Mario Albergati, Tunisia - Kairouan, cupola di moschea

Sulla vera invenzione del testo foto-poetico Ancora su Vito, due o tre cose da raccontare.

Attraverso una riflessione storica dei temi fondamentali delle corrispondenze, le pagine di Perretta documentano gli approcci per pensare alla continuità del fototesto negli anni duemila. Proponendo una nuova interpretazione filologica di Coule, una plaquette ad opera del poeta Vito Riviello e del fotografo Mario Albergati, ci sottolinea come il fototesto dovrebbe raccontarsi per non cadere prigionieri di retoriche sublimi, o di euforiche emancipazioni nella fiera del nulla. Perretta prospetta una lettura basata sulla prassi dell’immagine poetica, per comprendere il legame problematico tra il testuale e il viaggio nella «microvisione», di un poeta e di un costruttore di figurazioni parallele.

Scrivevo anni fa, riguardo alla poetica di Vito Riviello: “Il libro degli anni Settanta è certo più asciutto ed astuto; quello degli anni Ottanta era forse più intenso e compatto. Ma la lingua di Riviello ci sembra – ed è più o meno la stessa anche l’area della riflessione poetica, nonché la topografia – più che l’uso della fotografia, l’empatia dei luoghi fisici privilegiati. Sul fondo resiste quella corrispondenza tra il realismo e la visione allegra, il sorriso e l’istantanea, l’enunciazione della macchina fotografica e la parola-maschera, la parola-media …”. E “Alla sua terra – annotò altrove – il poeta tornerà in ogni suo libro, come ad un polo del suo esistere, come ad un «paesaggio di passaggio», come ad una dimensione doppia del suono, del borborigmo e della trasparenza reale della geografia introspettiva”. 

Proprio in Lucania, prima a Potenza e poi tra i “paesaggi di passaggio” del profondo sud, l’originaria geografia della lingua di Vito, la coinvolgente fotografia di Mario Cresci, per diversi itinerari, sembra ricordarne l’opera e la figura a qualche anno dalla sua repentina scomparsa. Vito Riviello andava dicendo che tutto il suo passato non poteva essere stipato dentro una sola valigia … Beato lui. Il mio sta tutto dentro un sacchetto di stoffa leggera ed avanza anche lo spazio per un secondo smartphone a doppia batteria e una penna stilografica a stantuffo. Rimane, certamente, il fatto che Vito è un poeta famoso, mentre io sono un emerito sconosciuto, che però ha dalla sua il vantaggio dell’età, essendo io ancora in viaggio. 

Inoltre, Vito ha fatto la vita del giramondo, così come Giorgio Manganelli, facendo il poeta, mentre io ho trascorso quasi tutto il mio tempo nelle biblioteche Universitarie d’Europa, quella stessa Europa che in questo momento è fra le regioni del mondo più colpite dalla crisi. 

Ma non credo che questo basti a giustificare l’enorme differenza tra i miei e i suoi ricordi: una misera striminzita “raccolta di appunti”, contro una capace valigia di parole poetiche di pregiata lessicografia novecentesca.

Cerco di immaginare quali splendidi ed importanti ricordi deve avere questo poeta confidenziale dalla voce strutturata nel verso: metafore elette, corride di giocosità affascinanti, discese sui Flussi (Coule) paesaggistici del linguaggio, nuotate sotto il «ponte di Mirabeau», nella «corrente della Seine», sotto il «Ponte di Garibaldi», “Cola – Cola il Tevere”, scintillanti notti tra i Murales, “solo a solo”, nell’istante dell’arrivo e sulla pedana sintagmatica di una nuova partenza, tra «i Quinti», le forze fisiche del tempo, in campi arsi dal grigio e nei siti di Dante … 

Ma non credo che questo pur notevole armamentario possa occupare più spazio della solatia torre del Kairouan (in Tunisia), delle ombre, fotografate da Mario Albergati, sul Chott El-Jerid Tunisino (sul Dauz), il Mercato dei cammelli, la foto che in Coule, accompagna la poesia, intitolata Terror (di Vito Riviello), o il parco archeologico di Cartagine – fotografato sempre dall’artista visivo bergamasco – che ci riporta alla poesia “Ba”. Un verseggiatura che riesce a chiudere il libretto delle corrispondenze, del 2005, dei due artisti: Vito, poeta lucano, scomparso nel 2009 e Mario Albergati, ex-docente del Liceo Artistico Pio Manzù (di Bergamo) che all’inizio del 2000 compì, in suggestive terre tunisine, il vero «paesaggio di passaggio». 

