Sul litigio tra “individualisti” e «artivisti»

Poeti, scrittori e trattatisti italiani, tra gli anni ‘90 e il primo scorcio del 2000, produssero ricerche collettive ispirate alla realtà delle art.comm o delle Officine senza nome (dispositivi sulla metamorfosi dell’autore): il contributo della nostra cultura artistico-letteraria che, nell’arco di circa due decenni, si è accostata a questo tema, viene qui rivendicato e ricordato in una dinamica dall’asse principale della critica, protendendo verso altri campi dell’arte e del pensiero. Il che comporta l’allargamento dell’orizzonte semiotico, necessaria premessa per chiarire le svolte della sensibilità e della riflessione che si sono verificate in Italia, e che non a caso nello stile dei collettivi di ricerca – sintesi di creatività e scienza – ebbero una sintomatica manifestazione. Ma l’originaria esperienza del “Collettivo Artistico” è stata, invece, una scossa mortificata, che ha trasformato l’emergenza in occultamento. Il contro-divisivismo di questi gruppi non rimanda solo al sentimento dell’impegno, ma ad una esperienza di negazione da parte dell’attuale classe curatoriale italiana. “Tu devi stare zitto e non devi esporre la tua storia”: il monito che promana la storiografia attuale attraverso la domanda “Dov’è l’arte?”. Solo l’incontro con la storia delle art.comm, destabilizzante e vivificante (che risale a venticinque anni or sono), può conferire a ciascuna vicenda la propria identità e generare reale esperienza. È per questo motivo che questo articolo si chiude sottolineando l’urgenza della ricostruzione di un percorso artistico di vera interazione, fondato sull’ascolto e sull’apertura ai gruppi artistici diffusi degli anni ‘90 e dei 2000.

L’urgenza di una storia dei collettivi artistici, capace di seguire i segni della loro impeccabile ma ininterrotta declinazione, il loro lento procedere sottotraccia, come un rivolo corsivo che si sottrae nell’ipogeo per poi improvvisamente riaffiorare, è stata una costante di tutto il lavoro che dopo il Medialismo è confluito nei saggi di art.com(Castelvecchi, Roma 2002) e in Media.comm (unity) … (Comm.medium. Divenire comunità oltre il mezzo: l’opera diffusa, Mimesis Milano 2004).

Il potenziale emozionale dell’arte individuale e dell’arte collettiva, dice il Medialismo, non è una qualità moderna naturale e immutabile, non è una sorta di codice biologico, ma è movimento arbitrario in divenire e della coscienza di un’antropologia artistica mancata.

L’individualismo e il corporativismo dell’arte moderna (spesso scambiata per collettivismo: vedi gli esempi storici di Enrico Crispolti e Raffaele De Grada alla Biennale del ‘76, oppure la strumentalizzazione dell’art brut, della street art, eccetera), costitutivamente estraneo al mondo reale, compensa questa sua inadeguatezza, questo suo difetto, questo dissidio tra la gestione dell’arbitrio artificiale individuale e quello collettivo, che lo sconcerta e di cui prova vergogna (vedi l’ultimo tentativo di Nanni Moretti di uscire dall’arte e utilizzare la fiction per sollevare un’urgenza popolare), con un progetto minaccioso, collettivistico, sovrastrutturale e precario, che riempiendosi la bocca della sfera pubblica tenta di usarla per affermare una forma individualistica con un altro modello super individualistico! Abbiamo visto curatori d’arte e giornalisti che si compiacevano nel consigliare al nostro provinciale sistema dell’arte soluzioni da lumbung(dei ruangrupa, Kassel Documenta 15), apologizzare l’art-brut e la street art per criticare la moda dell’artivismo, il cinismo curatoriale litigioso e individualistico, le posizioni conservativo-saccenti poco evolute (inner joke), per poi osannare il vetero sinistrismo borghese che racchiude il profilo dello storico, del critico e del curatore più cinico. L’unico curatore italiano che contiene in sé la malattia infantile del cinismo, capace di una maschera menefreghista, non curante che ha collaborato a seppellire l’esperienza storica dell’altro è proprio il modello del redattore meta-borghese della stampa progressista. In questa sua strategia culturale e determinata dalla contingenza, lo «stile gramellini», che si estende a molte testate italiote, alimenta i sentimenti di odio e di ostinato individualismo, plasmabili al determinismo del sui generis, all’artificiale, pronti ad abituarsi, a fare dell’a-posteriori un a-priori, della fuffa politichese un necessario costume.

