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Scrittura reale e cinema potenziale (III parte)

La scrittura annulla i margini oggettivi in favore di sentimenti affettivo-soggettivi. Nello spazio del «cinema potenziale» circolano segni diversi. Questo spazio non può essere occupato narcisisticamente. Sotto un certo aspetto esso è molteplice e immanente. Il cinema è l’espressione di un anello mancante, ossia, di una domanda carente di confini. Secondo il cinema potenziale, il vissuto sta in un rapporto specifico, e precisamente conflittuale, con se stesso e con la nuova medialità.

Entro il 2025 saremo in grado di costruire realtà info-quark dalle dimensioni umane e con una capacità cognitiva pari a quella di Axel o di Janice, mentre entro il 2050, gli info-quark avranno capacità di interazione con l’ambiente e di ragionamento simili a quelli di un essere trans-umano e transmediale. Queste sono le previsioni della letteratura cinematografica potenziale, della scrittura di Uiq o Radio Galaxie, visioni nel campo dell’orizzonte info-quark convinte del fatto che non dovremo aspettare molto per assistere a un progresso improvviso ed esponenziale. Un traguardo che la scrittura d’anticipazione pensava di raggiungere già dalla scrittura di quella sorta di manifesto, del 1978, denominato Il Cinema, un arte minore:“Sì, se si precisa che un’arte minore è un arte che può essere al servizio di chi costituisce una minoranza, e che pertanto non ha nulla di peggiorativo. Un’arte maggiore è un’arte al servizio del potere. […] Un cinema minore per le minoranze, posto che per un aspetto o per l’altro, e per quel che c’è di meglio in noi stessi, facciamo parte un po’ tutti di una di tali minoranze. Forse esiste ora un pubblico potenziale che consentirebbe di guadagnare terreno sulla distribuzione cinematografica controllata dalla grande industria. Alcuni successi spettacolari dimostrano che il pubblico non vuole vedere solo quel che si offre di solito. Forse ci sarà un movimento di massa verso un cinema nuovo; a condizione però che quanti lo praticano riescano a loro volta a uscire da uno stile elitario, da un linguaggio completamente estraneo al pubblico, ovvero demagogico” (La rivoluzione molecolare, Einaudi, Torino, 1978, p.127).

Sulla base di questo principio, verso la fine degli anni ’70, negli anni Ottanta e Novanta, un gruppo di esperienze artistiche seguite da Guattari, tra cui quelle con la pratica cinematografica e la scrittura scenica, lanciarono la proposta di creare un gruppo di lavoro sull’intelligenza collettiva del cinema potenziale. Era l’ennesima volta che un documento filosofico riportava questo concetto e, nel periodo seguente, a partire dalle diverse versioni di Un amour d’Uiq si spalancarono su un nuovo settore della ricerca, tanto ambizioso quanto complesso. Nel nostro cervello, i segnali tra i neuroni viaggiano relativamente lenti, la trasmissione avviene in un millesimo di secondo e i processi cognitivi non seguono istruzioni codificate. Il segreto è nel modo in cui si modifica la rete dei contatti. Per ogni passaggio da risolvere, movimento da compiere, parola da dire si attivano connessioni diverse al ritmo impressionante di dieci milioni di miliardi al secondo, una velocità di adattamento del nostro sistema operativo, che nessuna macchina è ancora in grado di replicare. Le speranze sono riposte nelle reti neurali, sistemi di macchine biologiche comunicanti tra loro, o circuiti di una sola macchina, che cercano di replicare la struttura del corpo e del cervello umano. Per raggiungere un adattamento parallelo del nostro sistema nervoso bisognerebbe collegare tra loro almeno un milione di computer. Soprattutto, per gli scienziati ancora non è chiaro che biologia bisognerebbe insegnare a queste macchine per ottenere un sistema simile al nostro. Per raggiungere questo risultato il sistema dispone di tecnobiologie di partenza, che contengono milioni di informazioni, e possiede inoltre la capacità di accumularne altre, basandosi sulle proprie esperienze. Al principio Uiq è solo un debole segno vivo in un asso di cianobatteri, che il cronobiologo Axel sottrae dal suo laboratorio di Bruxelles. Ricercato per atti di “terrorismo” (le interferenze causate dai segnali di Uiq vengono immediatamente bollate come tali), Axel fugge a Francoforte con l’aiuto di un giornalista americano. La prima scena del film mostra un Piper Malibu, che atterra su un campo ricoperto di brina. Il paesaggio è polare, pallido, affondato in una strana inconsistenza. Siamo nel pieno degli anni Ottanta, in quelli che Guattari denomina “gli anni di inverno” (Les Années d’hiver 1980-1985, les Prairies ordinaires, Paris, 2009.). Un amour d’UIQ non è soltanto il film di fantascienza mai realizzato; è anche un’anticipazione visionaria dell’enunciosfera e della sua ubiquità molecolare, dall’intelligenza artificiale alla soggettivazione digitale, dalla presa ruvida del desiderio alla perdita della finitude.

