Sull’infermità del riscatto e l’apatia diffusa

La mancanza di ogni emotività politica, rispetto alla situazione sociale italiana, è la spia di un crollo cognitivo del progetto antagonista, tra coloro che hanno già un problema di rinuncia e di assenza di prospettiva futura. «Scagionata» la depressione del non voto, si presenta la mediocrità del soggetto culturale e politico antagonista. Interrogarsi sull’eredità della memoria operaia e democratico-popolare, è un’operazione particolarmente delicata, non solo perché esige in tutta evidenza una presa di posizione – possibilmente ben argomentata – da parte dell’interprete, ma anche e soprattutto perché in questa esigenza di spinta emancipativa si sfiora la rammemorazione con cui non possiamo non misurarci.

1. Bisogna forse confrontarsi con l’apatico stratega di sinistra. Prendiamo due immagini, affatto diverse tra loro. La prima artistico-estetica narrata da Mme Servizi Segreti nel Castello delle Esposizioni, qui nella traduzione politica italiana del 2018: “Un artista di sufficiente criterio strategico narravami che trovandosi una sera, in una festa da ballo in maschera, passò dinanzi a un politico (specchio dei tempi), e che, non sapendo come riconoscere se stesso in mezzo a tutti coloro che vestivano in abito del potere somigliante al suo, si fece un lieve segno di autovalorizzazione per ravvisarsi …”. L’altra è un’immagine in senso proprio, precisamente una vignetta senza parole da cartoonist: un primo piano, due «artisti relazionali di sinistra», tipo The Square, sbarcati, per dir così, da uno studio di Psicologia dell’Arte su un qualsiasi atollo della Galassia del Gusto, osservando il suolo della Quadriennale di Roma, raccolgono consensi, applausi, ecc … mentre in secondo piano, più esattamente in alto sopra di loro, una mano enormemente e drammaticamente ironica, sta per spingere via, lontano nello spazio, con un semplice buffetto, quella rappresentazione che è la storia sparsa e dispersa dei nuovi movimenti sociali e politici. L’impressione è quella di una domanda insieme tragica e comica redatta da Il Manifesto, il giornale che riceve contributi pubblici pari al 3,3 milioni: «Compagni, frequentiamo quelli che contano». Le due immagini, Politica e Visuale, con le loro rispettive ambiguità, sembrano in qualche modo oscuro rappresentare o vocare il senso, anzi i sensi della strategia pubblicitaria: è la creazione o l’attribuzione di stato d’animo a qualche cosa, che di per sé non ne ha e non ne debba necessariamente avere, è già una risposta intrinseca e indiretta al quesito. Solo che si tratta di sensi pubblicitari indotti e aggiunti a somiglianza di una «protesi di sinistra»: la fuffa prolunga la mano oppure la mente, è l’arnese che aiuta il lavoro sporco, l’avvelenamento delle acque, la religione dell’apatia, lo strumento che lo integra. Ma quale militanza? Sembra quasi di fare l’elogio del fantasma: qui però i fantasmi sono almeno due, o comunque di due tipi – il revenant del rampantista e il replicante dello spacciatore di illusioni politiche. Quale fa più paura, colui che ritorna di moda nella strategia dell’assenza e udibile dall’oltre-borghese, o colui che ci raddoppia, talora sorpassandoci? Il senso, il significato diventano così un nodo, un gruppo apatico, una significazione strategica, modo o modi di una truffa. Infatti, in un mondo come il nostro dominato e segnato dagli arrampicatori sociali che si nascondono dietro la cura de L’intelligenza in lotta (di Hans-Jurgen Krahl), ogni persona, cosa, aspetto reale o astrazione concettuale, un senso di potere e di arrivismo se lo cerca da sé; i giovani, che vorrebbero avere qualche riferimento nei compagni e nelle lotte degli anni ’60, sono costretti ad inseguire la fuffa dei prefattori di idiozie (prefabbricati ideologici), esistenze fittizie, parole senza retroterra critico. Nell’aneddoto dei sistemi pseudo-politico-culturali italiani, lo specchio dell’apatia – proposto da Marco Bascetta – diventa figura che fa nascere il doppio falso: e fin qui, appunto siamo nell’ovvio. Ma da un punto visuale più allontanato o disincantato, la specularità fra rampantismo e apatia vale – egoisticamente – per sé, è rappresentata dall’inquinamento che è il luogo «dell’opera viva», di altri sé, facce fantasmatiche eppure reali, identiche e differenti, dove tra l’altro resta confermato (implicando la centralità della politica anche per l’interposta parafrasi della fuffa artistica) che il reale non corrisponde alla realtà.