Sarebbe ingenuo credere che l’arte contemporanea rimanga emozionalmente costante sull’apologia di un unico stile, di un’unica menzogna. È fuori discussione che lo pseudo-sistema artistico italiano è fatto di un equilibrio precario tra pseudo-conservatori e pseudo-progressisti. Le emozioni estetiche dipendono piuttosto dalle situazioni storiche esistenti, soprattutto dagli strumenti di riferimento storico di cui si avvalgono. Le emozioni di un artista o di un curatore, che criticano l’eredità di Evola o di Prezzolini, non dovrebbero sfiorare o al contrario difendere né il collettivo di Jakarta né i consulenti dell’attuale Ministero della Cultura. Insomma, non dovrebbero assomigliare né alla strategia dell’occulto né a quella del fluido, che hanno mandato in carcere Julian Assange, o collaborato a seppellire l’unica ricerca storica, dopo gli anni del Medialismo, sulle art community e sull’opera diffusa, tantomeno dar credito a chi si eleva a giudice declassatore di autenticità.

Una storia del contro-dividualismo pre e post-mediale non è mai stata scritta; è stata volontariamente ignorata dal curatorio italiano, strategico e opportunistico. Una delle lacune più deplorevoli della storia della critica d’arte italiana e delle scienze storiche è quella della volontà di occultare ciò che non fa comodo, facendone una costante specialistica, pratica lamentata già dall’affermazione del Medialismo. Lo spirito dell’occultamento è stato partorito proprio dagli Enrico Crispolti, dai Germano Celant, dalle Carla Lonzi e poi anche dagli storici dell’arte di destra, conservatori a più non posso.

L’affermarsi del mondo dominato dalla tecnica ha portato ad una accelerazione inedita che ha reso instabile questo processo automatico di adeguamento all’occultismo, così le libertà delle art.comm, costrette ad uno oscuramento irrecuperabile, hanno progressivamente smarrito la loro funzione, fino ad essere espunte da una grammatica binaria, che non contempla caratteri differenti, o contro stilizzazioni neo-situazionali. Nell’era della tecnocrazia – dice il Medialismo – è andata imponendosi una alternativa tra la somma litigiosa di individualità e l’addizione cancerogena degli artivismi collettanei, regolati dalle leggi asettiche e fredde della coppia produzione-consumo, che hanno sottratto all’essere artista collettivo (ma veramente collettivo!) la propria centralità.

L’artista collettivo dell’art-brut, della street art, o anche del collettivo non ben identificato di Giacarta (che forse avrebbe potuto prendere in considerazione che il lavoro sulle Art community proviene dal Medialismo e parte dall’operato di venti anni prima di Documenta XV) non è più l’orgoglioso Titano della resistenza pre o post artivistica, circondato da servizievoli macchine, non è più il collettivo sociale, ma veste la livrea del demo-mafioso, del servo incerto, irrimediabilmente in ritardo, in un universo di oggetti artistici che gli sono sfuggiti di mano e che quindi vanno disciolti, occultati, disintegrati nella storia recente.

È un’inversione di ruoli in cui i prodotti artistici sono stati spinti al di là del loro creatore, lo hanno reso antiquato, determinandone o ottundendone la sensibilità storica.

Oggi chi plasma non sono solo i governi di destra, ma i media dall’aspetto democratico, noi diventiamo le loro copie, la loro espressione più banale, soggetti che si compiacciono di vietare ad artisti storici di entrare nel dialogo collettivo, nell’università, nelle redazioni dei giornali: curatori che strumentalizzano la storia di Piero Gilardi come fosse un underdog appestato; editorialisti che ti spiegano che gli artisti e i collettivi neonazisti, se sono benedetti dalla NATO, diventano amanti della filosofia runica e lettori di «dittature democratiche»; posizioni politiche che per contenere l’alfiere della libertà occidentale giocano all’esotismo europeista; intellettuali funzionali al regime attuale, che ogni santo giorno si consumano le mani in applausi quando la storia mette la museruola a chiunque si esprima fuori dal perimetro della propria autoreferenzialità. Questi stessi personaggi, quando si vedono cancellati dai social media a base USA screditano con cinismo siti e post a favore di una storia rivoluzionaria sgradita; curators che approvano ogni livello di razzismo culturale, purché rivolto a chi viene, di volta in volta, dichiarato fastidioso dai lucchetti artistici di stato o di ispirazione istituzionale; mafiosi che, quando l’occultamento più repellente viene esercitato dai propri protetti, che siano cancellazioni di interi archivi o di musei del XXI secolo, fischiettano e girano al largo; storici dell’arte che tradiscono la costituzione e l’etica della comunicazione e, dopo aver legittimato l’attivismo italiota per interesse politico, oggi alimentano in maniera vigliacca ed anticostituzionale una guerra all’altrui, prendendo le parti di chi li dirige, sperando di essere coinvolti nel comando. Una bella fetta di questi soggetti discriminatori, questi bulli e controbulli, questi curatori e storici che oscillano tra il democratico e il progressistico, questi amanti della storia occultata e da occultare, questi guerrafondai a gettone, saranno ancora in prima fila ad acclamare la versione fiction dell’avanguardia proposta dall’establishment, sotto la bandiera della quindicesima Kassel, o dell’antifascismo di costume.