Se alla fine del secolo appena trascorso, nel dibattito ecosofico (Les trois écologies, Galilée, Paris,1989) si è a lungo discusso della riabilitazione della filosofia del cinema e del mediale, ai nostri giorni si riapre una discussione essenziale in relazione al ritorno della militanza, espressione presente in tante sceneggiature dei nostri tempi, appunto. A mio parere, ciò sta a dimostrare come entrambe le formule indichino che tale confronto delle pratiche cineattive non si possano considerare concluse, anzi come negli anni si siano arricchite, e insieme si siano aperte nuove mappe concettuali, o meglio evidenziati ulteriori nodi, che qui non possiamo toccare, come per esempio il settarismo di alcune neo-avanguardie, sul piano politico o nell’ambito del cinema. Il tema è centrale per la pratica artistica, eppure è stato minimizzato o persino trascurato dall’etica gruppettara borghese, mentre tanti sono gli autori e le autrici di riferimento. In particolare, alcuni studiosi contemporanei di area mediale hanno rilanciato l’ecosofia, elaborando la cosiddetta pratica dell’enunciazione rivoluzionaria. 

In questo solco si muovono UIQ e Radio Galaxie, che continuo a presentare (da alcune settimane) e che continuano ad ispirarmi, oggetto della ricerca di nuovi studi sulla figura autonoma di Guattari, che nel corso della sua analisi ha dapprima individuato il contesto generale degli anni ’70 e poi ha messo a fuoco l’itinerario preciso di una filosofia militante potenziale. Già nel 1994 ho ampiamente commentato il lavoro di Guattari in Per un’ecosferosofia (edito a Perugia), affrontando la questione dell’ecologia dei media, e poi nella curatela critica (per Mimesis) degli scritti di Una tomba per edipo. Psicoanalisi e trasversalità (1972), con cui ho collegato il cinema dell’enunciazione alla scrittura mediale. Per il primo aspetto – di cui mi occuperò più nel dettaglio in un’altra ristampa del saggio sull’Ecosferosofia e degli scritti sulle Nuove Alleanze – il discorso è work in progress; invece per il secondo aspetto, il cinema diviene il nuovo agente virtuale (1997“Altre alleanze”: politiche del dialogo tra ecologia e arte / a cura di Gabriele Perretta / “L’uovo di struzzo” / TORINO / I.T.C. / IMPERIA / Salone Dugentesco / VERCELLI / Lingotto / TORINO). A proposito del rapporto tra ecologia e cultura, va ricordato il caso felice di molti intellettuali militanti, ma anche filmaker e videomaker, che hanno seguito Felix e che si trovarono uniti nel 1987 per la fondazione della rivista Chimères. Revue des schizoanalyse, avendo tutti come comune denominatore il proposito di opporsi al razzismo illogico e riscoprire nuovi agenti di enunciazione. Ciò è tanto più interessante, perché il gruppo era mosso da quel “cervello anomalo e anomico”, compagno di strada di tanti libertari, ma poco noto per il contributo alla filosofia del cinema. Sottili e significativi sono gli enunciati sotterranei – ma non troppo – che legano e insieme differenziano queste riflessioni di uno dei testamenti caosmotici della letteratura filmica, che rappresenta il centro di interesse su Guattari, conosciuto come psichiatra e invece espressione di una precisa proposta potentielle (agencement collettivo di enunciazione).