Questi doppi separati/uniti dallo specchio del narcisismo post-moderno, queste irrealtà militanti come Altro, il sé dietro/oltre se stesso, si concretizzano attraverso il linguaggio del trash. Si è, così, messi in contatto con la realtà della lotta di classe, il suo essere “in sé” aumento di parole fuori dalla Grazia di una qualsiasi ragione: si veda Images of Class. Operaismo, autonomia and visual arts (1962-1988; Verso Books), per mettersi le mani nei capelli e approfondire perché il post-operaismo ha trovato la strada per sputtanarsi anziché storicizzarsi! Un’altra immagine si protende verso un’altra classe: mettere in comune è diventato un sogno maledetto, quindi per estensione egoistica e narcisistica, la storia è scritta dal «cinismo militare sinistrato». Vecchie distinzioni, fra arte e politica e vita e movimento di classe, fra autocoscienza ed eterocoscienza (la critica mancante), sdoppiamento empatia/apatia e relativa doppia creazione di catastrofe politica. All’uscita dal Covid-19, attraversando le incognite di una guerra in Europa e affrontando la crisi energetica che falcidia politica e cultura, antagonismo e perbenismo, è andata in crisi la pletora del post-fordismo e il programma de Il Manifesto, dispositivi autoimmuni che defalcano quel fuoco dell’attivismo che in molti (troppi) casi giace sepolto sotto la cenere di «stili sindacalesi» e dell’arroganza da libretto rosso; richieste che hanno sempre ragione, nell’inerzia delle operazioni quotidiane o seppellite sotto il caos degli «stati di eccezione». Ma non basta un atto di volontà politica, basato sul carattere e l’integrità del programma o delle analisi, serve una svolta organizzativa. Deve diventare clima del “fare” nella ferma convinzione di un gruppo che ricentralizzi l’esigenza politica e trovi lo slancio del coinvolgimento di classe! Perché sappiamo bene che l’alternativa alla fiducia è la paura e il terrore apatico. Vi sono parole e atti killer, che è necessario bandire dal lessico attivista. La fiducia nei movimenti richiede onestà, trasparenza, realtà ed empatia. È l’etica della responsabilità di classe – sulle cui fondamenta, in verità spesso trascurate nella vita di una rivendicazione – si costituisce la cultura dell’engagé (non estetico-deviazionista): una parola di cui ci riempiamo la bocca, associandola banalmente alla traduzione-potenziamento, perché si agisca con necessaria autonomia nell’ambito di una chiara delega monopolizzata. Occorre dunque, ancora una volta e innanzitutto tornare allo spirito aggregativo e alla nascita della comunità zero. Scrive il «divergentista» Gunther Anders: «Sarebbe ingenuo credere che l’uomo rimanga “emozionalmente costante”. È fuori discussione. Le emozioni dipendono piuttosto dalle situazioni storiche esistenti, soprattutto dagli strumenti tecnici. Le emozioni di un uomo alla mitragliatrice (magari di un pilota di bombardiere nella misura in cui ha, o meglio, ha ancora bisogno di emozioni) non assomigliano più in nulla a quelle di un oplita combattente a Salamina, tanto meno a quelle di un homo pekinensis lanciatore di pietre» (Anders, L’odio è antiquato[1985], Bollati Boringhieri, Torino 2006, p.36). Una “storia dei sentimenti” o delle esigenze militanti tuttavia manca, non è mai stata scritta. Una delle lacune più deplorevoli della storia dei movimenti sociali italiani e delle scienze della resistenza, lamenterebbe Anders. L’affermarsi del mondo dominato dalla “tecnica influencer” ha portato ad una accelerazione inedita che ha reso instabile questo processo automatico di adeguamento e le empatie, costrette ad un ritardo irrecuperabile, hanno progressivamente smarrito la loro funzione sostenitrice di emozioni rivoluzionarie, fino ad essere espunte