“Le prime due stesure di Blasted sono state scritte più emotivamente che intellettualmente. E sebbene alcune parti dell’opera siano deliberate rielaborazioni del King Lear, non ho preso questa decisione fin dall’inizio della stesura del testo. Molte delle similitudini dei temi erano già presenti nel testo, ma non me ne sono accorta fino alla terza stesura dopo che qualcuno mi ha suggerito di rileggere King Lear”.
Sarah Kane …
3. Se è vero che ogni biografia è soprattutto l’evocazione di una storia in ciò che essa ha di singolare, è pur vero che ogni vita è al tempo stesso condizionata in qualche modo dall’ambiente e dall’epoca in cui si svolge. Accostarsi a Sarah Kane vuol dire gettare uno sguardo, seppur marginale, sulla storia intellettuale e spirituale del ventennio Ottanta/Novanta del ‘900: gli anni del primo fervore per la svolta mediale, dell’affermazione di Internet e dell’ultimo sviluppo (forzato) del post-modernismo. Si tratta di un’epoca che si avvia a divenire storica, senza esserlo tuttavia ancora. Non sappiamo quali saranno gli aspetti di essa che sopravviveranno. L’analisi critica delle posizioni teatrali esistenziali richiede ora, necessariamente, di determinare il rapporto tra la nozione generale di vita teatrale e la nozione di vita come evento teatrale compiuto, propriamente vissuto. Questo problema della distinzione deve essere prospettato non solamente dalla teatralità della vita ma anche dalla teatralità dell’esistenza e da quella dello spirito. Perché la nozione di vita – avvenimento “crudelmente vissuto” – e il valore che le viene attribuito è di precipua importanza, sia per la maniera attuale di realizzare O.M. Theater di H. Nitsch, sia per ogni idealizzazione teatrale che rimane idea e immagine e, quindi, si mostra, più che darsi, come evento o dall’evento.
Possiamo tuttavia, fin d’ora, affermare che il periodo in questione è di particolare rilievo nella storia del pensiero teatrale di Sarah e che il posto occupato da Samuel Beckett, Howard Brenton e Georg Büchner in questo contesto è assai importante. Se alcuni dei personaggi coi quali Sarah Kane si è relazionata sono oggi dimenticati, altri sono divenuti personaggi chiave, figure di rilievo tipo Edward Bond (Londra 18 luglio 1934), che difese pubblicamente l’opera e il talento della Kane nell’affermazione di Blasted.
Se si eccettuano alcuni momenti, pochi in verità, in cui si lasciò coinvolgere dai fatti contingenti, la Kane fu, durante tutta la sua breve esistenza, donna (per meglio dire persona) introversa, che preferì l’austerità, il lavoro travagliato, la resistenza esistenziale, la ragione timica, la critica come aggressione, la crudeltà e la turbolenza ad una vita rivolta all’esterno. Essa non faceva parte di nessuna conventicola, nè di alcun circolo letterario e collaborò sempre a situazioni culturali underground. Se a questo motivo si aggiungono i pregiudizi sui contemporanei, contro le culture della diversità e, in particolare, contro la filosofia vera della performatività e l’impegno di artisti a nuove pratiche comportamentali, si comprende come il suo contributo sia passato quasi all’insegna dell’ostilità della critica.
La sua prima opera Blasted – che traccia parallelismi tra la Gran Bretagna e la Bosnia e contiene scene di stupri, cannibalismo e brutalità – creò la più grande riflessione teatrale a Londra dai tempi della scena del bambino nello spettacolo Saved di E. Bond, ma anche sull’identità della performance borghese, sbandierata dalla svolta del secondo ciclo di proposte di Marina Abramovic e anche delle arti visive più in generale. La forma della performance, pur avendo esaurito il bacino della body art, attendeva e attende ancora una concreta storicizzazione.
