Tommaso Ottonieri, L'arte plastica della parola

Sempre e solo la polipoesia

“In ultimo, ma non per importanza, ricorderemo sempre e solo la poesia”.
La duplice genealogia dell’ipertrofico e del Gèodi: la monografia di Giovanna Lo Monaco dedicata a Tommaso Ottonieri …

Viviamo nell’epoca della parola fluida, sfuggente. La cultura delle persone e del corpo medio, di tutti i giorni, si forma attraverso la lettura degli emoticon a grande diffusione. Il nostro occhio, di conseguenza, ha trovato un’altra dimensione della parola visualizzata, oltre quella offerta tradizionalmente dalla società pre-digitale: “la parola, come avverte il Medialismo – oggigiorno – “si fa vedere”, più che leggere”.

L’avventura del pensiero occidentale comincia quando la riflessione greca mette in luce l’autonomia della parola umana. Tocca all’uomo creare, se non la realtà della natura, almeno il senso di questa realtà. La retorica e la sofistica greca attestano che il mondo in cui viviamo è un mondo della parola, che l’uomo con la sua abilità può formare a suo piacere, per illudere gli altri. Nella modernità, Walter Benjamin ha sottolineato, attraverso un saggio sul Narratore di Leskov, che questa proprietà e autenticità ha subito un cambiamento sostanziale. A partire da qui il senso comune è diventato un cattivo maestro, equivocando le sostituzioni e pretendendo di mettere la vista al posto della lettura. 

Il lettore non si spaventi, dunque, e soprattutto non pensi, leggendo il titolo di questo volume di Giovanna Lo Monaco, ad un trattato storico-estetico. Il suo tentativo vuole essere una guida, il più possibile piana ed aperta, alla lettura dell’opera di Tommaso Ottonieri (al secolo Tommaso Pomilio), che va dall’emergere dell’Ipertrofico (1980), allo stabilizzarsi di Gèodi. Tommaso Ottonieri, che probabilmente scelse questo pseudonimo prendendolo dalle Operette morali di Leopardi, nasce ad Avezzano nel 1958. Nel 1978 fonda il collettivo di scrittura Kryptopterus Bicirrhis, assieme a Gabriele Frasca, Lorenzo Durante e Marcello Frixione e, a partire dal 1989, partecipa ai lavori del Gruppo 93. L’esordio è del 1980, con un poema in prosa dal titolo Dalle memorie di un piccolo ipertrofico; del 1984 è la raccolta Coniugativo, nella quale prosegue la sperimentazione sul valore sonoro del segno verbale, già iniziata con l’opera prima;  la sua «produzione commerciale», si colloca tra gli anni Ottanta e Novanta ed è centrata sulla rappresentazione dell’immaginario mediatico e merceologico, nella sua incidenza sul soggetto contemporaneo. A tale ambito appartengono il romanzo Crema acida (1997), la raccolta di prose L’Album crèmisi (2000) e la raccolta di poesie Elegia sanremese (1998). La sua produzione poetica è riassunta quasi per intero nel volume Contatto (2002), mentre nel 2007 viene pubblicata Le strade che portano al Fùcino, una raccolta di prose scritte a partire dal 1987, accompagnate da fotografie scattate dallo stesso Ottonieri e da un CD, contenente il reading di alcuni testi sulle musiche elettroniche di Maurizio Martusciello.

Un esempio significativo, attraverso l’uso delle corrispondenze che associa parola e immagine, suono e lessia, corpo dei linguaggi e strutture compositive di poesia e foto, è costituito dalla collaborazione con l’artista Pablo Echaurren, i cui disegni accompagnano le poesie di Elegia sanremese, nonché la traduzione della Ballata del vecchio marinaio, pubblicata da Ottonieri su «Il caffè illustrato» nel 2001, cui si aggiunge il disegno realizzato per la copertina del romanzo Crema Acida. Si segnala, inoltre, il contributo di Ottonieri a L’arte è il suo virus: quattro passi nella lingua di Echaurren, pubblicato nel volume I libri di Pablo Echaurren (2001). In ambito critico e teorico, oltre agli studi di argomento prettamente letterario – tra i quali si deve ricordare perlomeno il volume La plastica della lingua. Stili in fuga lungo un’età postrema (2000) – Ottonieri si è occupato del rapporto tra la letteratura e le altre arti in diversi articoli e saggi, ad esempio Cinema come poesia, o Bordi di un’Immagine (2010), e ha curato il volume collettaneo Bassa fedeltà (2000).

