Quando si può affermare che una mostra sopravvive a sé stessa? Quando si può affermare, innegabilmente, che una mostra è esistita come formalizzazione di una riflessione e non come ‘evento’? Un quesito, questo, che molti di noi, colleghi curatori e critici ed altrettanti art editor, ci poniamo, con una certa assiduità o, per lo meno, a cadenza stagionale, ossia quando i tempi dettati dai calendari dell’arte insistono nel nostro quotidiano.
E dunque, quando una mostra sopravvive a sé stessa? Non solo quando se ne continua a parlare o, peggio, quando entra nel loop mediocre del “purché se ne parli”… no, quelle sono altre meraviglie che è il caso, piuttosto, di dimenticare. Ma a proposito… come si fa a raccontare, in maniera profonda, una identità, uscendo dai binari, semplici, comodi e anzitempo deboli, della celebrazione? Dov’è che si annida il senso più profondo di una ricerca capace di farsi varco interstiziale all’interno di processi molto più grandi della vita del singolo?
A far affiorare tutto questo è stato, lo scorso febbraio, ART CITY Bologna 2023 la personale di Slaven Tolj Craquelure. Pavo and me, a cura di Daniele Capra ed ospitata dalle Collezioni Comunali d’Arte, in Palazzo d’Accursio, luogo simbolo della città. La mostra, la prima di Slaven Toji in un museo italiano, è stata dedicata al fotografo Pavo Urban, amico dell’artista morto in guerra a Dubrovnik il 6 dicembre 1991. Craquelure. Pavo and me realizzata e scritta per le Collezioni Comunali d’Arte bolognesi, ha visto interagire, all’interno della Sala Urbana, circa quindici opere abitanti lo spazio e documentazioni della performance time specific Bologna, February 2023 – di seguito il video –
Slaven Toji, nativo di Dubrovnik, porta avanti una pratica agente all’interno dei propri abissi interiori, in grado, però, di non estraniarsi mai dall’indagine tessuta con il contesto sociopolitico della sua terra. Le sue opere interrogano la vita tramite media differenti, dalla fotografia alla performance, dalla scultura frutto di object trouvés mai casuali, semmai causali, alla installazione spaziale. Una militanza tout court la sua, che, negli anni, ha affiancato in qualità di direttore museale o altre istituzioni legate alla cultura e all’arte, militanza tracciata sulla pelle, mediante tatuaggi, che definire meramente ‘body art’ ne squalificherebbe il senso più intimo e politico.
Non vedi una crepa, lì sulla pelle? si chiedeva Daniele Capra nel testo critico che ha accompagnato la mostra? “A partire dai suoi esordi alla fine degli anni Ottanta, fino a lavori recenti che testimoniano le vicissitudini dovute a un ictus che ha minato le sue capacità linguistiche, la pratica della body art e dell’arte concettuale sono state centrali nell’opera di Slaven Tolj, il cui lavoro è alimentato da un continuo scambio con gli eventi umani e professionali vissuti in prima persona. L’esperienza del dolore e i tormenti che sbrindellano l’esistenza segnandola con graffi profondi sono infatti i punti di partenza di tutta la sua pratica visiva. Tolj è artista in quanto essere senziente al massimo grado, capace non solo di percepire e registrare, come un sismografo, le più infinitesime variazioni di quel complesso universo tellurico che è l’essere umano, ma anche di elaborarle senza alcuna deriva patetica o finzionale.”
Daniele Capra
Ogni opera, all’interno di un processo più ampio e composito, attuato da Slaven Tolj, assume il ruolo attoriale fondante, unitamente alla presenza stessa dell’artista o di minime azioni portate avanti dal suo corpo. Ciò che la sua ricerca lascia affiorare sono quelle fessure che la Storia e le vicissitudini esistenziali hanno causato, a lui e alla sua gente, ma riscontrabili ovunque vi sia un sopruso da parte del potere. Ed ecco, perciò, che una simle scorticatura si trasforma allegoricamente in quella craquelure che si crea sulle superfici dei dipinti ad olio del passato, con il passare del tempo, della Storia e delle storie.
Ed egli non ripristina, non restaura né ricompone quei margini frutto di opposte tensioni, ma, al contrario,
Daniele Capra
rende eclatante il contrasto e il progressivo slabbramento.
