proprio come spazio, sono quei luoghi che l’essere umano ha abbandonato. Hanno perso quindi qualcuno che delimiti e costruisca il confine tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori pulendo il perimetro, per esempio. Questo padrone mancante permette agli spazi di trasformarsi in rovine ed essere pian piano divorate, assorbite dall’ecosistema che le circonda divenendone parte. Immagina come avviene questo processo, le piante rompono le finestre ed entrano all’interno della casa. Nel momento in cui l’interno della casa si apre all’esterno diventa un luogo accessibile anche per gli uccelli e altri piccoli animali, questi chiamano predatori più grandi e, passo dopo passo, si innesca un sistema complesso di co-abitazione in quell’ambiente. Per questo le rovine sono dei simboli di interrelazione tra le specie. Questa è una visione del tutto lontana dal nostro immaginario romantico in cui le rovine sono intrise di solitudine, mentre qui diventano i luoghi che più sfuggono a quest’ultima.
A seguito di queste riflessioni ho continuato la raccolta delle rovine: oggetti abbandonati, materiali di scarto, elementi antropici e non, per poi inserirle direttamente nelle opere. Anzi, la forma scultorea nasce dalla forma di questi materiali sulla cui superficie sono riconoscibili le tracce di tutti gli organismi che li hanno vissuti e attraversati.
Ed è qui che arrivano i mostri…
C.A. Lavorare con materiali manipolati da altri organismi costruendo forme a partire da quelle create dall’alterità mi ha portata a immergermi sempre di più nell’essenza e nel significato di ibridazione. Ho iniziato così a immaginare e a lavorare sull’estetica di organismi che abitassero le rovine e fossero essi stessi una rovina. I mostri sono nati in questo contesto ibrido di cui potremmo dire che sono la traduzione simbolica. La figura del mostro nella nostra cultura, così come in moltissime altre, racchiude e relega tutte le paure dall’inizio dei tempi dell’essere umano rispetto a ciò che non è riconoscibile, controllabile e classificabile. Lavorando a The Spell of Monsters in Corea è stato palese come il mostro abbia aperto un terreno comune in cui tutti sapevamo di cosa stessimo parlando.
Se analizziamo la figura del mostro è sempre quella creatura ibrida, quella spinta ai margini della storia perché strana, pericolosa, storpia, incontrollabile. Antagonista degli stereotipi umani che rassicurano sempre i lettori, l’eroe e la principessa. Il mostro non è mai identificabile, non è un animale ma sempre un insieme di più organismi e ancor peggio Il suo comportamento non è categorizzabile. È cattivo perché persegue i propri interessi, i propri obiettivi e per questo si rende una minaccia.
Eppure nella tua pratica e in questi workshop con i bambini il mostro diventa un simbolo positivo. Come mai?
C.A. Siamo nel momento in cui la complessità del mondo si sta palesando davanti ai nostri occhi e pare che, a tratti, non abbiamo gli strumenti per poterla gestire, neanche comprendere, ma soprattutto accettare. Nel mio lavoro, i mostri diventano quelle creature che, essendo esse stesse entità complesse, sono in grado di fornire la chiave per poter comprendere al meglio quei percorsi non lineari, ibridi e nebbiosi che dobbiamo percorrere.
Come avete comunicato tutto questo impianto teorico ai bambini?
C.A. Grazie alla ricerca curatoriale di Sofia Baldi Pighi abbiamo rintracciato il mostruoso nelle fiabe coreane e scoperto queste creature magiche chiamate Dokkaebi. Questi sono creature mostruose che prendono vita dagli oggetti comuni e costellano la mitologia coreana. Tutti i bambini hanno riconosciuto mostri e Dokkaebi e tutti hanno subito avuto come prima reazione “Perchè loro? Fanno paura!”. Il primo ostacolo è stata la paura e l’avversione. Per superarlo, abbiamo raccontato loro della morfologia ibrida del mostro e dell’importanza che quest’ultima ha nei giorni nostri. Ovviamente anche parlare di ibridazione a dei bambini non era cosa facile quindi mi sono affidata alla scienza portando un esempio che esprime alla perfezione questo concetto e crea un cortocircuito nella descrizione dei nostri corpi come individui. L’olobionte è diventato un filtro attraverso cui guardare la propria pelle, perché le creature olobiontiche sono quegli organismi composti da altri organismi, quindi all’interno di uno stesso corpo coesistono differenti DNA. Ovvero degli ibridi e il corpo umano è un esempio di creatura olobiontica. Questo porta ad un’altra riconsiderazione relativa al concetto di individualità del corpo come entità singola. I corpi, e nello specifico il nostro corpo, sono il risultato di interrelazioni tra specie differenti, un ecosistema. Insieme ai bambini abbiamo ridisegnato i “confini” del corpo umano nel tentativo di far capire loro che ci sono organismi che vivono al di sopra della nostra pelle, dentro i nostri corpi e che ognuno di loro è necessario per la nostra sopravvivenza. A quel punto, i bambini indagavano la loro pelle guardandosi l’uno con l’altro piuttosto esterrefatti, ma questo ritracciamento li ha aiutati ad avvicinarsi alle entità mostruose, ibride e complesse, che prima percepivano come distanti e pericolose.
