Roma, Museo MAXXI 02 03 2023 CLAUDIO ABATE superficie sensibile a cura di Ilaria Bernardi e Bartolomeo Pietromarchi in collaborazione con Archivio Claudio Abate. Foto Roberto Sala

«Superfici sensibilizzate?»

Il fare immagine è uno dei dati essenziali della nostra civiltà. Fotografi, artisti sociali, attori, performer, pubblicitari, comunicatori, per considerare i più influenti, sono i veri padrini anonimi e fondatori dell’incredibile rivoluzione mediale a cui noi assistiamo o qualche volta partecipiamo. Per meglio scegliere nella nostra vita quotidiana e per discernere dove va il mondo è necessario interrogare gli attori dello scatto fotografico e fare nostre le loro superfici sensibili. Allora vedremo più chiaro e saremo più coscienti delle nostre scelte e dei nostri atti inconsulti. Questo articolo vuole essere una guida per scarnificare la mitografia della «foto d’arte», poiché è legittimo credere che la fotografia non è fatta per una élite culturale, essa è aperta a tutti con delle «macchine senza codice» pronte a qualsiasi uso e a qualsiasi selfie. Ciascuno di noi, almeno una volta, ha sentito il bisogno di diventare fotografo per guardare il mondo al fine di trasformarlo in visione.

1. Fotografare per esporsi, esporsi per fotografare o per essere fotografato; oppure superficializzare per sensibilizzare, rendere reattivo al piano, immergersi nel lastricato di ciò che è piatto, incorniciato e senza codice. Forse il destino del fotografo è nella possibilità di questa tautologia, di questa specie di slogan, di questo secco processo osmotico, àncora di salvezza per una “superficie sensibile” perplessa.

Il fotografare è anche e più dell’essere: è staticità, proiezione, profezia; per esistere bisogna scattare, ma per dire bisogna esistere insieme all’essenza dello spazio. Si fotografa per essere fotografati, si esiste per essere vagamente in una foto, si è per esprimere, per dire di una immagine mancata. Ognuno è talmente convinto dell’esattezza di ciò che vede, da considerare sempre vero il reale del processo fotografico come il reale «quale quello che salta agli occhi». Eppure, i fotografi di tutte le età del moderno non hanno mai cessato di metterci in guardia nei confronti della verità di ciò che percepiamo. I nostri sensi, se trattati con strategie espressive, spesso ci traggono in inganno facendoci vedere cose inesistenti o, al contrario, dissimulando una realtà nascosta. Questi ripetuti avvertimenti da Henri Cartier-Bresson fino agli odierni fotografi cognitivisti, bastano a mostrare quanto ogni percezione non si limiti ad essere un meccanismo di natura psicologica (irrisolto), ma sia ugualmente una rappresentazione mentale, ossia il prodotto di meccanismi complessi del sistema artistico, del sistema espositivo. L’occhio umano è certamente un congegno organico che trasmette al cervello le sensazioni della vista: la percezione visiva a confronto con un’altra percezione autoriale è pur sempre una procedura di estrema complessità. All’interno di essa, la sensazione dell’opera e l’intellezione della comprensione sono da un lato strettamente interconnesse, ma dall’altro intrinsecamente scisse, dissociate. I nostri apparati fotografici non ci rendono mai immagine diretta dell’arte accaduta, ma – nel migliore dei casi – la mettono alla prova. Prima del riconoscimento, gli oggetti artistici che percepiamo sono essenzialmente delle ipotesi che suscitano e testano le nostre procedure semio-estetiche. Riesce in effetti difficile ammettere un atto di visione analoga a quella del fotografo, che ha mosso causa di una mostra di arte contemporanea: ogni percezione di un’immagine è in primo luogo discernimento e visione combinatoria. In qualsiasi tipo di processo espositivo – come quello di Claudio Abate e della sua Superficie Sensibile (?) – si riconosce difatti la necessità di selezionare le strutture propriamente iconiche (fotogenia, estetismo, emulazione) e quelle che istituiscono più precisamente l’effetto di senso, come scarto significativo o femico, e lo istituiscono con il favore di un primo codice (combinatorio del denotativo), i cui tratti hanno preliminarmente sovvertito certe relazioni figurali solo parzialmente analogiche.