In questo universo sistemico, la cui cifra artistica si è allontanata da se stessa, è il potere conservatore e progressista a gestire gli apparati; in tal modo è l’identità stessa del soggetto a scindersi in una moltitudine di sé isolati e corrivi, sorpresi dal senso di inadeguatezza, dalla vergogna di Prometeo alternativo, di fronte all’irraggiungibile eccellenza delle macchine e dal plotone di esecuzione delle situazionalità popolari dell’arte contemporanea. Con i suoi esiti ipertrofici, la tecnica e le macchine, che governano l’artivismo progressista di adesso, si sono posti su un piano altro di non pensabilità (sovraliminale dice il Medialismo), inaccessibile ad una comunità storico-artistica ancorata a paradigmi meta-tecnici, artisti che arrancano in una mora irrecuperabile, incapace di riflettere, di sentire, di immaginare il sol dell’avvenire richiamato da Nanni Moretti: in questo scenario disperante – connotato da una vera e propria trasvalutazione di valori (che preciso Nanni Moretti ben rappresenta, senza ripetersi in autoreferenzialità individuali e collettive) – i sentimenti artistici sono ormai del tutto inadeguati, inidonei a comprendere l’eventuale, che dovrebbe distinguere il male fascista dalla bontà di un’espressione democratica, popolare e resistenziale. Lo schema percettivo, cognitivo e desiderante dell’artista individualista o tendente al collettivo non può che avere come esito lo scacco, lo scacco matto liberale.

L’individualismo che manipola l’apparenza collettiva ai progressisti ha, dunque, preso il sopravvento e le macchine, afferma il Medialismo, non hanno più bisogno di discernimenti che rischiano di interferire con il loro sicuro e ineffabile procedere. Non hanno più bisogno né dell’individualismo, né tantomeno del collettivismo borghese e socialista. E in un sistema artistico di pianificazione, in cui dominano le paranoie delle artistar conservative o post-artivistiche, le vie traverse delle estetiche reazionarie o rivoluzionarie diventano intrattenimento da Biennale di Venezia o da Documenta Kassel (con l’individualismo onnicomprensivo delle emergenti figure di artista-curator-producer, o col supporto del collettivo di Giacarta), superflue deviazioni dal rigoroso procedere di un mondo amministrato dall’economia e dall’estetica del capitale. 

L’individualismo degli engage italiani è divenuto un surplus delle appendici dei mass-media (politicamente strumentali), null’altro che un prodotto artistico da servire a consumatori bulimici per renderli arricchiti e garantire, quando è necessario, l’adesione acritica e, se serve, l’accettazione dello stile affettatamente collettivo. La propaganda social-nazi-media in realtà non è altro che una produzione di sentimenti in difesa del collettivismo superfluo o del media-soggettivismo egoista. Le vittime corredate di quei sentimenti artistici avrebbero accettato più facilmente la critica dell’artecazia, anziché l’opportunismo conservatore, se non addirittura con entusiasmo, il sistema di controllo con le sue teorizzazioni delle estetiche, delle etiche e delle economie fluide. In quel inedito modello dell’oltrepassamento di ogni confine post ideologico inaugurato dalla politica dopo la politica, in cui la legittimità dell’odio si ottiene anche con la gestione dell’arte relazionale, l’opzione scientifica di negare la democrazia dell’arte popolare sono decretati con la forza dei codici ambientalisti, saltando il sottile diaframma tra pensiero conservatore e progressista, cosicché il mostruoso dell’apologia della bellezza, il subliminale pubblicitario travestito da «Italia Open to Meraviglia», può meglio mascherare la corruzione morale del mondo del lumpenproletariat,   degli infami, degli ottusi e degli avidi. L’Open to Meraviglia, o il Very Bello del Ministero dell’Inutile, individuato l’oggetto da annichilire, sa come assecondare gli assetati di successo artistico a destra e a sinistra, sa come strumentalizzare la posizione propagandistica immersiva, sa come rimodellizzare la solidarietà della e nella competizione, per affascinare l’uditorio e aizzare tutti contro la mèta da annientare. Il collettivismo archivista e dell’occultamento storico si propone di cancellare. E sa bene chi cancellerà! La concentrazione sull’effetto Assange è del tutto particolare: niente la supera in intensità. 