da una grammatica binaria che non contempla caratteri a parte o stilizzazioni empatiche. Nell’era della tecnocrazia – dice il Medialismo – è andato imponendosi un paradigma selettivo, regolato dalle leggi asettiche e fredde della coppia produzione-consumo, che hanno sottratto alla possibilità dell’essere militante la sua centralità temporale. Di fronte alle teatrali logiche della crisi globale (climatica, economica, sanitaria, politica e militare), diverse lotte sociali sono esplose in Europa. In Francia, «contro l’aumento dell’età pensionabile» voluto dal governo Macron; in Gran Bretagna «contro il carovita e i bassi salari»; in Spagna «a sostegno della sanità pubblica»; in Germania per il «diritto alla casa», ecc…, ma in Italia? In Italia: «niente». Il sinistrato italiano deve tenere un profilo invisibile – cioè sembrare una persona inesistente, in cui l’elettore possa rispecchiarsi – ma allo stesso tempo deve apparire come l’eroe ambiguo che lotta costantemente contro un potere insidioso e vecchio, che tenta di resistere alla sua portata rinnovatrice e coscienziosa. Il suo aspetto attoriale deve quindi apparire comune, ma inaccessibile (come un professore universitario democratico e di sinistra), qualcuno in cui identificarsi ma che sia l’esaltazione delle  disaffezioni apatiche. La pianificazione abulica chiede una performance attraverso la concentrazione degli stadi controversi: è una empatia dell’influencer che pretende «l’espressione della tua opinione sotto forma di reazione immediata e semplificata». Di fronte a una richiesta composita, nella società della pianificazione inerte puoi solo rispondere Sì o No, attingendo al sistema di potere della stampa truccata e della disinformazione generalizzata.

La città di Madrid ha lanciato domenica scorsa una «risposta schiacciante», partecipando in massa alla manifestazione contro le politiche di privatizzazione della sanità del governo regionale, in Italia neanche una riunione in un centro sociale riesce ad arrivare alla fine. La partecipazione alle manifestazioni per la Sanità Pubblica di domenica ha superato le previsioni dei collettivi che l’hanno convocata e ha inondato le strade di Madrid, frutto di una ribellione sanitaria contro le misure di privatizzazione del governo di Isabel Díaz Ayuso. Il governo ha stimato la partecipazione di 200.000 persone, mentre secondo gli organizzatori erano 670.000 i partecipanti. I militanti italiani che lavorano nel segno della nuova  e fantomatica aggregazione politica, si ispirano al Partito Laburista di Jeremy Corbyn, alla France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e agli spagnoli di Podemos; rivendicano la lotta di classe e il sindacalismo di base, nato intorno alle vertenze dei braccianti agricoli nell’Italia meridionale, ma anche le battaglie dei lavoratori della logistica e dei call center, nel centro e nel nord, denunciano l’esclusione delle donne e dei giovani dalla leadership politica italiana e provano a fare i conti con la complessa eredità politica e culturale del Partito comunista più grande d’Europa. Il loro obiettivo sarebbe rifondare la sinistra, anche se non riescono a portare a termine neanche un’assemblea organizzativa per una manifestazione unitaria. Luciana Castellina, fondatrice del Manifesto, in un articolo sul suo quotidiano definisce l’espressione centrale di questa protesta “elementare, che rinnega la ricca complessità del pensiero comunista”. Il disaccordo tra i compagni della stessa area, scrive Castellina, “riguarda un’altra cosa: se per dare una prospettiva all’area sociale che vogliamo rappresentare sia più efficace la semplice riproposizione dei suoi bisogni, o non sia meglio cercare di costruire, oltre al movimento