G.E.Simonetti, Gnossiennes 1 (E. Satie) 2018

Simonetti: «Rapporto da una tela assediata»

Rapporto da una tela assediata è il titolo di una mostra di Gianni-Emilio Simonetti (a Milano da Bianca Pilat). La mostra è stata arricchita da un’opera sonora che i visitatori possono ascoltare, scaricando un QR code. Esponente del Situazionismo in Italia, Simonetti è tra i protagonisti del Movimento Fluxus. È compositore, regista, scrittore di numerosi testi di impegno teorico in campo artistico, politico, gastronomico, sociale. Ha pubblicato libri che “montano” insieme “documento storico”, “riflessione filosofica”, “invenzione narrativa”, “cultura materiale”, iconografia fumettistica, residui e frammenti. In questa produzione esposta dalla Pilat, lo spazio della tela si trasforma in un oggetto sospeso di dissacrazione simulacrale, in cui coesistono collage tridimensionali, frammenti di «s/partiti» musicali, sagome di corpi, uccelli in volo, smarginature materiche, tondi cromatici e molto altro.

Non cercheremo di speculare intorno all’oggetto dell’identità d’avanguardia, res che, come tenterò di indicare più avanti, è di ardua determinazione ed è luogo di accanimenti definitori, soprattutto per quanto attiene ai limiti, non soltanto temporali, di ciò che vagamente ancora si può intendere per avanguardia. Questa visione riguarda piuttosto la genesi dell’opera di Gianni-Emilio Simonetti e delle sue numerosissime situazionalità: ad esempio, le tele attorniate da un «lueur conceptuelle». Come, dunque, sia stata interpretata, e come si sia tentato di tradurre, il concetto di morte o di persistenza dell’avanguardia è qualcosa ancora tutto da affrontare. Ed ecco allora, con l’umiltà e l’orgoglio di un compagno di ventura, che vi presento il «notre siège»: presidi che fanno soffrire e desiderare e che ci fanno sbeffeggiare, con una risata, spiritata, che vi seppellirà; appassionata, feroce, dissacrante come i panegirici di Debord e le crasse pennellate di A. Jorn. Fluxus Concert, Ready Bum Game, Festino degli dei, Dessert Fragola Mammella, Da-au Delà, Remake di Remake usciti da qualche Memorandum picaresco post-cageiano e smarriti per le vie della superficie e del colore dei fumetti. Sì, eccoli ed ecco l’assedio, détournement esso stesso, simile ai suoi attori; pittura occultata, eclissata, found footage bidimensionale, oggetto de-soggettizzato, ecologica, sospirata dai media e dall’alito di nuvole-fumose, da tutti e da tutte s-cucinata, ma accarezzata e conosciuta solo da chi l’assedia, come corpo dell’altro, come critica alla spiritualizzazione del capitale. La tela è la formula che meglio sembra cogliere la novità di questo procedimento (che ricorda tanto l’approccio alla poesia di Fortini), in cui si vedono  scomparire nell’anonimato i protagonisti materiali della nostra vicenda artistica. Costruire, all’interno e oltre il campo delle forme, un assedio a questo immane processo di omologazione del “concettuale flessibile” è l’impresa che richiama in causa la “metafisica della bidimensionalità paradossale”, giacché oggi tutto ciò che eccede è di per sé formalmente incommensurabile. Il coraggio di pensare alla Debord contro quell’ideologia del male anticomunista esige la persistenza di un’artista capace di sondare ancora la propria radice sociale e i propri umori vitali, inconsumabili nella “pseudo-opera-viva”.