Book Cover Mockup

Fra guardare e leggere, la differenza esiste. Si può leggere una poesia, così come si può attraversare con i sensi un romanzo: anche senza sentire l’odore di una stampa ai sali d’argento, noi assimiliamo, proprio senza saperlo, la cultura letteraria e l’educazione della nostra epoca attraverso le immagini, che noi stessi sappiamo costruire durante la lettura di una pagina scritta. Le suddivisioni che abbiamo pensato, tra poesia e prosa, possono apparire di puro comodo, ma non lo sono. La prima fluidità verbale vuole trovare un superamento estetico alla realtà ed educare chi la legge e la sa visualizzare, nel senso della realtà estrema odierna, più o meno memoriale o moderna. La seconda ci mette nel giro delle vicende letterarie quotidiane, dei piccoli e grandi fatti della storia odierna, e ce ne dà un giudizio di ordine morale, sociologico o pseudo-narrativo. Se oggi si vede la necessità di un libro nei libri, forse questo accade perché la tecnica – fino a qualche anno fa elemento inscindibile nel giudizio estetico sull’immagine del verso e sulla versività dell’immagine – permeava i trattati, più o meno poderosi, non lasciando il più piccolo margine di respiro, al di là della sperimentazione, all’intelligenza percettiva, alla sensibilità di chi voleva capire, e in sostanza leggere, un verso o un frammento di prosodia. Non è che questi libri adesso siano inutili. Tutt’altro, hanno e sempre avranno una loro precisa funzione storiografica. Visto che Tommaso Ottonieri per ottenere il suo nome d’autore, la sua autorialità distaccata dal padre, ispirandosi ai pensieri di Giacomo Leopardi, possiamo azzardare, attraverso le parole dello stesso poeta recanatese, che il suo riconoscimento letterario-poetico nasce dal carattere «degli uomini e attraverso la loro condotta in società». I “vibratili” testi di Contatto, “sovraesposti” nella raccolta del 2002, oltre a dare conto dell’intera produzione poetica di Tommaso Ottonieri si offrono alla «pagina fuori dalla pagina», nel senso che a partire dalla Galassia Gutenberg si presentano anche come partiture, segmenti, ipertrofie, farmaci, frammenti di veleni, insidie, dandosi come montaggio metastabile, work-in-progress all’origine di una nuova riscrittura, tra il bianco della versività risonante e il nero della trama «formulaica», la narrazione e l’abisso sfrondato. Questa macchina di testualità narrabile sfoga il prosimetro e trattiene l’anonimato borbottante, nella dissolvenza mediale di merci e materia, nella generosità di un tradimento all’ortodossia “dell’apparato di cattura” (Deleuze e Guattari) né troppo postmoderno né troppo neomoderna, in un contatto che è un nuovo campo elettrico, un nuovo «frutto nell’ugola che strasècola». 

I tempi ci sembrano dunque adatti anche ad un discorso di ordine critico e culturale, così come si prodiga a fare Lo Monaco. La postremicità è una disciplina espressiva post-catastrofe, come dice l’autrice, e a volte può essere un test iper-allegorico; perciò è naturale che rechi con sé un peso non indifferente di valori artistici, da quelli di ricerca a quelli estetici ed etici, divulgabili in maniera fertile e acuta. Non bisogna dimenticare, come abbiamo subito avvertito, l’epoca in cui viviamo: imagologica e regolata dall’algoritmo visivo. La parola scritta sarà sostituita dall’immagine post-fotografica? Non lo crediamo, così come non lo crede questo volume monografico. Tuttavia, riteniamo opportuno ricordare al lettore qualcosa dell’alchimia del verbo, fargli vedere (qui vedere è inteso alla lettera), come si può considerare una poliparola, al di là del suo semplice valore dis-in-formazionale o, d’altro canto, del suo valore mediale più complesso, rivolto a tanti costruttori e a pochi estimatori dello stigma della critica. Per costoro, diciamo subito che, sia Tommaso Ottonieri e sia Giovanna Lo Monaco, non sono né per la fotografia letteraria, né per la critica fotografica, o tantomeno per quella di reportage. I generi fine a se stessi non interessano e forse non interessano neanche al libro dei libri in questione. Guardiamo al valore della parola istantanea, allo stile che un autore ha saputo dare ad essa in trent’anni e passa di opere letterarie, al mondo che ha saputo presentificare, più che rappresentare, oltre le mode del momento e le sterili tentazioni edonistiche (che fanno parte del conflitto di costume tardo post-moderno, non certo lontano da Frederic Jameson).