sociale, anche un fronte più ampio che possa dare alla lotta un riferimento più forte in parlamento; e dunque una prospettiva più efficace”. Insomma, il militante non è più l’orgoglioso titano, circondato da servizievoli macchine, non è più il centralista arrogante, ma veste la livrea dell’influencer, del servo incerto, irrimediabilmente in ritardo in un universo da Propaganda Live, in cui la comunicazione politica e il senso dell’unità gli è totalmente sfuggita di mano. È un’inversione di ruoli in cui la fuffa del prodotto artistico, la barzelletta, la comicità spiritosa ed apatica sono andate al di là del loro creatore, lo hanno reso antiquato, determinandone e intorpidendone la sensibilità politica. Oggi chi plasma l’apatia non siamo noi, poiché non siamo noi che sagomiamo i diversivi dalla realtà politica, ma al contrario sono le strategie dei social media che ci modellano. I centri sociali sono diventati le copie e l’espressione di essi. In questo universo sistemico, la cui cifra è la presa del potere e la distanza degli apparati, l’identità del soggetto politico si è scissa nella «moltitudine intangibile e enigmatica», teorizzata da Toni Negri e da Michael Hardt. Un aliquid che è collassato nel suo stesso isolamento e corrività, sorpreso dal senso di inadeguatezza, dalla vergogna di Prometeo di fronte all’irraggiungibile eccellenza delle macchine, al di là dei movimenti.

Con i suoi esiti ipertrofici, la Tecnica dell’apatismo apolitico italiano si è posta su un piano altro, di non pensabilità di se stessa (sovraliminale, direbbe il medialismo), inaccessibile ad un essere comunicativo ancorato a paradigmi pre-mediali, arretrati. Influencer, mascherati da pseudo-operaisti e da dirigenti della Quadriennale di Roma, che arrancano in una mora irrecuperabile, incapaci di riflettere e di tenere l’assemblea, distorti dalla loro stessa performance; privi di sentire il bisogno dell’unità politica, di immaginare. In questo teatro tragico e farsesco – connotato da una vera e propria «mitologia del fighettismo» – i sentimenti militanti sono ormai del tutto inadeguati, inidonei a comprendere l’effettuale urgente della resistenza. Lo schema percettivo, cognitivo e desiderante del tentativo di militanza non può che avere come esito la catastrofe collettiva. L’apatia dell’influencer ha preso il sopravvento e i meschini intellettuali della sinistra radicale, afferma la cronaca italiana, non hanno più bisogno di emozioni militanti, che rischiano di interferire con il loro sicuro e ineffabile procedere. Non hanno più bisogno dell’empatia e dell’astrazione concettuale dell’eingedenken(«ricordo del futuro»), né tanto meno dell’amore per il prossimo del proprio collettivo: usano il gruppo per scannarsi sulla presa dei piccoli consigli circoscrizionali, aspettando di fare fuori il povero compagno che, con stenti e sacrifici, si era creato il percorso giusto per poter pubblicare un saggio,portare a termine un film o curare una manifestazione pubblica. E in un mondo di solchi di odio, di veleni rappresentati dalle pagine del loro stesso quotidiano di punta, retrovie in cui dominano le urgenze di mafiosità e di rampantismo, le arterie traverse del bisogno di militanza diventano perdita di tempo, a favore della conquista di potere; inutili deviazioni in filosofemi di un mondo amministrato che, indistintamente, si rivolge contro il popolo e contro gli operai. Il diffusivismo apatista della «borghesia influencer» è divenuto un surplus, un sovrappiù per occasioni speciali, un sentimento affatto dissidente, null’altro che un prodotto da servire a consumatori bulimici, per renderli ebbri e assicurare, quando necessario, l’adesione acritica, modaiola, e se serve, l’accettazione dell’inaudito.