Il valore, pertanto, di questo studio su UIQ e Radio Galaxiesta nell’attitudine enunciativa e nomadica, dal momento che in Italia Felix Guattari, quale intellettuale-cineasta, è scarsamente studiato e pochi sono i suoi testi tradotti, a differenza di altri paesi, e non solo quelli di lingua francese, dove sono sorti archivi di studio intitolati all’arte e alla vera e propria poetica di Guattari, in cui si sviluppano ricerche sulla sua sperimentazione. Ricorda Paolo Fabbri nel 2018: “L’espressione “macchina astratta” proviene dal semiologo Hjelmslev per cui il senso si dà come intersezione di due forme: la forma dell’espressione (il significante) e la forma del contenuto (il significato). La reciproca sostituzione dei due piani – l’espressione può diventare contenuto di una nuova espressione e viceversa – assicura l’elasticità e la mobilità trasformativa in cui può articolarsi il desiderio. Per Guattari era la sola teoria moderna del linguaggio: una linguistica dei flussi e dei processi “che spezza il doppio gioco del dominio voce/grafismo che fa scorrere forma, sostanza, contenuto, espressione secondo i flussi di desiderio e taglia questi flussi secondo punti-segno o figure-schizo”. Una trans-semiotica immanente che può manifestarsi in tutte le sostanze percepibili e che sarebbe “la sola adatta sia alla natura dei flussi capitalisti che a quelli schizofrenici” (Fabbri qui fa riferimento all’Anti-Edipo e a Mille Plateaux, intervento pubblicato su aut aut, Il Saggiatore, n. 378, giugno 2018, pp. 125-136).

La poetica “potentielle” di F. Guattari mostra gli intrecci e le fecondazioni reciproche che legano le attività di artista, di politico e di intellettuale, con quello di pensatore flessibile e contro-liberista, evidenziando non solo l’eccellenza raggiunta dalla strategia enunciazionale in entrambi i campi, ma altresì la circolarità virtuosa tra elementi letterari – come il progetto terapeutico e l’immaginazione presenti nei suoi testi empirici – e le sue scritture attiviste. Come segnala opportunamente l’auto-valorizzazione potenziale nel cinema – che si ferma ad una enunciazione del filmico, così come un progetto politico si ferma poco prima della sua efficace realizzazione – al di là della tortuosità di alcuni percorsi guattareuze (come li chiamava Paolo Fabbri; mi riferisco all’ambiguità di alcuni dettati politici che a differenza di quelli di Deleuze sono più chiari), possiamo constatare che Guattari focalizza il suo interesse proprio sul valore dell’immanenza per la praxis. Rispondendo alla domanda “Come possiamo realmente migliorarci al di là dell’orizzonte enunciativo?”, considera come l’esercizio della critica della vita quotidiana sia essenziale per la vita del bene comune e come il soggetto debba avere una necessaria relazione con l’attivismo concreto, inteso come impersonale e trascendente (Gregory Bateson). Guattari rilegge Bachtin e la critica dialogica, per mostrare la possibilità che il soggetto, proprio attraverso l’uso del cinema potenziale, compia una militanza stretta per ascendere al bene ed in seguito discendere vedendo gli enunciati attraverso i quali è asceso, la natura, l’arte, le teknai, nella loro vera essenza, e considerando l’unità delle virtù rivoluzionarie e terapeutiche nei rapporti reciproci e in relazione all’unità dell’espressione. Se non si può attribuire una sistematicità agli scritti di Guattari, dal momento che il suo è un pensiero denso, tanti sono i suoi film filosofici percorribili, infinita è la ricchezza degli approfondimenti che si intrecciano nella riscoperta dell’autovalorizzazione. Le enunciazioni della sua intera opera si collegano le une alle altre in modo da formare un’unica mappa concettuale in cui Axel, Janice, Fred, Lara, Manou, Robert, Steve, Eric, Francis e Dominique, Antoine e Michelle, Jennifer, UIQ stesso e Bruno, si destreggiano con la bravura, seguendo lo sviluppo cronologico principalmente in tre modi: il Bene comune, il soggetto autovaloriale, che pur avendo una centralità morale è orientato verso l’altro da sé, e la potenzialità della ricerca, attraverso cui il soggetto instaura una relazione con l’agente collettivo (UIQ, Luiss Press Roma  2022).