Ciò che colpisce immediatamente, in questa antologica di Claudio Abate, è il suo bifrontismo operativo: due vicende nettamente distinguibili, quantunque indissolubilmente legate tra loro, si susseguono e si accavallano mettendo in luce, come lo stesso “scatto assente”, lo stesso istante decisivo, sottolinea nel corso della mostra, l’ambiguità tra l’artigiano e la tendenza all’emancipazione artistico-concettuale. Ad una riflessione più attenta, tuttavia, specie a lettura compiuta, ci si accorge che la costruzione sul bordo, assieme al tema dell’ambiguità del documentale, investe numerosi altri problemi di natura semiologica. La superficie sensibile, infatti, è tutta impostata su di una concettualità sorta per caso e comunque cercata dall’autore che, suo malgrado, si trova a riannodare la documentazione della neo-avanguardia romana. Si tratta, naturalmente, di una funzione alla seconda, ma di certo la storia degli elementi, anzi le molteplici storie degli elementi, quella del fotografo di teatro (che segue in particolare Carmelo Bene) e quella della coppia fotografo d’arte (alla Massimo Piersanti, Paolo Pellion di Persano, eccetera) e fotografo-artista (alla Mimmo Jodice, Luigi Ghirri), si configurano come un doppio, indissolubile groviglio. Il primo scaturisce dal mestiere, che poi diventa necessità di conoscere lo straordinario cambiamento avvenuto nella seconda avanguardia, ovviamente simbolo dell’estetica post-duchampiana ed ora improvvisamente apparsa alla Madonna (è un’espressione di Carmelo Bene: usata “a sproposito”), come un’arte ricca di retorica e di proto-orginalismo (si pensi alla storia e alla vicenda-culto di Gino de Dominicis). Il secondo nasce dalla latente crisi del genere fotografico, che, proprio attraverso gli intrighi che esaminano artista e fotografo, scoprono la pericolosità del loro apologismo, il loro fragile equilibrio d’intesa. C’è subito da notare che tutto ciò chiama in causa il problema del rapporto tra universo reale e universo artistico possibile, configurato nell’opera e nell’immagine fotografica. Tale rapporto è il dato più evidente da sottolineare in Abate; esso non inficia il giudizio estetico e suscita una serie di questioni direttamente connesse con il valore dell’opera documentata e quella proposta dall’artista originario lasciato in galleria: 

  • il rapporto tra le condizioni della generazione della seconda avanguardia;
  • la struttura mentale dell’arte concettuale, in questo caso a prevalenza di arte povera, e la sua effettiva corrispondenza con la struttura della cifra poetica alla quale appartiene;
  • la corrispondenza tra un’iconografia obiettiva dei fatti storici e l’ipotesi di un’immagine personalizzata e possibile; 
  • la funzionalità della fotografia: sia essa obiettivamente corrispondente alla realtà o liberamente immaginata, nei confronti della struttura sociale della componente artistica.