Abbiamo già detto, che il primo incontro di Tommaso Ottonieri con l’avanguardia e la neo-avanguardia avvenne nel campo della pratica poetica, accompagnato dalla prefazione di Edoardo Sanguineti. I suoi abbozzi, le sue carte per il viaggio nel pluricellularismo indicano l’intera problematica filosofica, letteraria e visuale che questa avanguardia mette in gioco: “le avanguardie e post-avanguardie artistiche […] ci hanno rivelato, come nodo centrale dell’atto artistico, il porsi di una realtà, immediata, che si consuma nell’atto stesso della sua enunciazione. Dove enunciare, produrre opera, vuol dire consumare, nell’atto stesso, brani di reale, porzioni di materia. […] La materia con cui si crea coincide con la materia che si crea […] deperibilità di un organico temporaneamente eternato in Opera”. Ecco che Ottonieri tenta di oltrepassare l’estetica postmoderna totale, tanto preziosa per la sua maturazione critica, per un’estetica dell’avanguardia di memoria jamesoniana (mi riferisco ancora a Frederic Jameson), più adatta a sbrogliare gli intrecci ipertrofici della realtà e della presentificazione.

In cosa la radicalità delle “alchimie du verbe” (di rimbaudiana memoria), ovvero della corrispondenza tra arte plastica della parola e alternativa all’annichilente e apocalittica scena del presente, si dirige verso un nuovo statuto della letteratura? Essa contiene nuove tendenze della lingua in generale e, conoscendo la pratica poetica o letteraria di Ottonieri, secondo cui il linguaggio con il nome può portare ad individuare nuovi approcci alla ricezione della prosodia della strada, si inarca in numerosi percorsi, che lo stesso Ottonieri tende a suddividere tra la produzione commerciale e quella di Contatto