Se si vuole rappresentare i ceti meno abbienti – schiacciati dalla crisi economica del 2008 e dalle politiche di austerità – si è più forti se si è uniti, sembra dire la fondatrice del Manifesto, ma poi questa stessa dichiarazione si rivela come un’occasione per provare a gettare le basi per un nuovo comando e per un nuovo leaderismo. Cresciuti nei movimenti antiglobalizzazione, alcuni dei giovani e meno giovani dei Centri sociali della Penisola, fanno parte della generazione di attivisti che si identificano nei gruppi promotori delle manifestazioni dell’estate del 2001, durante il G8 di Genova. “In quella violenza contro il movimento antiglobalizzazione, è stata tracciata una linea di demarcazione tra buoni e cattivi. Nella sinistra si è aperta una spaccatura, che non è mai più stata ricomposta”. C’è qualche militante di buona volontà che dichiara: “Il nostro sogno è ricostituire quel fronte ampio che portava in piazza le mamme per la pace, i sindacati cattolici, l’Arci e i movimenti antagonisti”. Quella pagina di storia italiana nessun partito l’ha voluta affrontare: è rimasta lontana dai meccanismi della rappresentanza e del voto.

2. Sono quasi 6 milioni le italiane e gli italiani all’estero (Rapporto Migrantes 2022), un’Italia “mobile, fluida, spuria” che non è composta solo da “cervelli”, ma anzi soprattutto da persone che cercano banalmente un lavoro qualsiasi, per un reddito dignitoso. Molti e molte di loro spesso si attivano proprio in quei movimenti che in questo momento rappresentano o vorrebbero rappresentare l’opposizione vera alle politiche ultraliberiste. Mai come oggi l’azione politica, le pratiche e la ricerca di consenso della comunità e della vita sociale è diretta alla manipolazione delle pulsioni del pubblico. Attraverso una lingua sottile, che produce la nuvola tossica dell’apatia, e l’elaborazione di algoritmi e la propaganda globale (che surclassa i campi semiotici dell’enunciazione mediale) le relazioni possono essere misurate con grande precisione, al fine di provocare nei potenziali militanti della sinistra certe emozioni di odio collettivo, assicurandosi la fedeltà cieca degli elettori. Il linguaggio della politica mediale (che si presenta doppio) deve essere semplificato in modo da rendersi comprensibile a tutti e provocare gioia e indignazione, ma in ogni caso una reazione precisa e forte. L’essenziale è non essere fuori dallo spettacolo ma apparire riconoscibili, esibendo posizioni radicali: scienziati del Nulla, «compagni che sanno tutto e non sbagliano mai», quelli che sono riusciti ad acquisire tutte le strategie di comprensione del programma di Critica dell’economia politica e poi non sono in grado di produrre niente, la falange apatica del contropotere parossistico, i blocchi di enunciazione che tengono in ostaggio il Manifesto del P.C. . L’importante è creare engagement, cioè coinvolgimento da parte del gruppetto inoffensivo, e in quest’ottica anche l’indignazione e l’empatia – che la militanza provoca – sono funzionali: rendono il coinvolgimento virale, visibile, aumentano l’impatto del suo narcisismo, dunque sono utili al loro stesso apatismo generalizzato. Il concetto e il termine di tolleranza dell’apatia sono indubbiamente polisemici. Ma, in ogni caso, risulta evidente che la “tolleranza abulica” – sia come costume, sia come norma, sia come teoria, sia come ideologia manifesta a livello emblematico – pratica lo stesso intreccio tra impegno e disimpegno. Potremmo intenderla infatti nella sua più ampia accezione come autolimitazione della “del disimpegno globale”. I frammenti di sinistra trattenuti, tenuti stretti dalle relazioni borghesi, oggi devono dare l’illusione di una vicinanza con una qualsiasi classe sociale più disagiata, cioè la sensazione di essergli vicino, di ascoltarla, di interpretare i suoi bisogni e agire come megafono del suo malessere. Deve quindi essere una militanza urlata, con una medialità istantaneamente popolare (influencer), che agisca attraverso slogan e pubblicità identiche a quelle pensate dalla gente comune, che prima o poi le farà proprie.