Io non ho mai cantato davanti a “paesaggi di passaggio”, ma Vito e Albergati insieme non si sono mai dovuti inseguire tra la solitudine della poesia e il reportage di viaggio per incontrarsi in un immaginario Coule, io non ho mai ammirato il mare o l’oceano di sabbia da una duna tunisina, ma loro due non hanno mai fatto a meno di celebrare l’autentiticità della loro espressione artistica, dilagando nella sintetica scrittura poetica e nel ferm0 immagine di uno scatto, di una pillola di mondo che si racchiude in pochi ed essenziali segni grafici. 

Mi viene quasi da pensare che Vito e Mario abbiano avuto bisogno di contenitori per l’immaginario: spaziosi perché sintetici, ma espansi per sistemare i loro ricordi, le loro metafore, le loro icone, i loro frammenti di discorso affettivo. Le loro espressioni e le loro immagini transitano sulla linea di confine tra poesia e fotografia, in limina;  come io so fare con i miei viaggi e soprattutto concentrando la forza del mio risuonare nella scrittura, così come accetto il silenzio di una fotografia, la sua autonomia dell’attimo che si conclude nell’immagine, nella resa di un fantasma a contatto. 

Io ho avuto molto tempo per riporre i miei ricordi e li ho presi ad uno ad uno ripiegandoli dal verso giusto e sistemandoli nel posto più adatto alla loro dimensione e alla loro importanza.

Deve essere andata proprio così. Tra me e Coule c’è la stessa differenza che esiste fra uno «studioso» e un doppio «poetico-fotografico», una riproposizione a me molto cara di una plaquette fototestuale, che si accorda a tutte le altre plaquette o libri fototestuali che dall’antichità del moderno si sono evoluti sino ai giorni nostri: un poeta e un fotografo, riescono a far stare in un piccolissimo fototesto – come Coule – la stessa quantità di paesaggi, di flussi, di meati, di passaggi che un filologo riesce a malapena a stipare in una capace borsetta. 

Non nego che sia una bella soddisfazione, rendersi conto che l’illustre amico Vito Riviello mi accordasse molta ammirazione e che, affidandosi alle mie responsabilità critico-filologiche, mi rendesse partecipe della sua opera. In virtù di questa fiducia, e di questo nostro appassionante sodalizio intellettuale, ho avuto modo di poter capire e collegare l’esperienza di Coule con quella di Livelli di coincidenza e quindi armonizzare quello che fino al 2005 ha fatto parte della sua enunciazione della fotografia. In quel libro di convergenze timiche e fotografiche (senza bisogno realmente della fotografia), col quale saldammo la collaborazione, lui contribuì con una mirabile raccolta di poesie ed io con una glossa a margine, che svernava le corrispondenze dei sensi e la definizione di poesia mediale. Ho deciso di tornare sul flusso di riflessioni che hanno condotto Vito all’esperienza del fototesto, da quando la Sapienza ha pubblicato un’antologia di tutta l’opera poetica edita, senza rendere giustizia del vero rapporto che aveva istaurato con la fotografia. Un rapporto che, a partire dagli anni Sessanta, dovrebbe manifestarsi come una costante storica.