L’assedio della Pittura, che sembra opulento e solare, o tutt’al più cinico, è invece una meta-congettura in “un al di là della confutazione”, in cui la tragedia dell’avanguardia è nascosta dietro le mura; le mura tra le quali ha esposto tanta gente, le mura di una Galleria-Associazione come quella di Bianca che, come diceva Debord in uno dei panegirici, “non ha altro che le sue mani vuote”. Le mani dell’artista che da sempre nel campo dell’assedio è faber e fabbrica, con le sue maniere e le sue idee: “Il ritorno della pittura, a cavallo fra il ritorno variopinto delle colonne di reduci e l’imbarazzo del ritorno della verità scientifica (Hegel) nel concetto da cui trae le condizioni della sua esistenza fenomenica, con lo stile del sarcasmo e dell’ironia (l’ambito della ipotesi Fluxus) – come dire lo Schiller denunciato alla storia per favoreggiamento del «bello» – è un accettare le apparenze di una sconfitta visibile di fronte a quel movimento che è in marcia e che non è ancora visibile. […] La tesi che stiamo sostenendo, finalmente, è quella della «pittura» come autoconoscenza di se stessi, nel senso di Lukàcs, per intenderci; una pittura in cui l’afasia tecnica non è altro che la metafora dell’alienazione nel lavoro in quanto lavoro …[…] La pittura come fatto che non è solo il di-pingere finisce così – […] per ritornare ad essere un vero e proprio «ri-dipingere», […] …Il residuo spiritualistico del fatto della pittura sfugge a se stesso nella misura in cui si tramuta in azione(Lukàcs), cioè un’autoconoscenza di sé” (G-E. Simonetti, da Flash Art n. 40, maggio 1973).

La parola assedio è estremamente ambigua. Non solo perché può designare cose molto diverse, come ad esempio lo stile di un attacco bellico, un atto conflittuale o una metafora letteraria. Ma soprattutto perché è un bene collettivo di artisti outsider, che hanno poco in comune con la loro stessa storia (nel senso che risultano fuori da se stessi), impropriamente accostati ad essa solo perché producono ed hanno prodotto, a diverso titolo, testi visivi che sono la variante del loro stesso procedimento pilota, o procedimento di situazionalità.

La pittura è, infatti, patrimonio di disseminazione, di pittori che non hanno mai dipinto e di grafici che non hanno mai emulato il vomito iperrealista: troppo spesso i pittori si credono pittori solo perché utilizzano la pittura, perfino quando è dubbio che possano considerarsi, più che pittori. È, dunque, essenziale distinguere il pittore dalla e nella critica «artificata» dell’assemblage: all’interno dell’inesplorata genesi della Zuppa e pan bagnato (…: la nozione di détournement, Genova 1974), la pittura, come i parolieri dei teatrini usa e getta, dal puro e semplice disegnatore di immagini fumettistiche altrui, si spinge nell’Assedio! Simonetti sembra perpetuamente inchiodato ad un problema, che non gli lascia scampo e che non lascia scampo a noi lettori delle pagine più dirottate del situazionismo: la minaccia della pittura che distrugge se stessa e l’assedio della paura che sostiene l’ambiguità del paradosso politico. Contro questo rischio di annientamento, l’artista-intellettuale si propone di trovare le strade che trasformano l’esperienza in opere e omissioni: il DNA di “Music for Amplified toy pianos” e Radio Music insieme a Juan Hidalgo e Walter Marchetti e di 4’33, in Nova Musicha (n. 1-J.Cage, Cramps Records,1975) forniscono informazioni importanti sulla struttura estetico-politica dei segni di Simonetti. Sembra di mostrare tra le tante cose (testi, manifesti, cataloghi, opere cinematografiche, video, scritti teorici, testi politico-sociali, cultura materiale, mostre personali, collettive, performance, concerti, incisioni audio), che i segni si spostano continuamente dentro altre comunità di segni, collegando mondi linguistici a mondi astratti e volontariamente inespressivi (è da ricordare che nel 1964, insieme a Giuseppe Chiari, realizza la mostra “Gesto e Segno” presso la Galleria Blu di Milano). Sembra che ci sia un antico detto cinese (seguito da Cage), che si erge a contraddire tutta una tradizione pre-schoenberghiana e pre-varesiana e protosatieiana: “La verità deve dirsi nell’ambiguità”. Lo citiamo perché ben si adatta all’occhio della cerchia di Cage, uno dei primi aforismi che Gianni Sassi mi ha più volte ricordato. Simonetti descrive il proto-collage dell’assedio, come un’emanazione del referente: la sua essenza è la rappresentazione iconica sfrangiata. Da un oggetto della medialità, che c’era un tempo, sono partiti dei segni che impressionano la tela: la pittura conserva le tracce quasi materiali del referente reale ed anonimo dell’icona popolare. Essa ha il suo referente sempre al seguito: la tela e il suo contesto sono contrassegnati dalla medesima mobilità politica e assembleare, proprio in seno al mondo in movimento. La tela e il suo referente sono appiccicati l’uno all’altra, membro per membro, come in certe concrezioni, il forzato è incatenato alla silhouette. Secondo Simonetti, la menzogna Fluxus della tela consiste nel fatto di essere fatalmente inseparabile dal referente, ovvero dall’essere vincolata all’oggetto grafico cui si riferisce; nel fatto di rappresentare l’emanazione del referente e del sistema collage. La tela è caratterizzata dal finale di partita e dalla gioia del referente: essa non è lo spazio della finzione o della manipolazione, ma uno spazio di verità costruita ad hoc.