Scrive Roland Barthes nel suo celebre testo La Camera Chiara: “Qualunque cosa dia a vedere e quale che sia la sua maniera, una foto è sempre invisibile: ciò che noi vediamo non è lei. In poche parole il referente aderisce” (La Chambre Claire, Gallimard, 1980, tr. it. Einaudi Torino 2003, p. 8). Con queste parole lo studioso francese esplica una caratteristica fondamentale di quel mezzo visivo: non esiste fotografia se non esiste un soggetto reale, il cui tempo per un attimo ha coinciso con quello dello scatto. Con l’avvento di questo mezzo, a metà fra la rappresentazione e l’impressione, l’arte visiva fa un balzo in avanti che la porterà sempre più velocemente alla virtualizzazione e all’inevitabile connubio con la tecnologia. Sin dalle sue origini, la fotografia in movimento ha cercato archetipi e non soltanto soggetti e storie. Archetipi teatrali, certo, ma anche narrativi e strutturali. Infatti, la regia è la vera e propria fase di realizzazione del film, che fa capo al regista e che si attua attraverso la scelta di interpreti, la distribuzione delle parti, la lettura del copione, le prove ed infine la ripresa cinematografica della scene, con la stretta collaborazione dell’operatore (anch’egli scelto dal regista) e di una notevole troupe di tecnici (scenografi, costumisti, truccatori, tecnici delle luci, del suono e così via). Rileggendo il progetto di Guattari, è con il termine di “sequenza-quadro” che si dovrebbero indicare i dispositivi di certi film. Costruzione per grandi blocchi narrativi ed emozionali, privi di transizione, centrati più su una situazione, un luogo, un’impressione o un effetto che su un’azione (il filo narrativo è più spesso una ricerca o un’indagine senza urgenza). Un film come 2001 Odissea nello Spazio di S. Kubrick può essere analizzato in relazione al piano sinfonico. A livello della scena, si ritrova in qualche misura l’alternativa indicata a proposito della sceneggiatura: se la sua tensione interna non viene dall’azione stessa (si veda lo svolgimento di UIQ o di Radio Galaxie), viene dai personaggi, in particolare da ciò che accade (o non accade) tra di loro nella scrittura letteraria. Nella sequenza-quadro il fare artistico coincide con quello tecnico, in un cortocircuito nel quale la realtà visibile si mescola alla scienza; il prodotto di questo incontro è una “sequenza-quadro”, che non è mai definibile al di qua e al di là del disegno della sceneggiatura, ma si crea un proprio spazio e un tempo in bilico al limite fra la realtà della descrizione e la rappresentazione simbolica dell’enunciazione letteraria.

La traduzione da foto a quadro mobile governa una ricchezza di passaggi e di tempi che scandiscono i singoli enunciati. La foto, ovvero il singolo fotogramma filmico, mostra ciò che “si è trovato là, in quel luogo che si estende fra l’infinito e il soggetto; è stato là ed è stato immediatamente separato; è stato sicuramente, inconfutabilmente presente eppure è già differito” (Barthes, op.cit., p. 78). Essa è anzitutto la presa di coscienza di una perdita: traduce la vita della mente, l’impossibilità di ricostruire, di poterlo vagamente fissare. La caratteristica principale dell’idea di Guattari è che un’arte è calata nella sua stessa enunciazione: tutta la tridimensionalità della realtà descritta sulla sua superficie si schiaccia restituendo un’immagine fatta di corpo. Su di essa il tempo scorre come nella comprensione della parola politica, intrappolato nei contorni formali di un soggetto che detiene la spazialità interna del narrato: quello che Gerard Genette ha contribuito a formalizzare in modo chiaro con la nozione di focalizzazione. Francis Vanoye, sulla scorta di Genette, dice di un’integrazione tra discorso e storia (Récit écrit, récit filmique, Cedic, Paris, 1979). Emile Benveniste, con L’Appareil formel de l’enonciation (1970), ha mostrato che nei discorsi verbali esistono delle marche formali dell’enunciazione (in Problèmes de Linguistique générale,voll. II, Gallimard, Paris, 1976). Mantenendo, infatti, in sé brandelli visivi di passato politico – concentrandoli contemporaneamente nella loro consistenza fisica e temporale – ogni scatto letterario di Guattari si caratterizza come una rivelazione, un diaframma fra l’interpretazione del mondo e la sua virtuale rappresentazione, fra la visibilità e lo spazio, raccogliendo su di sé il fotogramma a venire, per restituirlo sotto un’altra forma.