La Sala Urbana, scelta per Slaven Tolj, nota anche come Sala degli Stemmi fu commissionata nel 1630 dal legato pontificio Bernardino Spada che la dedicò a Urbano VIII, papa che lo aveva reso cardinale. Le pareti della sala sono decorate da ben 188 stemmi, insegne araldiche di legati, governatori e amministratori del governo pontificio fra il 1327 e il 1744, sui cui cartigli dipinti sono leggibili ruoli e anni dell’incarico; a sovrastare le pareti una quadratura di Curti e Mitelli, celebrante il committente attraverso simboli araldici e un duello tra putti alati al centro. Una locazione non certo casuale, quanto, invece, estremamente metaforica ed in legame con alcuni dei lavori di Tolj presenti, come in particolare Untitled – del 1999 – realizzata con due bandiere croate, una delle quali non più cromaticamente vivida. Le due bandiere, annodate, sono rappresentazione di una forte presa politica rispetto a quello che può considerarsi il vero culto dell’identità personale – egotica molto spesso nella politica del potere – e che, l’artista ha portato in scena come luogo di identità personale, al contrario, perduta, offuscata, in opposizione al nazionalismo prevaricante alimentato anche in Croazia in seguito alla dissoluzione jugoslava, sentimento dilagato, poi, in Europa tutta.
Con l’opera l’artista evidenzia l’impossibilità di trovare una posizione adeguata rispetto alle logiche
Daniele Capra
della geopolitica, ma anche il suo personale il disagio di non sentirsi rappresentato compiutamente da nessuna delle due bandiere. L’opera, nel contesto della Sala Urbana caratterizzato dalla numerosa presenza di stemmi e insegne, può essere inoltre letta come un sarcastico riferimento alla folle polverizzazione dell’identità.
Ciò di cui parla Daniele Capra, la ‘folle polverizzazione dell’identità’, trattata sarcasticamente dall’artista, è quel qualcosa che permette ad una mostra come Slaven Tolj Craquelure. Pavo and me di esser sopravvissuta al momentum espositivo, di esser rimasta fedele ad un obiettivo militante. Nel senso più etico del lavoro di un artista, lontano come Tolj dalla retorica e dalla cosmetica di certe apparizioni, ogni opera presente in Sala Urbana, ha definito un perimetro concettuale al contempo netto e spurio del cui tracciato difficilmente ci si dimentica. L’esempio di una memoria dolente eppure inerme è stata rintracciabile in un’altra opera priva di titolazione, la fotografia del 1997 testimonianza della rimozione di grandi e maestosi lampadari rimossi a Dubrovnik, nella Chiesa di S.Ignazio, durante i combattimenti di guerra, poi sostituiti da anonime lampare industriali: uno dei simboli della chiesa diventava, d’improvviso, pericoloso per i fedeli come una bomba, assottigliando ancor più quel senso di appartenenza ed identità collettiva che ogni battaglia pone in bilico.
Un bilico tragico, come quando Slaven Tolj ha performato con il proprio corpo in un peep show di Zagabria insieme ad una spogliarellista, nel 1998, realizzando Community Spirit in Action. “Presentando il proprio corpo disteso del tutto inerme, coperto da un panno, l’opera evidenzia la condizione paradossale di essere un body artist la cui presenza passa socialmente quasi inosservata, mentre il corpo di donna – pur sfruttato ed eroticamente oggettivato – è, al contrario, ricercato e desiderato dallo sguardo.”
E poi ancora il corpo dell’artista a raccontare attraverso le perfomances il lutto personale per gli amici persi in guerra e quello di comunità vicine e lontane; tatuaggi che testimoniano l’importanza di avvenimenti personali e la valenza che il simbolo assume da un punto di vista sociale, politico e culturale… Dov’è che termina la vita propria di Slaven Tolj e prende avvio la narrazione artistica? In verità non v’è nessuna interruzione, non esiste un punto spartiacque, poiché, per l’artista croato, ogni elemento, ogni oggetto, azione, avvenimento, sono una concatenazione, un inanellarsi di riflessioni incapaci di sottostare ad un calendario espositivo.
Ecco, son dunque queste le mostre di cui necessitiamo. Non esposizioni ‘instagrammabili’ o mute di fronte al pensiero, ma progetti in grado, a loro modo, di far emergere valenze altrimenti difficili da enucleare e condividere, in senso empatico e comune. E Slaven Tolj Craquelure. Pavo and me è stato certamente il modo più diretto per scoprire l’artista e per ritrovare nelle sue opere, nella sua indagine, una testimonianza di questo nostro tempo, ben oltre le valenze della spettacolarizzazione a tutti i costi. La mostra bolognese, ode al curatore, ha saputo poi dialogare con lo spazio in un modo certamente perturbante, finalmente capace di porre l’impressione dinanzi all’espressione.
Slaven Tolj Craquelure. Pavo and me
a cura di Daniele Capra
Bologna, Collezioni Comunali d’Arte, Sala Urbana
ART CITY Bologna 2023
Febbraio – Marzo 2023
Progetto promosso da Galerie Michaela Stock, Vienna
Con il supporto di Kontakt Collection, Vienna
In collaborazione con
Art radionica Lazareti, Dubrovnik
Settore Musei Civici Bologna | Musei Civici d’Arte Antica