Siamo sempre alla medesima questione residua: la negatività dell’immagine potrà volgersi in positivo? Far maturare, oppure confliggere e basta? Col corollario di altre due domande: si può fare fotografia dal puro cruccio e dalla purissima iconofagia? E chi la fa, non sta casomai mercificando il suo proprio sguardo (documentale), in cerca di ricostruzioni soggettive? In conclusione, Claudio Abate, con le sue Superfici Sensibili (o al MAXXI con quelle dei curators), è un caso documentale o un caso artistico alla seconda? La risposta che diede l’interessato è quella prontissima del fotografo onnipotente (alla Mimmo Iodice): entrambi – ma certo, documentale e artistico. Et-et, non aut-aut. Si tratta però di un’onnipotenza arbitraria, una strategia di illusionismo visuale, un acume sub specie aeternitatis. Per cui la risposta più leale di Abate rimane: “sollevarmi dalla tristezza del nostro tempo, senza essere costretto ad infilare la testa sotto la sabbia come fanno gli struzzi. Preferisco le allusioni alle declamazioni”. Il fotografo documentale non vuole, deve; non sceglie, è scelto. Ha sempre una dipendenza dal suo oggetto, ma al tempo stesso ha “sintesi allusiva”, vale a dire una valida ragione per essere diretto nella poetica dell’altro; poiché la sua, in definitiva, non è che una visione iconofagica, lucida e disincantata della realtà dell’arte contemporanea, non velata da filtri, ma consapevole del proprio filtro. La fotografia iconofagica è una profonda sonda nel territorio della neo-avanguardia, che se non avesse agito così, in modo arbitrario quanto costante e allusivo, sarebbe l’ideale strumento di rappresentazione di quella stessa arte. E del resto, la medesima definizione si attaglia all’attività del fotografare in arbitrio, qualcosa che non si deve scattare o porre, ma si deve simboleggiare; anche se la sua necessità resta indimostrabile e, dunque, sempre un poco soggettiva e astratta, come lo sono peraltro sia lo slancio simbolico, sia l’impegno traduttivo. Anche la stessa scelta di esprimersi in fotogrammi istantanei, in superfici sensibili, ha in Abate qualcosa di contorto, è un imbattersi metafagico, e perciò anomalo, nell’andamento ostinato e fatidico delle arti della seconda metà del XX secolo. 

«La comprensione del fotografico serve?» … «No, perché la superficie sensibile fa parte dell’extra-coscienziale», non è l’inconscio tecnologico di Benjamin, ripreso da Franco Vaccari ed esteso alla narrative art! Difficile immaginare qualcosa di più netto di questa risposta, data al lavoro di una superficie sensibile. Il suo piglio “fotografale” resta una superficie e si staglia anche dal fondo più trasparente della neo-avanguardia, come aveva colto lui stesso nel suo studio di Via dei Sabelli, l’ultima volta che l’ho visto: la situazione della fotografia contemporanea può essere riassunta in una nozione di turbamento e, a volte, di pregiudiziale rifiuto di indici autonomi. Forse, anche perché, questi indici sono difficili da conquistare (leggi «indice» come operatore realista, «informante», «indizio»). Una certa eteronomia dello scatto artistico è inevitabile, in un laboratorio come quello della neo-avanguardia; non si dovrebbe arrivare tuttavia al paradosso, per cui la fotografia, anziché scattare e qualificarsi col proprio scatto, viene praticamente scelta per testimoniare segnali e indici provenienti da altre opere e non mediati, oppure è introdotta all’operazione testuale da segnali performatici basati su dati verificabili apriori, perché stabiliti dal “teatro delle mostre” e dal contesto (dell’indice) estetico riportato o riprodotto. Istituendo un rapporto tra fotografia e opera delle neo-avanguardie, si dovrebbe obiettivamente realizzare la ricerca espositiva di dati utilizzabili nell’operazione espositiva. Non si tratta, cioè, soltanto di precisare l’importanza di una retrospettiva e una condizione di mostrificazione, ma anche e soprattutto di valutare delle possibilità, ipotesi di creazione artistica, in ultima analisi di operare la dovuta e necessaria selezione dell’esperienza e dei procedimenti puramente quantitativi della testimonianza fotografica e del produttivismo dell’opera poverista, concettuale, teatrale. Nella sua precocità fotografica, Claudio Abate ha sempre camminato con passi forti, volanti verso molti interessi: ritratto, opera in azione, documentazione ambientale, site specific, happening frontale, teatro. Mostra o vernissage occasionale, lasciando credere che le “messe in scena” lo interessavano molto, lavorando a getto, con inquadratura ribelle, con risentimenti peripatetici, con idee capovolte, con immaginazione cabrata, corrusca, spesso con anelante sovrapposizione; portando in sé qualcosa di certi torbidi artistar,che non si riescono a quietare. Forse una volta sognò di essere un reporter in esilio: mettendosi sul palchetto dei classici – il nuovo olimpo delle avanguardie – scrisse la sua storia in SUPERFICIE SENSIBILE che, pur coi suoi residui negativi, ha pagine di solida atmosfera, fiore della sua persistenza e della sua curiosità, rinascita continuata in incantamenti, rapimenti, sorprese. Non dubitiamo del suo amore per il teatro di Carmelo Bene, né dell’impegno fotografico che porta nel difendere i suoi scatti, né delle sue silenti opacizzazioni generalizzate. Ma poiché Abate è soprattutto fotografo e solo fotografo, pensiamo che tutti questi occhi si incentrino in uno, uno solo: il valore riproduttivo della superficie sensibile, che trova nell’altro degli artisti il suo campo di risonanza, la sua nobile occasione, la sua dignità. È il fotografo che ha visto tutte le mostre, e certe scene in Italia le conosce lui solo e nei suoi scatti vengono custodite. 