A volte impropriamente e con argomentazioni pretestuose, si discute se la sceneggiatura di Guattari abbia oggi una qualche funzione nel mondo iconico in cui viviamo, se in altri termini la capacità di determinare un miglioramento del concetto di “cinema potenziale” sia stato possibile con gli strumenti culturali esistenti. Nella società della rete e della convergenza mediale, indubbiamente, la sceneggiatura e la pratica cinematografica potenziale di Guattari non ha ancora chiarito la sua funzione, ma in altri termini rimane non molto esplicita ma più interessante delle funzioni strumentali che vorrebbero attribuirgli i reduci dell’operaismo distorto, o gli estetologi del sex appeal inorganico. In effetti, non è mai stato molto esplicito il proposito di coloro che nel momento stesso in cui respingono il concetto di cinema dell’industria culturale, si adoperano a trarre i massimi benefici dalla frattura dell’operazione cinematografica definitiva. Viviamo in un’epoca culturalmente multiforme, secondo Guattari, che rifiuta di precisare la natura monumentale della caosmosi e il destino corporale della prospettiva psichica, estetica e sociale, e in cui le forze creative del soggetto vengono rapidamente portate fuori da qualsiasi campo semiotico codificato, per generare le linee di fuga e accarezzare i problemi senza realmente affrontarli. Vi è quindi una netta dissociazione tra la funzione delle pratiche artistiche e il comportamento del politico, che può assumere una connotazione particolare (anche nel senso specificamente transazionale), senza che la funzione del suo operare per eventi singoli sia esplicitamente definita. Abbiamo pertanto una politica artistica operante in un’area volutamente piena di enunciazioni, concatenamenti, potenzialità, che mal si adatta alle esigenze attuative di una oggettiva verifica critica. Un riscontro risolutivo dell’arte al posto della politica sarebbe del tutto improbabile, dal momento che l’aspetto programmatico e operativo converge così intimamente con quello della lotta di classe reale (o meglio con la sfera degli interessi empirici di chi ha il compito di non isolarsi nel giudizio ma di svoltare su pane e bisogni primari), che un’autonoma e pertanto chiara valutazione delle scelte inevitabilmente si “smodellizza”, ancora di più, nelle azioni e nel comportamento. Tutto ciò si adatta al rapporto culturale indifferenziato, che si verifica nella sfera macro-sociale, in cui il cinema rappresenta appena un hobby, un gioco trans-realistico per attenuare la richiesta del volgare tecno-realismo e tecno-economicismo e rendere meno evidente l’appiattimento della vita. Con il fare cinema potenziale (che poi sarebbe l’eventualismo artistico totale), la pratica schizo-analitica, non per sua volontà ma per eventuale ricaduta, offre la possibilità di coinvolgere gli atteggiamenti estetici dell’artista contemporaneo nella desiderabilità dei suoi prodotti di consumo. Ecco che ciò che si marcava nell’enunciazione della lotta di classe si traduce o viene tradotto nei valori simulacrali del capitale stesso: ciò che appariva fonte di liberazione ben presto si trasformava in orgia di assuefazione in cui è cascata tutta la realtà della sinistra e del pensiero progressista, uno spazio trans-limbico, trans-liminare, entro il quale le funzioni dell’artista, del produttore, del regista e del curatore sono regolati da una prassi determinata e determinante. Le stesse scelte post-situazionali (si perché non si è riflettuto abbastanza sulla provenienza di Guattari, non solo dal Sartre di Critica della ragione dialettica (1960), ma anche da Henri Lefebvre di Critica della vita quotidiana (1947; ampliata e ripubblicata poi nel 1958), quindi lo stesso sale dei situazionisti), i programmi mediali e le operazioni che ne derivano, tendono dunque all’astrattizzazione della responsabilità antagonista individuale; e tutto questo perché nell’ambito delle strutture, con le modalità e gli strumenti esistenti, è sempre più raro lo spazio dell’applicazione di una qualche lotta, e il “bisogno” è sempre più catapultato nel corso degli eventi, cioè verso strumenti e soggettività che egemonizzano la loro stessa funzione, depauperandola a livello di non-funzione.