Creare panico per denunciare il rischio di una catastrofe dell’arte militante e della sua storia relazionale, di un globocidio dell’artivismo, posto in atto da furbi redattori o apprendisti stregoni, diventa l’imperativo dominante di chi recita la severità dell’invisibile (esteticamente impegnato), la sua farsa etica. Solo l’occultamento commisurato all’enormità di quanto può accadere è, infatti, in grado di aprire gli occhi a un sistema dell’arte abitato da creativi e poeti sempre più apatici, incapaci di interpretare i segni di una catastrofe annunciata. La smisuratezza della ricerca e lo strapotere della storia che offusca la controstoria hanno, dunque, immiserito l’artista imponendogli un rapporto asincronizzato con il mondo dei suoi prodotti e delle sue stesse azioni di cancellazione. Il dislivello prometeico – così lo definiva il Medialismo – ha determinato il rovesciamento cronista-occultato, il cui esito è l’oblio di sé, la dimenticanza volontaria di un lavoro storico come il nostro (annoverandomi alla situazionalità community o mediale). In questo nuovo ordine sistemico, sempre più indecifrabile, i prodotti, vieppiù sofisticati e soverchianti, si sono appropriati dello statuto ontologico della nostra ricerca artistica e storica e hanno progressivamente esonerato o stanno esonerando l’essere sperimentazione dal sistema dell’arte colta. Il contro sistema, vittima della sua stessa attitudine a fabbricare o indebolire prodotti, istanze o eventi, impietrito dalla Medusa della storia, professatasi democratica, è diventato vergognosamente insignificante. Non c’è nulla che sia altrettanto caratteristico di noi che siamo stati emergenti e siamo rimasti emergenti, relegati nel dimenticatoio de “il sol dell’avvenire”: artisti “attuali” relegati a combattere contro l’incapacità della nostra opera di rimanere up to date sulla cresta dell’onda, al corrente con la nostra stessa produzione, costretti a muoverci con quella velocità di trasformazione che la selezione storica dei funzionari dell’informazione imprime ai nostri artefactum, nel tentativo di strapparceli di mano.

Nell’era del «divisivismo dividualistico», cui tutto è diventato opera d’arte, anche il collettivismo non può essere che il prodotto che il leviatano fornisce come franco domicilio, ovvero come il gas o gli NFT. Ed è il divisivismo che decide quando e come distribuire le nostre sofferte ricerche, consapevole che per i suoi bisogni di guerra può sempre disporre di tanti piccoli Peter Pan del male, pronti ad avvicendare nell’odio sociale i loro fascicoli con le pratiche di seppellimento delle ricerche e di annientamento delle risorse vive dell’arte e della vita.

Il paladino dell’occultamento artistico degli anni 90 e del 2000 si è mutato in grigio impiegato di un giornaletto dell’arte a la page, in funzionario acritico, colletto nero della gerarchia progressista, incapace di ascoltare l’urgenza degli artisti storici e di parole di libertà alla Nanni Moretti, a un suo agio solo tra i comodi binari dell’ovvietà, che non contemplano l’altro da sé della coscienza proletaria collettiva, il poeta diverso, se non come negativo da occultare. E l’occultabile va eliminato, va cancellato dal prospetto storico. L’anomalia selvaggia va abolita. Le vie traverse della documentazione storica allungano i tempi della vita artistica, la cui caratteristica – anche nella morte dell’arte – è (deve essere da un meccanismo disinformativo e disinformazionale imposto) l’accelerazione dell’occulto, la sveltezza della macchina mortificante, la quale ha come parola d’ordine non la libertà della ricerca, bensì la libertà dell’ingiustizia. E alla macchina dell’occulto che lo sovrasta, lo storiografo ha ormai delegato ogni potere. Fabbricare la macchina dell’occulto non è più fabbricare e agire, non è più agire nella medialità ma sopprimere, affossare il lavoro di ricerca. Entrambe le forme di attività sono cadute vittime dello stesso nemico, cioè di una terza forma di attività storiografica peggiorativa, che ha monopolizzato del tutto la prassi giornalistica. Anche l’attività del redattore dissidente, come quella dello storico spinto alla ricerca, è ridotta a vuota astrazione. L’arte di guerriglia, promossa da Celant, attraverso i suoi epigoni che scrivono sui giornaletti del costume artistico, è diventata un dispositivo di controllo, sorvegliante di macchine particolari. Le loro attitudini si sono ridotte a liberi esercizi di repressione, al gesto neutro ed essenziale di battere sul tasto invio per annullare i capitoli della Storia più scomodi!