G.E.Simonetti, Le utopie hanno gradini di sabbia, 2018

Simonetti parla di un assedio totale del referente. La tela assediata ruota attorno a un’immagine invisibile, sfuggente, è il sistema collage par excellence. Per sua natura l’assedio ha qualcosa di tautologico. Per quale motivo, rivendica in modo tanto enfatico lo stropicciamento della verità? Intuisce la prossima era mediale, nella quale avviene il definitivo distacco della rappresentazione dal referente reale? Il programma tracciato da Simonetti non è certo una semplice proposta di aggiustamenti interni alla retorica della neo-avanguardia, ma mira coraggiosamente ad un ribaltamento di fondo: oggetto della «pittura mediale» o della non pittura non sarà più semplicemente la forma astratta, nozione tanto fugace di apparire, in definitiva, irreale, ma la pratica formativa, con lo scopo manifesto di recuperare la Storia e minarne il senso, anzitutto il multiforme carattere che la pratica del presidio ha rispetto all’organizzazione dei rapporti sociali dell’assedio. Nell’introduzione la sua “ricerca” sui tre “logoteti” (pittura, concetto, détournement), Simonetti delinea il modello della sua idea quale disseminazione destrutturante del senso tecnico. Al di là del riferimento polemico “all’ideologia concettuale atlantista”, in questo s/modello (modalità fumettistica smodata) possiamo evidenziare: a) una nozione situazionista di pratica produttrice di senso («i limiti del mio presidio sono i limiti del mio assedio», ndr cit. da Angelo Shlomo Tirreno); b) la negazione di un progetto minimal-riformista nella produzione del senso; c) il bisogno di détournement, usato in maniera profondamente libertaria. E aveva ben ragione il mediale di osservare come l’avanguardia – predicando la sregolatezza, l’esercizio della deviazione, i diritti del concettuale e dell’arte relazionale in libertà – aveva sì elaborato modelli di laboratorio dell’eversione, ma si era anche lasciata sfuggire proprio l’esigenza di una strategia politica dell’assedio. La teoria dell’arte relazionale, se non vuole risolversi in una sterile pratica di direzione casting di best sellers in concorso a Cannes, deve inserirsi in una progettazione sociale, che delinei un “amor mio che non muore” nell’organizzazione del mondo umano (non segnico e segnico).

Le funzioni in una mostra, secondo l’analisi sociosemiotica, possono essere molto semplici. Il senso delle responsabilità tuttavia va dichiarato e precisato in partenza. Nella mostra di G.E.S., dalla carissima Bianca Pilat a Milano, denominata Rapporto da una tela assediata, le funzioni principali dei materiali esposti sono due: la trasgressione e la proceduralità critica. Uso questi due termini di approccio nel senso dato dai saggi sul Medialismo, ma provo ad applicarli seguendo una traccia critico-semiologica. Lo stesso G.E.S., nel presentare Memorandum 3, ha potuto ri-pubblicare un lavoro del 1968 che in una delle strip situazioniste dice: “La rivolta eleva la jouissance a imperativo materiale”. In effetti Censor, l’eroe agente che tanto ha colpito Simonetti, si presenta subito con il simbolo del nostro tempo, della nostra appassionata, ma irresponsabile proiezione nel futuro (si fa per dire), simbolo della nostra febbre di scoprire la verità, del nostro correre con passione ma spesso alla cieca, simbolo infine della nostra sfrenata e incontrollabile volontà di arrivare là dove la curiosità autoriale ci spinge, incapaci di renderci conto che la meta non solo può essere un’illusione, ma anche un baratro. Non si tratta, è bene subito chiarire, di una visione nichilistico-pessimistica del mondo dell’arte contemporanea, piuttosto di una visione realistica che in questo caso il protagonista di Simonetti – il terzo incomodo dopo l’altro rivoluzionario da sé – rappresenta la perfetta spallata all’infezione creativa del presente e la realtà dell’artificazione che è «soggetto a rianimare l’ordine simbolico». Certo la mostra di S. non rappresenta tutt’intera la realtà del nostro tempo artistico – difficilmente un singolo memorandum riesce a testimoniare la variegata molteplicità del percorso dell’ideatore de La Gola (per dirne una) – ma di sicuro ne rappresenta un aspetto: la paradossalità dell’intellettuale radicale, di fronte alla bugia secolare dell’arte moderna! 