Il rapporto tra gli eventi di enunciazione e il probabile campo semiopolitico di militanza oltre la situazionalità stessa, si è fatto, quindi, sempre più precario. Si tratta di un rapporto mediato da gruppi di pressione e da interessi estetici verso una diretta attivisticità del cinema oltre il cinema. La scelta è infatti quasi sempre programmata secondo finalità che riguardano il successo mediale della sceneggiature e del cinema potenziale. Alla figura idealistica del caposcuola, la cinematografia proto-underground ha sostituito la funzione emergente del personalismo fighetto, cui associa ogni parametro comportamentista della società schizo. In sostanza, il leader che traduce capziosamente Deleuze in un “militante fantasmatico” aspira a divenire un nuovo manager di cultura, un produttore riconosciuto di effetti di movimento antagonista, in una società alla quale, in definitiva, non è difficile far credere alla funzione e al valore insostituibile del filtro soggettivistico e simulacrale. Tutto ciò si basa sulla pianificazione settoriale del processo avantgarde, sulla volgarizzazione nominalistica dell’operatore off e d’essai, sulla strumentalizzazione del campo semio-politico e dei principi del vitalismo antagonista, secondo tecniche che sono prese a prestito dai centri promozionali delle strutture socio-economiche.

Il comportamento odierno dell’eredità guattariana si è in effetti adeguato alla strategia di simulazione del sistema: ha fagocitato i procedimenti della cinematografia potenziale e gli strumenti di persuasione, trasformandoli in nuovi strumenti retorici. In un’epoca che nega ormai validità all’autentico agire comunicativo, lo stesso semiologo si è attrezzato per la responsabile mappatura dei segni positivi e negativi, legandosi alla controllata scambiabilità dell’odio, che è in realtà una cultura del disumano (tale da assorbire il dissenso del marxismo nell’intransigenza mafiosa). In questo modo il semiologo collabora, con privilegi e riconoscimenti, al rinnovamento dell’odio contro la responsabilità del progetto politico sul tragico esistenziale; un rinnovamento, cioè, che è solo meme, contro la vita che alimenta la trama fondamentale dell’estetica del fallimento. L’urgenza di una storia dei sentimenti, capace di seguire i segni nella loro impercettibile ma ininterrotta declinazione, il loro lento procedere sottotraccia, come un rivolo carsico che si sottrae nell’ipogeo per poi improvvisamente riaffiorare, è una costante della semiologia post-moderna attuale, che si rivolge contro il marxismo. L’apparato emozionale del semiologo, dice il libro dell’attualismo anti-modernista, non è una qualità naturale e immutabile, non una sorta di codice biologico, ma una miscellanea di equivoci in divenire. L’estetologo, costitutivamente estraneo al mondo, compensa questa sua inadeguatezza – questo suo difetto che lo sconcerta e di cui prova imbarazzo – con un programma di odi e di persecuzioni verso il marxismo. In questa sua strategia culturale determinata dalla contingenza borghese, i sentimenti dell’odio e del razzismo sono plastici, plasmabili alle esigenze del segregazionismo e all’artificiale cinico, pronti ad abituarsi, a fare dell’aposteriori astorico un apriori poststorico, del contingente di qualche “d’antan” un necessario persecutorio e poliziesco. Nell’era della tecnocrazia e non del cinema di enunciazione – imposto dall’attualismo novo-fascista – è andato affermandosi un paradigma selettivo, regolato dalle leggi asettiche e fredde della coppia marxismo-vecchiume, le quali hanno sottratto all’essere umano la sua centralità materialistica e immanentista. L’odio e il razzismo contro il marxismo e il comunismo è divenuto un surplus, un sovrappiù per occasioni semiologiche speciali, un sentimento affatto artificiale, null’altro che un prodotto da servire a consumatori bulimici per renderli ebbri e assicurare, quando necessario, l’adesione acritica e, se serve, l’accettazione dell’inaudito. In questo inedito modello dell’oltrepassamento di ogni confine etico, inaugurato dal postmodernismo, in cui la legittimità dell’odio per le minoranze del pensiero critico e del materialismo storico, l’opzione scientifica di negare la vita a interi gruppi sociali è decretata con la forza dei codici e, saltando il sottile diaframma fra il pensiero delirante e il senso del reale, spinge alla corruzione morale del mondo. I propagandisti del “seme dell’odio”, individuato l’oggetto da annichilire, sanno come assecondare le masse, sanno come fare di erbe diverse un sol fascio, come proiettare le loro inclinazioni aggressive sugli altri, sanno servirsi di strategie raffinate, di suadenti analogie linguistiche per affascinare coloro che li ascoltano per obblighi burocratici e mediali e aizzarli contro la mèta da annientare. Diremmo anche annientare il “continente speranza”, ovvero il Das Prinzip Hoffnung.

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