Ma c’è di più. È grazie all’alchimia del verbo che, nel presentificare un nuovo tipo di rivelazione sperimentale, Ottonieri scopre: “Se è vero che, nell’era della parola performata e installata, “l’asse dell’opera” non risiede più esclusivamente nelle superfici della pagina (ma si moltiplica per i supporti sonori o grafici o architettonici o visuali – non addizionata ad essi, ma come “esponendovisi”, “lasciandosi” elevare a una potenza mai accertabile del tutto), e anche perché l’asse è sempre, da sempre, altrove. L’opera, è quella destinata a girare-a-vuoto. Fuori da se stessa, e persino contro se stessa. Molteplicemente; poli(de)centrica. La sua identità è il disindividuarsi costante, la mutazione, la fuga, il punto del suo eterno non ritorno. In altri termini, l’inconcludibilità della sua Catastrofe”. Il libro di Giovanna Lo Monaco, Tommaso Ottonieri. L’arte plastica della parola (edizioni ETS, edito nella collana La Modernità Letteraria di Pisa nel 2020) ripercorre l’affermarsi progressivo della poetica di Ottonieri, lungo una storia che l’ha vista sempre più intrecciarsi con la storia della sperimentazione e del divenire compagne indispensabili della sua esistenza quotidiana. Essere nel mondo della ricerca significa esistere a contatto di altre singolarità esistenti, avvalersi degli effetti dello scambio relazionale, confrontarsi con un “Tu originario” quanto l’io, auspicando eventualmente la costruzione di un noi poetico. Negli ultimi anni la giovanissima Lo Monaco, assegnista di ricerca di Letteratura Italiana Moderna (presso l’Università di Firenze, dopo essersi occupata del rapporto Gruppo ‘63-teatro (2019), la scrittura della poesia sperimentale degli anni sessanta in rapporto alle arti visive di Perilli e Novelli, della guerriglia editoriale anni Sessanta-Settanta) indirizza il suo interesse verso l’esperienza monografica ottonieriana. Nell’ambito della relazione segno-gesto Lo Monaco aveva già individuato la presentificazione dell’essere con altri ed elaborato una coerente “macchinicità”della relazione parola-immagine, operante dapprima nella teoria della critica poetica e nell’analisi sociologica, poi nell’estetica e infine nella pratica stessa della scrittura come conflittuale azione tra vita e forma. La reciprocità della presentificazione appare anche come il criterio più fecondo per valutare la qualità dei rapporti tra liminarità poetica e contaminazione narratologica: tuttavia la natura debordante del verso e la connessione trasbordante del racconto, la natura in/transitiva della pluriversità, determina lo scacco di tale condizione. Di qui scaturiscono le aporie di tale principio, i cui confini tra poesia e prosa si rivelano sempre più fluidi, postremici, indeterminati e transitori. Con uno stile avvincente, quasi storiografico, ma che non perde mai di rigore, Lo Monaco ricostruisce il rapporto tra il corpo dell’opera di Ottonieri e la forma fluens che ne esplode, a partire dagli esempi più disparati come le interviste, le testimonianze, gli statement, i contributi saggistici, critici, le opere principali, le prose-chiave, le raccolte poetiche di dibattito e di contro-dibattito, gli scritti dell’infanzia, le comunità degli affetti poetici dell’adolescenza e il mondo della vita. Descrive, in sostanza, le agiografie che sono i concetti guida che percorrono il testo e che vogliono essere al contempo categorie letterarie e chiavi di lettura di una personalità in tumultuoso divenire. È su questo punto che Luperini e Sanguineti, Manganelli e Pagliarani coincideranno con la traduzione ottonieriana dell’alchimia del verbo: l’ipertrofico e il presentificatore, così come l’allegorista e lo straniatore, hanno tutti lo sguardo rivolto all’istantanea del presente e nel presente. Per ora, però, soffermiamoci sullo sguardo allegorico dell’extrema ratio di Gèodi. Sanguineti notava che proprio sulla base della distanza postremica dal simbolo, cioè da una imagerie obliqua, in cui i confini della coscienza individuale venivano tradotti nell’ebrezza della scrittura “arterata” e la caduta della soglia tra lingua e idioletto faceva apparire la traduzione di nuovo degna di essere vissuta, Ottonieri (così come da Benjamin) tende a rivalutare un’ “Ispirazione materialistica”. Questo è vero, nella misura in cui essa ha valore trans-allegorico, dato che tramite l’esperienza linguistica, o quella del confronto con le culture marginali (dal rock alle tendenze della musica prog), si presentano sempre delle variazioni di quella alchimia fondamentale della parola, che è un eccesso “par excellence”. Inoltre, per Ottonieri, i trans-allegorismi sono gli unici, dopo Sanguineti-Pagliarani, a proporre un concetto radicale di work in progress in campo sperimentale. I tempi ci sembrano propizi, dunque, per un discorso estetico globale: non approfondito, per ora, non storicizzato, forse, ma senza dubbio inteso a far risaltare, quel quid, quei valori intimi, quell’impegno etico non stereotipato e non volgare, che costituiscono la traduzione di una corrispondenza verbale, sia che appartenga all’istantanea post-progressione di Tom Yorke, o al verticale e obliquo sentire alchemico di una ipertrofia espansa. Nel qui et ora della valvola cremisi, la lingua, per differenti ritmi, dilaga sopra una varietà quasi esemplare di “dis/armoniche” e sgretolamenti: tra metafisiche del videogame, e fantascientifico psicotico, tra horror di introspezione, onirismo vampirico di angeli e rivolgimenti interiori, fino al tema popist e visionario, essa parla l’ambiguità del mediale. La scrittura traduce questi saperi e questi urti, in una direzione differente che, attraverso un sistema di saturazioni, tra un elemento oggettivo e l’altro, trovano nuovo ordine in una diversa apparizione della realtà.