Tale autolimitazione può, a sua volta, intendersi in senso politico-partitico come problematicità e/o crisi, nel senso che l’apatia è coerente e necessaria conseguenza di una pratica politica connotata dalla mancanza di dissolutezza collettiva, oppure può configurarsi come scelta contingente. Insomma, che cosa può avere a che fare l’astensionismo politico europeo, in Francia, nel Regno Unito, in Spagna, in Germania, con la protesta che si fa sentire e scende in piazza, con la vittoria dell’apatismo italiano? Che cosa ha a che fare quel partito del non voto, della «sconfitta dei movimenti »(segnalata da Augusto Illuminati e da Marco Bascetta), con il rampantismo di pretendenti-artivisti di Quadriennale, con il commento a testi sacri del movimento autonomo da parte di sprovvisti sacrestani del settarismo? Per questa ragione, la strategia di aggregazione usata dalla politica engagé è una pianificazione abulico-digitale, che sostituisce il dibattito assembleare con sondaggi velenosi e propone dicerie solo quando è certa del risultato che otterrà; che seleziona le strategie di aggregazione in base all’effetto immediato che avranno sull’elettore sporadico e a quanto saranno funzionali all’aumento della potenza dell’immagine del leader. La sinistra usa le stesse regole del marketing, dunque offre all’elettorato ciò che l’elettorato scambia con i segni dello spettacolo: non può essere empatica, non può compiere scelte dolorose o articolate che siano misteriose per l’elettore, dunque deve eleggere l’opinione comune al parere degli esperti e dei tecnici. Perciò risulta utile tornare al fenomeno dell’apatismo come fa Bascetta: “Chi vota a sinistra cerca di coprire le spalle a una disastrosa ritirata. Ma chi diserta le urne (una cospicua maggioranza), e perfino chi lo fa con una decisa motivazione politica, non scende in piazza, non anima movimenti di lotta nelle scuole e nei posti di lavoro, come avviene negli altri paesi europei. Questa diffusa apatia è oggi un tratto distintivo dell’Italia, dove la sconfitta dei movimenti di lotta è stata più bruciante perché più grandi erano stati i desideri di cambiamento che avevano veicolato. Si possono cercare molte, diverse spiegazioni, ma comunque è da questa stasi che bisogna partire. Con l’auspicio che il partito dell’astensione cessi di essere un partito che si esprime per sottrazione, trasformandosi in un movimento che si manifesta nel conflitto” (art. pub. su Il Manifesto del 15 febbraio 2023).