La fotografia è per la neo-avanguardia e per i suoi set quel dato esterno che ha una particolare qualificazione indicale, non sempre e necessariamente riducibile a valore.

Il nostro è il nuovo secolo dell’immagine, si dice. Tante tecniche nuove prestano compiacentemente agli artisti i loro strumenti, svolgono apprezzata opera di consulenti o di indicalizzazione, le due culture sembrano vicine all’incontro, a tutta gloria e lode dell’opacità dello scambio tra significante e significato, cui pure si stia per ascrivere anche la foto. Se ne deduce che l’incremento dell’immagine è inverso a quello dell’arte, la cui «mortificazione» barthesiana sarebbe prossima. Si dimentica un corollario: se la fotografia è immagine di qualche indice artistico-istallativo, la fine del suo oggetto sarebbe anche il suo avvilimento; a meno di considerarla un’attività archeologica, utile a spolverate da museo, indici legati ad opere fuggite nel perimetro dell’apeiron post-informale, nella distrazione dell’opera compiuta nel tempo del «living theatre». 

Più probabile l’ipotesi (anch’essa vulgata) che la fotografia si ponga ormai come concorrente della nostra ripresa, del “teatro delle mostre” assimilate: risultato di un set bloccato, un teatro inanimato, che cerca nell’arte di Pino Pascali (con la sua Vedova blù, 1965) o, nel suo studio mascherato davanti all’Araba Fenice (Roma, 1959) dei soggetti volitivi per affrancarsi dentro al principio della deriva creativa! Per René Lindekens “riconoscere l’esistenza di una retorica dell’iconico, dunque di una modificazione, di una trasposizione euforizzante della struttura del “photographe” (alla Claudio Abate), significa postulare la trasformazione – e quindi l’esistenza – di un primo codice, di una combinatoria fondamentale di tratti propriamente iconici. Questa retorica del discontinuo altro non sarebbe se non la retorica dell’immagine performatica cannibalizzata al profilo di Carmelo Bene, o a quello di Jannis Kounellis, come tale; noi la chiamiamo retorica del senso iconico (installation & performance art) per distinguerla dalla retorica dell’analogia (del referente attraverso l’installazione dei divi)”. 

C’è una certa affinità elettiva tra l’artigiano e l’aspirante artista: dal 3 marzo al 4 giugno 2023: Claudio Abate – Superficie Sensibile, extra MAXXI; una selezione di oltre 150 fotografie, dalle più riprodotte alle meno note, fino ad alcune ancora inedite. L’incipit della mostra parte dalla stessa dichiarazione del fotografo romano: «Bisogna entrare nelle opere, sentirle e farle proprie, anche amarle; se non si riesce in questo non si riuscirà nemmeno a fare delle belle fotografie». La mostra tenta faticosamente di ripercorre la produzione di Abate, attraverso la “lente” del suo archivio, spazio di lavoro artigianale e di tensione concettuale. La costruzione di Claudio Abate spazia, infatti, dalle fotografie di opere, artisti e mostre dell’Arte Povera, ai fotogrammi sulla scena artistica ed espositiva in Italia e all’estero, fino a istantanee su teatro, moda, costume, attualità. Nove sezioni tematiche, arricchite da documenti d’archivio, riprese, attestati d’epoca, per trascinare alla luce i ragguagli di Abate con artisti e istituzioni.