Abbiamo detto – altrove – che solo approfondendo e intensificando una propria fase concettuale e istallativo-mediale l’artista contemporaneo riuscirà addirittura a riconoscersi criticamente e politicamente ponendosi così sullo stesso piano del “qualcosa in più artistico”, ovvero il valore trascendentale dell’opera. Per raggiungere questo obiettivo, senza annegare nel politichese ad oltranza, l’artista, salvaguardando quanto più può della sua condizione dentro e fuori dal sistema, deve diventare sempre più consapevole dei propri strumenti e dei limiti del proprio medium e al tempo stesso sempre meno rigido circa l’assolutezza ideologica; insomma sempre meno dogmatico e specialistico. Con ciò non voglio dire che vince J.Koos e D. Hirst su H. Haacke e D. Buren, ma non voglio dire neanche che questi ultimi due hanno trovato la strada definitiva; così come non l’aveva trovata Gillo Dorfles che lavorava come i francesi post-strutturalisti contro la dialettica; o Lea Vergine che passava dalle simpatie per V. Majakovskij a quelle per Cioran, dall’apologia del femminismo più liberal alla simpatia per ipernichilisti più nichilisti dell’ultimo beat «sulla strada» per Big Sur, etc … L’accusa di arretratezza, che frequentemente viene rivolta a Rosalind Krauss o ad alcuni comportamenti baronali della critica istituzionale, in parte è giustificata dallo stesso Assedio della Pittura.

Se ci si pensa bene e la tradizione dell’avanguardia, soprattutto dell’arte concettuale proveniente da Apollinaire, che tutti noi abbiamo amato e su cui siamo cresciuti all’indomani del ’68, è stata la più chiusa alla storia e a tutte le attività del pensiero e dell’espressione: “l’illusione dell’arte concettuale fa la scelta di fare non-arte dando però l’impressione di fare arte. Una pura illusione perché alla fine si torna sempre alla forma e all’autoreferenzialità” (Simonetti 2016). Qualche tempo fa era di moda parlare di morte dell’avanguardia; poi questa moda è passata: “l’arte-vita ha banalizzato la specificità dell’arte”; “H. Ball si veste di cartone e recita poesie … Duchamp inventa la regressione dell’opera all’oggetto … la regressione nell’oggettualismo strumentalizza il concettualismo, l’autoreferenzialità e il rapporto feticistico con l’Istituzione” (Simonetti, 2016). Forse il più attendibile e acuto critico della follia pseudo-avanguardistica è stato ed è in Italia, e non solo in Italia, Simonetti; secondo il quale la critica è una co-disciplina che ri-crea tutti i fenomeni di cultura come sistemi di segni critici: attraversa quelli riconosciuti unanimemente sistemi critici, come la forma visiva e quelli che non vengono considerati tali. La nascita del medialista moderno, dell’artista che condivide saperi critici e nuove costruzioni nei new media, è sembrata tempo fa coincidere con la morte dell’artista d’avanguardia; come se secoli prima Leonardo o Galileo o altri non avessero dimostrato ampiamente, che un dualismo del genere non dovrebbe esistere. È tipico definire una forma o addirittura un’intera esposizione muovendo dal contrario, per cui quando si pensa al situazionismo, lo si colloca immediatamente fuori dalla sfera dell’ordinario, ossia lo si concilia con questo sulla base di un discrimine: è situazionista quanto non lo è, quando sta, esattamente, al di là di questo. Nell’epoca in cui la tecnica consente di rendere qualsiasi cosa riproducibile, sottoponendola così alla padronanza, e dunque oscurandone il suo fondamento, la sola immagine della forma situazionale è veicolata dallo splendore mortifero dell’icona, ossia dalla scomparsa dell’immagine, cui però corrisponde l’illuminazione di un segno di cui il segno rappresentativo è garante, attraverso uno stato strategico di apparenza. 