Mario Albergati, Tunisia – Tozeur, motivo geometrico

Il significato della parola, le modalità di integrarla nel progetto di una sequenza fotografica, gli stili in cui rapportarci al nostro discorso e a quello degli altri, non possono più ritenersi scontati, come nel passato quando tutto questo lo si apprendeva fin dalle prime sperimentazioni di Emilio Villa, o di Arrigo Lora Totino. Oggi siamo costantemente confrontati da proposte diverse: al pari di altre dimensioni e aspetti della nostra ricerca, anche nei riguardi della parola sono indispensabili discernimento e scelte personali. In realtà, se non vogliamo lasciarci imprigionare da manipolazioni e condizionamenti, che tanto pesano sulla nostra parola, se non vogliamo restare in balia delle ambiguità di cattive esperienze di fototesto, se soprattutto vogliamo viverne tutte le potenzialità, occorre decidere sulla nostra parola e su quello che realmente può il contributo di una foto. Non si tratta solo o prima di tutto di decisioni che riguardano aspetti particolari: dobbiamo scoprirne e deciderne il significato. 

Tutto questo diventa possibile solo se si evita l’errore di stabilire in maniera aprioristica o ideologica un significato posticcio e applicarlo alla parola o all’immagine che l’accompagna. A partire da qui, è comprensibile che anche Vito si è sbagliato nel momento in cui, estremizzando i livelli di coincidenza sul piano della figurazione fotografica, ha dato vita a questa reale corrispondenza tra parola e suono come ductus per sdoganare un’immagine effimera, un’immagine che non aveva proprio bisogno di essere. Le conseguenze di tale maniera di procedere possono rivelarsi gravi e possono imprimere ferite profonde, nella vita di una libera creatività. È necessario, nel caso di Vito, porsi in ascolto della parola, permettendo di dirci luci e ombre, viaggi fantastici e scoperte ipotetiche. Potremmo allora arrivare alla profondità e alla ricchezza di significato, che porta in sé una piccola esperienza come Coule. Non si può dire lo stesso per il volume del 2008 Paesaggi di passaggio, dove l’effimera presunzione che sprigiona l’immagine, non ci permette di vivere pienamente la concentrata e sottile parola del poeta lucano. Quando c’è stata, nel 2011 (Onyx Editrice, Roma), una seconda edizione di esso, tentavo di spiegare con una postfazione che quel modo di abbinare parola e immagine era una sperimentazione da approfondire,  perché era sviluppata su dei presupposti poco chiari, che infatti si sono ben presto logorati e rimasti orfani di un sostanziale impianto cognitivo. Ma si dà il caso che questi aspetti sono passati in secondo piano, perché il testo da me proposto per quell’edizione non fu pubblicato integralmente, finendo per privilegiare l’mmagine rispetto al verso.

Kafka – che tanto piaceva a Vito – diceva: “mentre si ride, si pensa che c’è sempre tempo per la serietà”. Mentre ridevo, con la copia di Coule nelle mani, gentilmente inviatami da Mario Albergati, non immaginavo che avrei avuto così tanto tempo per la serietà. Avrei riso di più!

La filologia ricomincia sempre da capo. E quando ricomincia, si sa, non guarda in faccia a nessuno (G. Bassani). Sono talmente d’accordo! Quando ho dovuto cominciare tutto da capo nello studio del fototesto del ‘900, la fotografia non solo non mi ha soccorso, ma neppure mi ha sfiorato di profilo. Ricordiamo le cose come stanno: nel 2005, Vito Riviello insieme a Mario Albergati conclude un librettino di poesie a fronte di fotografie, denominato Coule. In questa piccola opera letteraria, accompagnata da poche foto tunisine, è contenuta la chiave per comprendere e meglio apprezzare l’opera poetica di Riviello, quella sua continua ricerca della sdoppiatura di parola e immagine (ma in fondo ho sempre sospettato che il suo intento fosse quello di concentrare entrambe nel guizzo poetico), quella sua tensione etica che in fondo rimane sempre alla base del suo scrivere, perché autentica e umana. Quella sua poesia che ferve ai punti fonetici, alle tangenti di significanti e significati, alle cuspidi dell’analogia e dell’equivalenza; quella che coglie l’evento al limite della parola stessa, senza mai pretendere che la fotografia abbia un ruolo diverso da quello di immagine filtrata dalla parola stessa. Vito era cosciente e consapevole che l’uomo ha il grande dono della parola; con essa, con i suoi verbo-immagini, lui comunica al suo simile i propri desideri, i divisamenti, i convincimenti d’ogni genere. Secondo Vito, l’animale che non ha questa grande virtù, né questa grande dote concettuale, si fa intendere coi movimenti del viaggio e della rappresentazione del linguaggio nella parola stessa. È il poeta, secondo Riviello, con la sua sacca sensitiva e la sua capacità intellettiva a posare sull’asfalto le protesi iconiche.