2. Le mostre fotografiche del XXI secolo rappresentano un campo privilegiato per la lettura dei mutamenti che caratterizzano e attraversano le esposizioni occidentali. Il tema della mostra di Claudio Abate, diviene un problema semiologico nella misura in cui va a coinvolgere le sfere dello stare a guardare una foto, ma anche quello dell’organizzazione degli eventi espositivi e della celebrazione curatoriale dei valori, nei quali  una comunità di esperti crede, nonché delle modalità di accesso alle forme significanti della foto.

La riflessione proposta nasce e si appoggia su un unico “case study” che si presta ad ampliare la considerazione alle diverse modalità in cui queste forme della «testimonianza visiva» oggi sono declinabili. L’evento-mostra di Claudio Abate al MAXXI richiama temi che da sempre sono al centro dell’interesse della riflessione critica: dalla costruzione del legame con l’analogon fotografico, alla stratificazione espressiva indecifrabile; dalla produzione e riproduzione dell’indice visivo del profeta a un modo opaco di esporre la fotografia. Lo sforzo è, dunque, quello di comprendere in che modo un “medium senza codice” e le esperienze veicolate da una forma di espressione, come la trasposizione dell’indice delle neo-avanguardie, riescono a soddisfare il bisogno di visualizzazione, la necessità dell’autore contemporaneo di recuperare legami sociali di stampo convincente.

Il tempo, la storia, la fotografia non procedono per quantità identiche di anni e neanche per generazioni: immobilismi di secoli e rivoluzioni concentrate in pochi momenti.

L’estetica post-moderna sembra aver trovato nei rituali collettivi contemporanei e nelle loro prassi propositive una modalità di espressione che ne privilegia la multidimensionalità, la quantità e i tratti più salienti. Primo fra tutti, il recupero del ruolo che le emozioni hanno assunto all’interno della élite espositiva.Gli eventi si pongono, infatti, in linea con un atteggiamento di reincanto del mondo che caratterizza non solo la Weltanschauung, ma anche il modus operandi dell’arte e dell’autore contemporaneo. Una persona aesthetica che è orientata nelle sue convinzioni da una particolare attenzione allo stile espositivo (superficie sensibile) e che rappresenta l’evoluzione del soggetto economico della modernità, condizionato invece nelle sue fruizioni e nei suoi sistemi di partecipazione all’evento, da una eccessiva tendenza alla «schematizzazione del sensibile fotografico», cosa può veramente? Questa nuova metamorfosi, che caratterizza la convergenza tra il divismo artistico e la fruizione spettacolare, si esprime nella tendenza a dedicare maggiore attenzione agli aspetti più effimeri ed emozionali dell’esistenza artistica del secondo dopoguerra, ponendosi in contrapposizione con gli scenari documentali che inducevano a prediligere un agire artistico orientato ad uno scopo educativo e pedagogico. Ciò induce questo “vecchio strumentario” esposizionale (la foto) a rivestire all’occorrenza i panni di quello che Roland Barthes chiama “il codice dell’altro”, l’analogon ludens.

In tale cambiamento di prospettive e di atteggiamenti, tanto l’importanza attribuita all’  emozionalità curatoriali, quanto una ridefinizione dei rapporti del singolo autore rispetto al fatto storico esposto, hanno favorito la nascita di incredibili modalità di aggregazione e forme di legami sociali dominati da sentimenti di curatorialismo o religiosità mostrificata, divertimento e panoplia processato da un forte senso di appartenenza di stampo politico-relazionale. È qui che lo spettatore ludens trova la propria dimensione e soddisfa i propri bisogni, anche quando queste forme convergenti di curatorialità insieme assumono la connotazione di una peculiare tipologia di eventi soprasegmentali, quali quelli delle Mostre sull’Apologia del Teatro delle Mostre (si veda il cat. Claudio Abate. Photographe/ Installation & Performance art, Colpo di Fulmine edizioni, La Ville de Bordeaux-Verona, 2009). In particolare, queste prassi si nutrono di alcuni tratti e valori specifici, che dominano l’attuale scenario curatoriale, sulla base dei quali quelle che a uno sguardo di “superficie” potrebbero apparire semplici occasioni di mostra, finiscono con l’essere acquisite come l’altro da sé. Solo mettendo a fuoco tali aspetti, è possibile cogliere gli elementi distintivi che caratterizzano una mostra come quella dedicata a Claudio Abate al MAXXI e che rischierebbero di apparire casuali o addirittura imprevisti, laddove invece sono parte integrante della loro struttura estetica e riflettono a pieno le nuove strategie e le nuove istanze del caos contemporaneo.