Non sarà inopportuno sottolineare il significato che attribuiamo al termine mediale: non intendiamo l’erudizione e neppure l’esclusivismo culturologico, bensì – seguendo il ritmo dei tempi e ricordando la scansione delle collaborazioni tra noi e Tommaso Ottonieri – la cultura accessibile alla congerie di manifestazioni che storicamente ci riguardano (quella filtrata tra Medialismi (del 1992 a Tivoli) e il Gruppo ‘93, quella dei versi di Laboratorio Politico di Fine Secolo (del 1996 a Macerata), oppure quella dedicata a Walter Benjamin del 2002 …), che delineano uno sforzo transmediale non sempre esplicitato nella storia di questa pubblicazione. Si parla, in breve, delle singole opere, delle singole esperienze, della loro vita e del loro gettito di sangue (per dirla all’Artaud). Certo, si parla al di là dei miti, di parole e immagini bizzarre e imprevedibili, postremiche e radicali. Però qualcosa entra nel bagaglio mentale della nostra valigia allegorica. Qualcosa rimane. Noi vogliamo appunto far leva su tale agitazione media e portarla al livello di una comprensione critica del lavoro mediale condiviso, far capire perché un compagno di strada come Tommaso Ottonieri “è vivace e sperimenta con noi” e in che misura, fare intravedere le forme di un linguaggio che diverrà sempre più incisivo e comunicante. Assistiamo ad un fenomeno di assimilazione generale della parola algoritmica difficile e intellettualistica. Sono cambiate molte cose. Si legge di più e in altri modi, così come si vede di più attraverso la “parola digitale”, anche se lo si fa più in fretta. Si vede molto di più il poliverbum polifonico. L’oralità “webinaria” ha insegnato a guardare qualcosa, perlomeno nella sua nuova interlinearità. Ha espanso il gusto. È come se la storia della parola polifonica (per dirla con Bachtin) fosse un complesso sistema elettrico, dove l’intera energia potenziale è sempre pronta a scatenarsi in ogni punto del condotto: un simile scatenamento avviene nello jetzt-Zeit mediale, in cui l’immagine della parola rappresenta lo svelamento involontario di una immagine nella parola e viceversa. Ma tale immagine è un fulmine sferico, cioè un fulmine mobile che, come vuole la conclusione studiata da Lo Monaco, serve a citare l’ultimo Ottonieri: “Fino a che ancora ci sarà segnale, e che sordo il diluvio finirà di spegnerci nei suoi lieviti di cenere, più invisibile una tempesta di sillabe soffierà di noi dalle pupille spalancate, e bruceremo balsami contro il fuoco delle estinzioni”. Si tratta di un paradosso distopico, Ottonieri fissa la propria comprensione transmediale attraverso un movimento infinito, attraverso un fulmine traduttivo, e si tratta della stessa fotografia prima in negativo (passata nelle memorie dell’ipertrofico) e poi in positivo (del presente di Gèodi): il paradosso, la distopia, consiste appunto nel riconoscere simultaneamente il diritto e il rovescio della stessa cosa, ed è appunto un’alchimia espansa, in cui il processo di negazione è ancora in divenire.

La tradizione mediale ha prodotto effetti di senso di lunga durata, come un’immensa figura paterna che provoca alchimia e giustapposizione. Come tutti sanno, il messaggio dell’iperlibro è breve, sensibile, volatile, forma una soggettività d’occasione, impegnata rispetto ad una specularità effimera. Cambia il territorio della poesia e cambiano i suoi abitanti. Credo che, dopo Contatto (2002), ritornare sui propri passi sia una possibilità in più, ma occorre sapere in quale costellazione accade questo fare: in relazione alla forma della nuova parola, alla temporalità e al valore significativo del messaggio.

Ecco, se è legittimo avanzare un consiglio è questo: leggete e iniziate quel viaggio immaginifico attraverso il tempo e lo spazio di Tommaso, dilatate la vostra coscienza oltre i limiti angusti della quotidianità, non negatevi la possibilità di vivere altre vite e di capire e conoscere molte più cose del mondo di quanto non sia possibile senza l’ausilio di quel meraviglioso strumento che è la poli-poesia sperimentale “postrema”. Si è ho detto di Contatto e della sua lettura radicale, ma l’opposto potrebbe dirsi a proposito di tutti gli altri mezzi di accrescimento del verso che si nascondono dietro Elegia sanremese, come la musica, il cinema, il teatro e le arti plastiche e figurative. Per Tommaso, oltre che affrontarle da critico, dedicarsi a queste cose attivamente all’interno del verso (suonare la parola, potremmo dire parafrasando Demetrio Stratos) è assai benefico e poco importa se non si è in uno di quei pentagrammi, dai risultati magniloquenti. Quello che conta è che, oltre alla ricerca e al piacere personale, questa esperienza di lettura si trasformi in un’occasione di arricchimento culturale e poietico, cosa che ci migliora come lettori di domani e quindi come soggetti sociali. In ultimo, ma non per importanza, ricorderemo sempre e solo la poesia.