Precursore per la duplicità del suo campo d’obiettivo, ovvero poesia e immagine della poesia stessa, Riviello è stato uno straordinario inventore e animatore «dell’improvvisazione fonetica», della sua parola: giochi coloristici, notazioni originalissime e sorprendenti per la naturalezza e tagliente incisività, indipendentemente da ciò che i fotofonemi nel 2008 tenteranno di attribuirgli. In lui ebbe modo di coesistere quell’unità intellettiva di parola-immagine, che è alla base di qualsiasi tratto di ricerca e che intimamente stride con l’idea dei fotofonemi, che come dichiarato nel frontespizio di Paesaggi di passaggio non sono attribuibili a Vito. La stessa cosa non accade nel fototesto di Coule, il cui modo di agire difficilmente potrà mai ripetersi.

In sostanza, Riviello è tra quelli che hanno formulato con maggiore pertinenza il paradosso dell’esperienza poetica: “pieno di motivazione scrivo, nella mia stanza, solo come sono sempre stato, solo con il bagaglio infinito della lingua o delle lingue, per costruire discorsi ed equivalenze iconiche, che potrebbero accennare ad immagini figurate. E penso che la mia voce stratificata di colori, di suoni e di evocazioni sillabiche e lessicali, può incarnare altre voci, altri modi di poetare, passando attraverso migliaia di vite”. Citando a braccio i concetti che Vito mi ricordava, in lunghe telefonate o incontri fuori da qualsiasi temporalità, si comprende la centralità autoriflessiva della parola poetica, che non consegnava niente all’esteriorità di un’immagine che autonomamente potesse parlare. Per Vito creare la poesia, è dire l’intimo stesso della poesia. Ogni suo frammento, qualunque sia il suo grado di elaborazione, qualunque sia il suo livello di estetizzazione, si presenta, fin dal primo istante, come una espressione della poesia stessa. Nell’esperienza di coesistenza tra parola e immagine di Coule ritroviamo il rispetto delle distanze tra tecniche e potenzialità diverse. Insomma, qui il fotografo non ha bisogno di ricorrere ad una giustificazione fonica: Albergati rimane nel suggestivo spazio della visione.

Se dovessimo collocare Vito Riviello in una costellazione di poeti, potremmo schematicamente porre la sua opera tra quelle del realismo giocoso e iconico e dell’immaginario psichico.

Mario Albergati, Tunisia – Kairouan, cupola di moschea

È giunto il momento, senza dubbio, di riconoscere a questo poeta, incomprensibilmente ignorato o sottistimato, il posto che gli compete nella storia della poesia contemporanea. Il colpo di dadi di Vito sta nell’aver focalizzato la parola sulla figura di una strana eco, che permette così di svelare la follia del falso hasard espressivo, follia di cui Paesaggi di Passaggio, in seguito, grazie ad un’operazione di artefatto accostamento fonico e fotografico di immagini inconsistenti vorrebbe impadronirsi. Il colpo di dadi del poeta lucano è al tempo stesso rivelatore di discorso, ma anche di effettualità “doppie”, di equivoco e di fantasia inappropriata. Ripensando alla fotografia, che si spinge fuori dalla metafora di Dagherrotipo (Milano, Scheiwiller, 1978), mi viene in mente il paradosso di R. Barthes riguardo alla poesia: questa è, al tempo stesso, per definizione, realistica (mira sempre a rappresentare, sfidando l’inadeguatezza del linguaggio e del reale) e irrealista (è un desiderio che rimane desiderio). Il reale è, dunque, impossibile, irrappresentabile, soprattutto dentro quella fotografia che pretende di parlare, cantare (o emettere dei fonemi), o sostituirsi alla complessità del cinema, che è ben altro strumento.

