io sono completamente dalla parte del linguaggio che circonda le cose, di ciò che ci sta sotto, di tutto ciò che le nutre, di tutto ciò che instilliamo in loro.
Georges Perec
Simone Ciglia, curatore della mostra, nel testo che la accompagna ci parla di come le opere in mostra siano cose defunzionalizzate, frutto di una thing practice (pratica della cosa), così che da loro si possa aprire una dimensione umanistica. I due autori, prosegue Ciglia, partendo entrambi da “un’attitudine che trova nella dimensione oggettuale il nucleo generativo” installano diverse opere nel capannone di Marco Ghigi: Giovanni Termini presenta Ostacoli (2019) una serie di impedimenti fatta da un dissuasore cordonato, tubi innocenti, una transenna, travi e dossi, tutti virati in celeste che invitano a un percorso da compiere, e Inclinata (2009), 9 morali da edilizia, legati fra loro da nastro americano rosso e poggiati al muro; Jason Dodge due coperte della serie della tessitura di un filato lungo la distanza che c’è tra la crosta terrestre e lo spazio sopra il tempo metereologico (2013), Untitled (2021), una coppia di lampadine poste una di fronte all’altra e Diamonds inside of an owl, un gufo tassidermizzato che contiene nel ventre un diamante.
Questa coseità nelle arti ha rivestito nel tempo diverse funzioni e ha avuto ruoli marginali o significativi a seconda delle diverse sensibilità che attraversano le epoche e i luoghi. Percorriamone brevemente alcune tappe emblematiche del ‘900. In Guido Gozzano ne i Colloqui del 1911 appaiono ironici versi dove le stoviglie e tutte le buone cose di pessimo gusto rendono la malinconia di un’epoca destinata ad estinguersi con l’avanzare della modernità e del modernismo, esprimendo la crisi del soggetto come se l’Io esorcizzasse il proprio destino di perdita di identità e di morte ancorandosi ad una wunderkammer del passato che fu. In Georges Perec, ne Le cose del 1965, con il boom economico che si manifesta nel consumismo, il dominio dell’oggetto invade la vita borghese promettendo una asfissiante comunione del soggetto con le cose dove la proiezione della felicità nel possesso straborda e mette in crisi un Io che si appiattisce in aspirapolveri, barattoli di sugo e tutto ciò che l’immagine pubblicitaria reclamizza. Con l’avvento del postmoderno invece, l’oggetto si fa pura merce e entra sottopelle nel soggetto, il nome del marchio incalza la materia, l’immaginario che sottende si fa identitario, e il principio di realtà si scolla dagli oggetti e affievolisce il mondo nel fumetto di se stesso come si vede in Fight Club di David Fincher che, nel 1999, ci mostra un Io reso schizofrenico e bipolare dalla globalizzazione che può sopravvivere perfino al proprio suicidio come fosse un supereroe. Un ultimo gradino rivoluzionario nella storia di questo rapporto si avvera con l’irruzione digitale dei nostri anni, dove l’oggetto si fa veicolo di accesso ad un mondo parallelo, creando un altro da sé e la sua materia, il silicio dei tecnologici oggetti rettangolari, non è corpo ma solo funzione di superficie atta alla smaterializzazione del mondo nella sua immagine a cui il soggetto può partecipare solo come avatar mentale.
Corpo assente, morte svanita, identità svuotata, la storia dell’oggetto ha trascinato il ‘900 in un processo di moltiplicazione e evaporazione dell’Io in una nebulosa di particelle che si dissolvono sulla superficie delle cose in maniera sempre più vorticosa. L’arte attraverso la sua sensibilità da sempre ha svelato il proprio tempo, i suoi mutamenti e le crisi che queste comportano. Un punto da cui partire per addentrarci nella mostra bolognese è ricordare quando Allan Kaprow, con Yard, nel 1962 presso la Martha Jackson Gallery di New York, ha mostrato l’invadenza fisica che l’oggetto stava assumendo riempiendo il cortile della galleria di copertoni d’automobile fino a renderlo impraticabile. L’environment consisteva nel riportare il pubblico attivo nell’ambiente saturato dalle cose. Ma cosa è oggi, a distanza di 60 anni esatti, questo territorio melmoso, luogo del confronto tra soggetto e oggetto, per la generazione di Jason Dodge (1969) e Giovanni Termini (1972) travolta a metà strada dalla rivoluzione informatica?
Francesco Orlando nel suo Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti del 1993 sintetizza e poi si addentra in chiave psicanalitica su come affiora la crisi dell’Io contemporaneo anche in questa relazione con le cose: «Come la letteratura accoglie un ritorno del represso da cui è contraddetta una repressione morale, e un ritorno del represso irrazionale da cui è contraddetta una repressione razionale, così supponiamo che accolga […] un ritorno del represso antifunzionale da cui è contraddetta una repressione funzionale».
Allargando il discorso alle arti visive, concentrandoci su questo ultimo represso dell’oggetto antifunzionale e dell’artista posto al di fuori dalle dinamiche del sistema produttivo su cui si fondano le democrazie contemporanee, troviamo che quando cessa l’operatività del patto sociale che li coinvolge, l’oggetto sorprenda l’alienazione funzionale che il sistema impone rivitalizzando il soggetto che lo fruisce. L’autore, liberando dall’omologazione quotidiana l’oggetto, avvera un ritorno al grado zero della materia della cosa, così da creare uno spazio di presenze generanti l’otium, la sospensione del tempo funzionale.