In cosa consisteva il workshop e come è stato sviluppato?
C.A. L’intero workshop è stato pensato come una sorta di laboratorio alchemico dove evocare mostri attraverso la manipolazione della materia. Il processo artistico che solitamente conduco in studio era diventato uno spazio comune in cui i bambini venivano chiamati a costruire e sperimentare.
All’interno del laboratorio presso lo Hyundai Moka Museum avevamo allestito tre tavoli che nella nostra narrazione erano: le Isole. In ognuna delle Isole erano presentati differenti materiali tra cui i bambini avrebbero dovuto scegliere per creare il loro Dokkaebi.
La prima Isola, ospitava il materiale di base: bende gessate, argilla e cellulosa. Quest’ultima deriva dalla macerazione e polverizzazione di vecchi documenti di carta che solitamente svolgo nel mio studio a Milano. Ogni bambino avrebbe scelto un solo materiale con cui costruire la base del mostro, poiché per ognuno di essi ci sono specifici modi di lavorazione. Quando un bambino compiva la sua scelta gli veniva dato l’incantesimo (ovvero il processo di lavorazione) che lo avrebbe condotto alla costruzione del mostro.
Il secondo tavolo era composto dai “connettori dei mostri con il mondo” ovvero tutti quegli oggetti in rovina che io e Sofia abbiamo raccolto nella città di Seoul. Elementi naturali e antropici, suddivisi in differenti contenitori per permettere ai bambini di scegliere con attenzione. Abbiamo chiesto loro di scegliere materiali diversi ibridando tra antropico e naturale per poi inserirli nei loro mostri per creare paesaggi e corpi che uscissero dal binarismo natura/cultura.
L’ultimo tavolo era quello delle “polveri magiche” incarnate da tre pigmenti naturali che creo nel mio studio di Milano: polvere nera che proviene dal carbone, polvere rossa che deriva dall’ossido di ferro e il verde estratto dalle foglie di gelso bianco. Anche qui, ogni bambino avrebbe dovuto scegliere un pigmento che avrebbe dato il colore al mostro, ma soprattutto vita.
Questo progetto ha visto due fasi ben distinte: l’attività laboratoriale e la dimensione espositiva. Come avete collegato i diversi momenti?
S.B.P. La mostra ha accolto le opere dell’artista circondate dagli elaborati dei bambini, tutto rigorosamente esposto a misura di piccolo essere umano!
L’idea dell’esposizione collettiva nasce come modalità di reazione ad un sistema educativo iper-competitivo, in questo modo l’attenzione non è mai sul singolo elaborato e l’occhio si sposta continuamente fra le opere di Alberti e i Dokkaebi dei bambini. L’esito finale della mostra è stato fondamentale anche per sganciare i bambini dal possesso individuale dell’elaborato e incaricare il museo della custodia dei loro mostri. Il giorno dell’inaugurazione i bambini sono tornati al museo a fianco alle persone che amano per raccontare la propria ricerca, speriamo in questo modo di innescare abitudini che restino fino all’età adulta!
Il workshop inizia dall’incontro con le opere di Alberti, sculture decentralizzate prive di un punto di vista privilegiato per l’osservazione. I bambini, muovendosi nello spazio, cambiando postura e punto di vista hanno scoperto tutti gli elementi nascosti all’interno dei corpi scultorei. Abbiamo immagini di bambini in posizioni incredibili, alcuni persino sottosopra! Il laboratorio lavora sull’educazione allo sguardo, un’educazione alla scultura in un modo differente che potesse essere utile non solo nel caso delle opere di Camilla, ma in generale come attitudine all’esperienza museale. The Spell of Monsters aiuta gli essere umani ad evocare i Dokkaebi, mostri con i superpoteri adatti a sconfiggere la crisi climatica. Ogni bambino non solo ha ideato un titolo, quindi un nome, per il proprio mostro, ma ha anche inventato una storia ed il super potere del proprio mostro nel cercare di far fronte alla crisi climatica. I partecipanti hanno presentato alla classe la storia del mostro per esercitare le proprie capacità di parlare in pubblico, reggere lo sguardo dell’audience, rispettare il racconto dei colleghi e usare la voce come strumento di incanto.
Parlando di fiabe e magie, c’è stato qualcosa di magico che si è creato durante il workshop?
S.B.P. La magia si è innescata quando i bambini hanno iniziato a comunicare con Camilla, e Camilla con loro, attraverso l’uso delle mani. Per qualche attimo la materia è stata una lingua universale e i 9.000 chilometri che dividono Italia e Corea sono collassati nella manipolazione tattile collettiva.
I bambini con un’alta esposizione alla tecnologia digitale sono sempre più lontani dal senso del tatto e dallo strumento che questo rappresenta (e ha sempre rappresentato) per scoprire il mondo.
I bambini, a poco a poco, hanno abbandonato la paura di sporcarsi e la reticenza verso i materiali e, grazie alla figura dell’artista (guida essenziale in tutto il processo), hanno iniziato a sperimentare e immergere le mani nei pigmenti. Mettere le mani in pasta è stata un’esperienza di meraviglia.
Camilla Alberti
The Spell of Monters
a cura di Sofia Baldi Pighi
Hyundai Museum of Kids’ Book and Art – Seoul
Fino al 29 settembre 2024