Anche l’attività del militante, come quella dell’empatico sociale, è ridotta a vuota astrazione. L’attivista è diventato un sorvegliante della macchina del potere, un poliziotto che mette in conflitto potenziali movimenti con gruppi sui generis. Le sue attitudini si sono semplificate, ridotte a liberi esercizi apologetici, funzionali al gesto neutro ed essenziale del pulsante premuto del potere, che deresponsabilizza l’umano, il disinnescatore di conflitti, apatizzandone le capacità percettive. La storia dei bisogni sembra arrivare lontano da noi e non sembra più ricostruibile. Le coppie politiche gestite dalla logica borghese dello stesso Manifesto si materializza in una coincidenza di opposti all’insegna dell’annullamento sensoriale. Nella deriva politica italiana – descritta, debolmente, da Marco Bascetta -, in cui i soggetti politici sono ormai marginali, gli stessi campi di battaglia sono destinati a diventare spazi superflui. I conflitti descritti da Il Manifesto si svolgono in un immaginario in cui i nemici di classe non hanno volto, non hanno fisionomie, spesso sono calati in uno stato di alienazione esistenziale, in cui tutto trascolora nella autoreferenzialità distruttiva, regolata da un inesorabile schema che non contempla l’unitario. E così l’apatia, come il disinteresse, diventa percezione dell’al di là del lavoro (e del lavoro politico). La distinzione tra dentro e fuori “i movimenti”, l’accademismo fra sopra e sotto il centralismo empatico, il termometro dell’engagé fra i compagni che sbagliano e quelli che appaiono corretti, acquista un senso discriminatorio e la stessa rammemorazione viene abrogata. La politica del ri-attivismo non usa una machine learning, ma neanche una critica all’ortodossia esistenzialistica dell’alienazione: “vale a dire – come dice Roberto Fineschi – una teoria del farsi dell’umanità, del processo attraverso il quale l’effettiva esistenza di un soggetto umano collettivo, umano in astratto, diventa possibile nella storia (non è certo un punto di partenza bell’e fatto a cui regredire)” (in, A. Mazzone, Scritti, a cura di R. Fineschi, La Città del Sole, Napoli, 2022, p. 12-13).

Per questa ragione il movimento (o i movimenti), senza “l’urgenza del valore-lavoro”, è un contenitore vuoto che cambia a seconda degli sciami, cioè dei fenomeni spettacolari e delle opinioni diffuse. Più una frammentazione è diffusa, più la regimentazione mediale cercherà di intercettarla. Il movimentismo di questo flusso viene definito comunemente anti-movimentismo, eppure rappresenta l’apice dell’idea di politica come prosecuzione del conflitto con altri mezzi: i suoi mezzi non sono quelli dello scontro fisico, ma rappresentano un contro-conflitto di classe condotto con gli strumenti del marketing e della tecnologia contro i bisogni primari, in cui non ci può essere mai un momento di rilassatezza, perché porterebbe all’assenza dell’empatia, quindi di engagement, quindi di critica. E in questa dimensione sovraliminale nemmeno ai sopravvissuti della fine del lavoro (della disoccupazione perenne) è possibile criticare e opporsi concretamente; così come agli aggressori non è concessa l’apatia per gli aggrediti, perché la distanza e l’alienazione dal conflitto di classe (operaio, vedi lavoratore sui generis) hanno reso il reale drammaticamente fittizio e davanti all’indicibile sembra o appare che non si possa che restare muti. Bene, quando la militanza politica è a un certo punto offerta a una sfera pubblica, che pareva per alcuni interpreti molto impaziente di fare, l’emittente rimane scoperto, perché militare concretamente rimane pericoloso e, nonostante tutto, non è così comodo e così facile e non ci sono più tanti compagni che abbiano voglia realmente di fare. Ma se qualcuno ha qualcosa da lottare (magari con empatia), se qualcuno vuole prendersi delle responsabilità, che scenda in piazza e faccia concretamente l’architetto: «intendere il processo in cui gli uomini associati producono e riproducono se stessi, le loro forme di vita, le loro istituzioni, anzi anche le loro abilità, capacità, facoltà. Per questa via, tornerà possibile anche progettare razionalmente una “politica saggia e illuminata” che serva a migliorare, con le nostre condizioni di vita, noi stessi e i nostri figli. Ma non senza la diffusione della ragione nelle classi subalterne. Non senza, certo, un lavoro lungo e lotte difficili. La teoria delle classi è parte essenziale di tutto questo» (in Mazzone,op.cit., p.87).