Ma questo tentativo di uscire fuori dalla dimensione del Dagherrotipo, non è praticato da Riviello. Il poeta lucano, fino a Coule si limita a stare in una poesia che è campo stesso della poesia, ovvero lo sforzo per lo stile, il suo stile che è presente a se stesso. Lo stile è, dunque, l’esposizione propria della personalità. Come il linguaggio è un mondo, così il mondo è un linguaggio che deve ubbidire al suggerimento dell’autenticità personale. Essere originali vuol dire essere un’origine, un inizio e marcare la situazione con la propria cifra: la virtù dell’originalità non consiste nell’attirare su di sé gli sguardi con ogni mezzo, la parola del poeta non è rivolta all’esterno dell’immagine che enuncia, ma all’interno; corrisponde, piuttosto, alla preoccupazione della propria espressione giusta, alla probità nella manifestazione di sé. In questo senso tocca a ciascuno di noi curare il proprio idioma, rimarcare la propria espressione. Ed è proprio su questa autonomia che Vito, dopo Coule, s’è fatto intaccare da una forma di corrispondenza inutile e inefficace, come avrebbe detto Aldo Mastropasqua, perché erroneamente affidata ad una fotografia che si autoelegge Orfeo, paladina di una «follia sonora» che non riesce neanche a stridere o a figurare. Ciascuno di noi, e il più semplice dei mortali, ha il dovere di trovare la parola della propria situazione, cioè realizzarsi in un linguaggio, ripresa personale del linguaggio di tutti, che rappresenta il proprio contributo all’universo umano. La lotta per lo stile è la lotta per la vita della poesia e della sua affermazione. Ma, purtroppo, l’intervento della fotografia, nei Paesaggi di Passaggio, contraddicendo l’impeto jazzistico di Vito, trascina in un campo effimero e inconfigurabile la forza del canto poetico, imponendo il silenzio dell’immagine. 

Potremmo dire che Vito spinge al parossismo questo paradosso. La scrittura in lui mira sempre alla realtà, nulla di più lontano dalla sua arte dell’idea di una scrittura che dà voce ad una fotografia, o al contrario autoreferenziale per lasciar parlare qualche foto: ricostruisce momenti della foto, desinenze di figure storiche, si basa su documenti, non autorizza il gioco dell’immaginazione se non «in quadro a sé», non solo verosimile, ma addirittura veritiero, comprovato ma, al tempo stesso, non può che verificare l’impossibilità della rappresentazione sonora da affidare alla foto. Il reale sfugge, è inafferrabile, la memoria è fallace, ironica, autosintetica; la totalità del fototesto non concede all’immagine alcun suono: in Coule la testa della poesia accompagna il percorso iconografico parallelamente e rispettando l’autonomia dei due linguaggi, tornando, continuamente, sulla sua stessa phoné. Quindi, giusto al centro del suo poetare si pongono queste domande d’ordine semiologico: cosa fare col fototesto? Secondo quale livello di pertinenza? Cosa dev’essere conservato nella poesia e cos’altro deve essere affidato all’immagine, o essere considerato decorativo, nell’immagine stessa? Di questa tensione, Riviello fa la molla stessa della sua poesia. Da qui, nella sua scrittura, un’oscillazione costante, che disorienta le convenzioni prodotte forzosamente dalla fotografia dei fotofonemi: tra un eccesso di perturbazioni e un eccesso di evanescenza; tra una sensibilità esacerbata al reale, alle sue più piccole sensazioni fallaci, e una derealizzazione, un annullamento dell’immagine, o un troppo pieno dei significati, incapace di giustificare gli opportunismi della fotografia, in particolare: serie di inventari, di enumerazioni, apparentemente senza funzione. È Vito che utilizza l’illusione fonica nella sua poesia e, nel ciclo di foto di Albergati, il parallelo è molto chiaro. Qui il poeta attribuisce un valore specifico al senso dello scritto. La prima domanda che mi si pone di fronte a Coule riguarda l’origine della magica fascinazione che la parola Flussi produce; un’origine che si situa, a mio avviso, in due piccole espressioni, cariche di valenza morale e che rimandano a un che di infantile e di femminile (come direbbe Derrida, ne la pratica della differenza): Flussi di parole, Flussi di immagini, Flussi di paesaggi di passaggio nella voce di Vito e nell’immagine di Mario Albergati. È da queste due circonvoluzioni semantiche che si è snodato – e si sciolgono, per me – un mondo a cui il poeta Riviello e il fotografo Albergati si affacciano con il timore-tremore del bimbo incerto e stupito davanti ad una realtà che gli è indicibile, imprendibile e sulla quale non possono saldare il patto di una «correspondance» finita, applicata; ma sicuramente più certa di quelle che successivamente avevano la presunzione di creare connubbi tra parole e improbabili immagini. 