L’opinione comune dell’età para-concettuale, dunque, esclude l’icona popolare dalle pratiche correnti e lo relega a un momento posto nel “simulacro della forma”, fuori dalla coscienza, consentendo, non di meno, la partecipazione al suo enigma mediale, al contraddittorio comunicativo. Quantunque il simulacro, in quanto espressione del profano popist, appaia inesorabilmente distaccato dall’autentico – e proprio in virtù della separazione risulta essere a questo congiunto – la forma artistica corrisponde esattamente con l’essere nel quotidiano. Formulare l’ipotesi che la forma di rappresentazione sia il quotidiano non è certo un azzardo, giacchè, per poter formulare l’ipotesi, bisognerebbe giungere a distinguere con esattezza almeno un termine, bisognerebbe fissare (accettando la prospettiva dell’irrapresentabilità e dell’ineffabilità del pittorico) la norma, e dunque il fondamento, del simulacro.

G.E.Simonetti, Cuciture, 2018

Rapporto da una tela assediata è il titolo della mostra di G.E.S. (presente a Milano dal giorno 5 novembre presso Bianca Pilat). La mostra è stata arricchita da un’opera sonora che i visitatori possono ascoltare, scaricando un QR code. Esponente del Situazionismo in Italia, S. è tra i protagonisti del Movimento Fluxus. È compositore, regista, scrittore di numerosi testi di impegno teorico in campo artistico, politico, gastronomico, sociale. Ha pubblicato libri che “montano” insieme “documento storico”, “riflessione filosofica”, “invenzione narrativa”, “cultura materiale”, iconografia fumettistica, residui e frammenti. In questa produzione esposta da Bianca Pilat, lo spazio della tela si trasforma in un oggetto sospeso di dissacrazione simulacrale, in cui coesistono collage tridimensionali, frammenti di «s/partiti» musicali, sagome di corpi, uccelli in volo, smarginature materiche, tondi cromatici e molto altro. Il tutto rappresentato ed orchestrato con una filosofia del montaggio, che fa emergere la «fumettografia pittorica assemblata», capace di confrontarsi con una provocatoria e dissimulata leggerezza (una leggerezza diversa da quella declinata da Calvino).

Porsi delle interrogazioni di questo genere: che cos’è il montaggio? Qual è la sua legge visiva e il suo presidio formale? Significa inevitabilmente spostarsi verso un discrimine sottile, troppo esiguo, incapace di garantirci la pesantezza circa l’esistenza di un’autentica dualità tra regia e medium, reale e effigie, critica mediale e sberleffo politico. Non crediamo, insieme a Simonetti, che alle domande formulate si possa dare una risposta: è possibile soltanto determinare un prolungamento dei punti di domanda intorno alla forma artistica; ossia, passare dalla “sintomatologia dell’arte”, dai problemi della forma, sopra una serie di abissi o, se si vuole, permanere sull’abisso e nell’abisso dell’artificazione, perché in fondo le cadute, come dice A. Shlomo Tirreno, sono costanti attraversamenti di superfici. Questa dinamica ortocentrica, a nostro avviso, è ben visibile nell’opera e nel pensiero dei rebus simonettiani, per i quali il carattere segreto, invisibile va riscontrato attraverso un interminabile confronto-investigazione-viaggio in pratiche come quella di Censor. Infatti, in occasione della vernice di Rapporto da una tela assediata, è stato pubblicato Memorandum 3, libro d’artista che fa seguito ad altri memorandum autoprodotti e moltiplicati. La biografia intellettuale agisce e ha agito; così il percorso e la storia di Simonetti è collaudato: In contatto con George Maciunas, fondatore e teorico di Fluxus, tra i più politicamente impegnati del gruppo, sarà promotore di numerosi eventi e concerti Fluxus in Italia. Influenzato dalle ricerche di John Cage, inizia a comporre “Mutica (Musica Muta)”, serie di diciassette partiture visuali. La sua partitura “ANalyse du vir.age” (1967) sarà inclusa nel libro-catalogo “Notations”, curato da John Cage e Alison Knowles e dedicato alle sperimentazioni nel campo della notazione musicale (vedi e confronta con: John Cage’s “Notations” su Monoskope]. Nel 1965, con Gianni Sassi, Daniela Palazzoli e Sergio Albergoni, apre la casa editrice ED912, con cui pubblica la prima antologia italiana di testi dell’Internazionale Situazionista (vedi: pref. di Carlo Romano a “Agguati”, di Simonetti) e si fa promotore della conoscenza di Fluxus in Italia. Nel 1966, con Gianni Sassi e Daniela Palazzoli, fonda “B°t” (citata anche come “Bt” o “Bit”, rivista dedicata alle arti visive). Dal 1971 è direttore editoriale della casa editrice Arcana. Dei primi anni Settanta è l’interesse per la sperimentazione di regia teatrale e cinematografia d’avanguardia (Teoria e pratica dell’architettura spontanea, 1971; Morire a Parigi, 1974). Negli stessi anni partecipa all’esperienza della Cramps Records di Gianni Sassi, per cui dirige la collana “Nova Musicha” (Valerio Mattioli, Superonda. Storia segreta della musica italiana, Baldini & Castoldi, 2016). Nel 1978 avviene l’incontro con Demetrio Stratos e il gruppo musicale Area, per i quali sarà ispiratore e autore di testi e copertine. Negli anni dedicherà alcuni saggi alle ricerche sulla voce di Demetrio Stratos. L’interesse per la cultura materiale lo porta a ideare la rivista “La Gola” (“Mensile del cibo e delle tecniche di vita materiale”, di cui uscirà il primo numero nel 1982). È autore di numerosi libri mescolando documentazione storica, riflessione filosofica, invenzione narrativa e cultura materiale. Alcuni verranno fuori anonimi, o col soprannome Katharina di Nieuwerve, pubblicati da DeriveApprodi. Il suo interesse per le ricerche in campo psichiatrico lo porta a creare un “Laboratorio di arte terapia”, presso il Centro di Psichiatria del Verbano, in provincia di Varese. Le riflessioni maturate attorno a questa esperienza sfoceranno, tra l’altro, nella pubblicazione del libro “La funzione sociale dell’arte e la follia: medicalizzare l’alterità”. Ha pubblicato anche con altri pseudonimi, tra i quali, Rara Bloom, Giuseppe Bessarione e, in particolare, Bernard Rosenthal (ci riferiamo sempre ad Agguati, Genova, Graphos, 1992).