Un primo elemento, sul quale porre l’accento, è costituito da quella che Claudio Abate definiva “torsione pittorica della fotografia”, in funzione della quale il consumo espositivo-archivistico è divenuto svago curatoriale. Tutto ciò è la conseguenza di una riduzione della forma espressiva dell’arte alla sintesi dell’analogon, che ha portato il sistema di interpretazione degli archivi in un terzo tempo, definibile come tempo improprio, in quella che era l’originaria ripartizione spaziale tra tempi creativi e tempi curatoriali. Proprio questi ultimi, prima orientati alla riduzione dell’autore e alla cura dell’archivio e della documentalità, ora si connotano sempre più come tempo dell’anonimato, dominato da un cannibalismo creativo, spesso concepito come tempo dell’esortazione espositiva.

Le mostre come Superficie Sensibile e altri riti collettivi vanno ad inserirsi e ad occupare lo spazio creato proprio da questo terzo tempo del fotografico: “l’immagine – come scrive Roland Barthes ne Il Messaggio fotografico – non è il reale; ma ne è quantomeno l’analogon perfetto, ed è precisamente questa perfezione analogica che, per il senso comune, definisce la fotografia. Appare così lo statuto particolare dell’immagine fotografica: è un messaggio senza codice. Da questa proposizione bisogna subito trarre un corollario importante: il messaggio fotografico è un messaggio continuo” (R. Barthes, Il messaggio fotografico (1961), in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino, 1985. p.7). Il tempo del senza codice, molto vicino al tempo libero diventa quell’attività attraverso la quale l’autore fotografico cerca di definire e ritagliarsi una propria profilazione di ripresa, che si incontra con la mantide curatoriale, divenendo al contempo uno spazio di arbitrarietà espositiva in cui sviluppare le proprie interpretazioni storiche, fuori da contesti autoriali; e uno spazio collettivo in cui dedicarsi ad una socievolezza di tipo ideologico: superficie sensibile unica e totale. Questa funzionalità tra reale e immaginario assume caratteri che non sempre vengono avvertiti dallo stesso autore, il quale spesso crea sotto la spinta di un’esigenza interiore e inconscia. Chi non ha presente questi elementi dell’inconscio, non può rendersi conto dei dati che spesso la critica rileva al di là delle superfici immediatamente recepibili. Si tratta di quella fase profluente della creazione che generalmente resta a livello inconscio, nell’atto della ripresa e soltanto in un secondo momento diventa cosciente nella stessa mente dell’autore. 

In conclusione, nelle “Superfici Sensibili” Abate sottolinea esplicitamente, come abbiamo più volte accennato, l’ambiguità della ripresa, ne fa l’elemento portante di tutta l’estetica dell’istante decisivo; ma in che rapporto rimane quella ambiguità con la funzionalità tra immaginario e reale? C’è compatibilità tra i due aspetti, nel senso che l’ambiguità sta in una giusta contrapposizione al gioco tra reale e immaginario e quindi esplicita la funzionalità dello scatto? La superficie sensibile è in sostanza una documentazione: la scommessa che Abate ha escogitato rispecchia con assoluta fedeltà l’ambiguità universale dell’irreale e in particolare l’ambiguità del concettuale. Raramente in un fotografo contemporaneo la corrispondenza tra immaginazione e realtà è stata così compenetrante. Abate, a nostro parere, non ha mirato neppure a rappresentare una neo-avanguardia possibile, al contrario, si è fatto interprete di una irrealtà che, per essere ambigua e inafferrabile, non poteva manifestarsi se non come specchio rifrangente.