Ancora Orlando sull’antifunzionale: «Ne andava del rapporto stesso degli uomini con il mondo fisico da essi assoggettato […]. E ne andava del rapporto stesso degli uomini con il tempo, che impone le sue tracce alle cose». Oggetti che rinnovandosi nella semplicità della loro forma in dialogo con il titolo che li nomina aprono a storie vissute, a pezzi di tempo documentato, a reperti di relazioni, a attestazioni di presenze nello spazio, ad argini di esperienze alla morte.

Emblematiche le opere di Dodge, ecco il titolo delle due coperte di colore blu in mostra: Ad Alvorada, in Brasile, Vera Junqueira ha tessuto filati di lana del colore della notte e della stessa lunghezza della distanza dalla terra a sopra il tempo metereologico e A Torino, Cristina Donato ha tessuto un filato di lana merino che è del colore della notte e di una lunghezza pari alla distanza dalla terra a sopra il tempo metereologico. L’autore chiede a due amiche di tessere una coperta ciascuna con un diverso filo blu, lungo sempre la stessa misura, la distanza dalla crosta terrestre fino alla troposfera. Nel titolo oltre a chi ha tessuto appare anche il luogo dove l’azione è accaduta e l’anno dell’avvenimento. Come se si creasse, attraverso l’artigianato, un reperto significativo che ridà senso a un pezzo di tempo, a un luogo e a una persona. Il gesto, il tessere, si rinnova e riscopre il senso del fare cose costruendo una coperta paradossalmente inutilizzabile, tenuta ripiegata e legata da Dodge come oggetto d’esposizione, asciutta forma nello spazio, nuovo ready made portatore di senso. Ancora Ciglia nel catalogo: “attraverso questo dispositivo testuale, caratteristico del paradigma concettuale, lo spettatore ha accesso mentalmente a uno spazio altrimenti esperibile solo nell’esperienza di volo aereo, uno strato di significato che proietta il manufatto oltre la sua materialità”. Espropriato dalla sua funzione l’oggetto diventa cosa che attraverso l’arte acquisisce un nuovo senso per cui vediamo oggetti inanimati umanizzarsi in tracce lasciate da persone viventi assenti.
Entriamo anche in Inclinata di Termini, dove i morali, travetti impiegati in edilizia per creare l’orditura dei tetti in legno, qui ironicamente si appoggiano alla parete e anziché sostenere un peso vengono invece sorretti in un equilibrio sospeso e precario. Impreziositi da una finitura di una testata in marmo di Carrara l’ironia si moltiplica quando si scopre che uno dei nove è in realtà dipinto di bianco finto marmo. Morali inutilizzabili e forse nemmeno più morali, una sensazione di fuori luogo straniante li assorbe, e il travetto diventa se stesso assumendo una identità propria, distorsione autentica di una cosa che apre uno squarcio sul mondo convenzionale.
L’oggetto inutile ha la fortuna di rimanere materia potenziata, presenza viva nello spazio d’azione dell’uomo, ritorno miracoloso di un confronto sempre più raro nell’era dell’iperreale. Negli anni sessanta abbiamo visto che le gallerie d’arte si sono riempite di oggetti di consumo, oggi invece, di fronte all’assalto della smaterializzazione digitale retinica, si svuotano i capannoni dalle merci funzionali della produzione per lasciare il posto a cose defunzionalizzate ripresentando la gioia dell’umana presenza del soggetto nel mondo fisico. Il KAPPA-NOUN (capannone in dialetto bolognese) così allestito viene lasciato percorrere in funzione degli oggetti, tra cui gli ostacoli celesti pensati da Termini, cose come inciampi distribuite in maniera essenziale e minimale, che costringono lo spettatore a compiere percorsi per ritrovare il tempo dell’otium, del passeggio intelligente, ricomposizione perturbante di un corpo in presenza in uno spazio attivato dalla verità delle cose a cui non si è più abituati.
Madama Butterfly dalla tradizionale veste estrae degli oggetti mostrando a Pinkerton la sua dote: dei fazzoletti, una pipa, una cintura, uno specchio, un ventaglio, un vaso di trucco, un astuccio lungo e stretto. Ciò che è nascosto negli oggetti e che Pinkerton non vede sarà l’arma del suo suicidio, la lama custodita nell’astuccio con cui già il padre si uccise facendo harakiri. Dodge e Termini ideano un linguaggio che nasce a partire dall’oggetto e si propaga in noi sfoderando cose che annullano generosamente il loro Io per permettere all’Altro di tornare umano: ci ridonano la presenza di noi stessi di fronte alle cose. L’oggetto culturale pieno di senso di Madama Butterfly si ripresenta oggi sganciato dalla società in maniera silenziosa, stralunata e a volte ironica, nel nuovo senso dell’antifunzionale che ci turba e risveglia nel qui e ora di San Lazzaro di Savena nel capannone di via Imelde Lambertini n. 5.