Se è vero che l’operato pittorico di Simonetti presenta notevoli misteri e difficoltà è interessante vedere in che cosa essi esattamente consistano e se si riducono a quell’assediamento di cui ebbe a parlare la gazzetta dell’IS, a un bizzarro gioco assemblativo che si dilettava sui segni inclusivi, paradossali, inconsueti e consueti, tali da sconvolgere ogni rassegnata abitudine retorica e ogni schema storico e poetico distintosi nel campo della stessa neo-avanguardia. E anzitutto mal si concilierebbe una siffatta voluta astrusità di metalinguaggio, di contenuti e di metri, con quella leggerezza che fa sorridere la struttura interiore della levità: levità di cui vanno chiariti la misura e il tenore del montaggio, poiché essa contraddice la complessità volontaria dei testi simonettiani, che anzi ce ne danno il senso autentico, indicandoci la via politica e formale da percorrere per arrivare a comprendere e giustificare il fluxussiano artistico. Questa via passa necessariamente attraverso il giudizio sul contenuto stesso del «quadro assediato».

In chiusura è il caso di ricordare qualche riflessione, a proposito degli astri, sensibilità che Simonetti merita: per vedere le stelle ci vogliono altre lenti, le lenti del cannocchiale di Auguste Blanqui. E la vera sofferenza di chi è costretto ad assediare e regolare i conti col disastro della sinistra post-moderna; è la sofferenza del presidio dagli occhi di falco, costretti dalla storia a essere ciechi e a conoscere il futuro senza sperare di avere un futuro. Il dolore di Blanqui costretto al silenzio dell’Inquisizione!

“Ma veramente lo sapete cosa vuol dire assedio? Vuol dire essere costretti a vivere in un conflitto irrisolvibile. Per forza. Si comincia a perdere l’orientamento e si finisce nello smarrimento, nella confusione, nell’assedio perenne!”.

“Ve l’ho detto, tutto dipende da dove postate il cavallo”.

“Che dite? Non riesco a capire con questa concentrazione, la scacchiera vi sembra una costellazione? Costellazione? Chiamatela costellazione. Sapete che cos’è una scacchiera? È una prigione capovolta. La vita è leggera come la nuvola di un fumetto. Mi sentite? Scacchiera-Costellazione-Assedio. La pittura è leggera come una qualsiasi altra merce. Mi sentite? Scacchiera-Assedio-Pittura-Forma. Capito! Forma … Forma … Assedio”.