L’occhio vigile di Riviello (così come la sua voce che proveniva dal laboratorio fotografico degli anni ’70) è lo sguardo della mancanza di Albergati, della povertà dell’immagine, della penuria della sua foto che, accompagnando con «grigia riservatezza» il testo di Vito, dolcemente anticipa un fototesto maturo e in grado di determinare il gioco delle parti. E tuttavia s’annida in questa povertà, la possibilità – che è solo del poeta – di saper raggiungere toni di viatico intensamente concettuali, pur attraverso un confronto di modalità espressive a primo avviso non meramente formali. Ad esempio I quanti accompagnati dalla foto Tunisia (ombre sul Chott El-Jerid) recita: “A tanti tocca meno/Che a quanti/Se quanti siamo/Siamo tanti/Ci tocca meno di tanti/Se siamo meno/Pochi e non tanti/Tocca a tutti quanti/”(Coule, p. 23-25, Bergamo, ed. CGIL, 2005). 

Potendoci parlare, segnalerei a Vito stesso: “lo dico in verità, ogni desiderio mi ha arricchito più che il possesso, sempre falso, dell’oggetto stesso del mio desiderio”. E, però, continuo a pensare anche alle Laudi di Jacopone da Todi: “Chi desia è posseduto: a quell’ama s’è venduto”. Preziosa, caro Vito, questa citazione di Jacopone, perché ci dice qualcosa che è sostanzialmente vero, per quanto riguarda la tua distorta esperienza di Paesaggi di passaggio: “i Fotofonemi sono un falso possesso dell’oggetto foto, contro la poesia”. I Fotofonemi, che ti si proponevano come una fantomatica tensione della “fotografia sonora”, ti hanno in un certo senso trascinato in quella esperienza, facendola passare come una tua corrispondenza. Nella sostanza, però, mentre la tua poesia non trovava nell’immagine un corrispettivo valido, la fotografia, utilizzando il corpo del verso, l’ha strumentalizzato per esaltarsi. 

Stupisce, non poco, l’operazione di ristampa integrale, all’interno della pubblicazione Vito Riviello Tutte le poesie (Sapienza Università Editrice, Roma, 2019), di Paesaggi di passaggio e di altre plaquette analoghe, comprensive di immagini, mentre le foto di Albergati che, insieme ai versi di Vito, a mio giudizio, rappresentano un ottimo documento per valutare con attenzione le origini delle corrispondenze, sono state ignorate. 

La scrittura di Vito, insomma, fino al meato di Livelli di Coincidenza (postf. di G. Perretta, Udine, Campanotto Editore, 2006), finisce con l’essere corrisposta mentalmente dall’immagine, dato che la denuncia dell’illusione avviene attraverso gli stessi procedimenti dell’illusione. Successivamente, con Paesaggi di Passaggio collassa totalmente, perché, mettendosi nelle mani della foto, perde la sua stessa identità, affida quella che è una sua funzione precipua (il fonema) allo sforzo inesistente e discutibile della foto stessa. Vertigine infinita, senza fondo: ogni verità, conquistata sul simulacro della parola, rischia a sua volta di apparire come un simulacro di un’immagine nulla. L’universo fotografico, nel quale Paesaggi di passaggio, ci fa entrare è completamente alterato: una dimensione, tanto meno politica quanto propriamente metafisica, dell’apparente generalizzato.