Come dobbiamo immaginare Sarah Kane? Sequestrata da ignoti personaggi e confinata in una piccola stanza di ospedale, perpetuamente in penombra, situata in un luogo sconosciuto, a una distanza non precisabile dal pubblico, le protagoniste/i delle sceneggiature di Sarah sperimentano la condizione di una segregazione totale dal mondo esterno. Prive di ogni via d’uscita, all’oscuro dei loro motivi di segregazione sociale, in una totale ignoranza di ciò che sta accadendo e di ciò che accadrà, in solitudine completa, senza alcun mezzo di distrazione e senza nulla a cui applicarsi, se non il conflitto e l’aggressione stessa. La sopravvivenza del sé narrante è affidata alle molte realtà in loro possesso: il proprio corpo. Il corpo, che è l’oggetto della carcerazione e della crudeltà; il corpo, che diviene lo strumento della violenza e della resistenza alla brutalità dell’aggressione quotidianamente subita, muove oltre se stesso, accompagnato da una parola che lo trasforma in “un teatro della crudeltà, postumo”. E nel gioco della costrizione materiale, in cui i personaggi sono tenuti, e la dilatazione delle energie mentali, psichiche, sensoriali, fisiche della loro persona che mette in moto per resistere alla condizione alienante della cattività. Nel suo evento (ed eventualità) si svolge l’iter di una performance teatrale che supera il teatro delle arti visive e ritorna in scena, in quanto “nuovo teatro della ragione timica”. La struttura inventiva è perfetta. Essa è costruita per opposizioni, per scene conflittuali: alla restrizione del campo invisibile della cella si contrappone l’infinito della follia concreta dei protagonisti; al tempo lento, uniforme del reale si contrappone la velocità della ragione timica, la rapidità, il vortice sconfinato e crudele del tempo interiore; la povertà anonima delle suppellettili tipiche delle opere della Brit Art è vinta dalla varietà e dalla ricchezza, sonora e cromatica, delle tracce di sangue e degli spazi “abreagiti”, che l’immaginazione della scrittura scenica introduce nel luogo invisibile della segregazione psichica. Il silenzio ossessivo dell’isolamento è riempito dal fitto e martellante dialogo del personaggio con se stesso; la solitudine è colmata dalla ricerca tenace di un contatto con i carcerieri della cronaca; l’incomunicabilità è placata dall’allucinatoria combinazione dei segnali ambigui e incerti di una probabile disponibilità al colloquio, che ai protagonisti pare scorgere in alcuni gesti del carnefice, che offre la “nuova aura violenta”. La vita fluisce dell’immedesimazione, fintanto che essa non prende coscienza del suo conflitto interno, fin tanto che l’attore non distacca, a mezzo della sua stessa performance, la propria vita – vissuta e sperimentata da lui stesso – dalla partecipazione al teatro dell’esistere. Certamente, l’attore può sperimentare la sua crudeltà nell’im/medi-azione, ma non fino alla profondità categorica della propria sofferta timicità. In un certo senso, ogni teatro della vita possiede un momento tragico che appare come farsa, come recita o atto finale! Possiamo concludere, allora, che nella nozione di teatro della vita provata e sofferta vi è un sentimento di onnipotenza della vita collettiva, della sua tensione irresistibile, del suo carattere impersonale e dell’incapacità dell’attore di far fronte a questa scena e di dominarla. Tuttavia, è solo ad un più elevato grado di vivibilità di questa scena, che questo grave estremismo fa sentire tutto il suo peso. Ed è il destino tragico della concezione della coscienza performatica “vuota di contenuto”, di non più cogliere in sé questa sfera della vita dotata di un contenuto esistenziale, assolutamente personale. Ora è questa sfera che interessa di più al teatro contemporaneo, dopo il post-modernismo e alla fine dello spettacolo. È questa sfera che la teatralità crudele vuole esporre in tutto il suo contenuto, come essente la sfera totale e specifica del performer. Sarah Kane faceva parte di quelle anime per cui teatro e vita, arte ed esistenza sono la stessa cosa, proprio per questo il suo ultimo testo, Psicosi delle 4:48 (quello meno processuale e in presa diretta), non solo scava nel profondo dei suoi abissi, ma ci fa una cronaca dettagliata di ciò che sarà il suo destino, a soli ventotto anni.

Sarah Kane (3 Febbraio 1971 – 20 Febbraio 1999): le sue opere sono intrise di amore salvifico, di espressione libidica, di sofferenza, di tortura fisica e psicologica, di morte. Sono caratterizzate da un linguaggio poetico borderline, da un testo pieno di corrispondenze sensibili, dall’esplorazione delle strutture teatrali prima e dopo la performance visuale, e – nei suoi primi lavori – da un uso estremo della violenza in scena, come reason stesso della direct drive. I suoi riferimenti principali, dichiarati da lei stessa, sono i lavori di Graham Saunders e della tragedia dell’epoca di Giacomo I, nel 1600 inglese. Nata a Brentwood, Essex, fu educata da genitori evangelici ai valori cristiani, che successivamente rigettò. Dopo aver studiato drammaturgia all’università di Bristol, si perfezionò all’università di Birmingham sotto la guida di David Edgar. La Kane lottò con una grave depressione per molti anni e fu ammessa volontariamente due volte al Maudsley Hospital di Londra. Per un anno è stata scrittore-in-residenza per Paines Plough, una compagnia teatrale che promuoveva la nuova drammaturgia, dove ha incoraggiato attivamente altri scrittori. Prima di allora, aveva lavorato per breve tempo come autore per il Bush Theatre di Londra. La Kane è morta nel 1999, quando, due giorni dopo l’assunzione di una dose eccessiva di farmaci da prescrizione, si suicidò impiccandosi coi suoi lacci delle scarpe, in un bagno al King’s College Hospital di Londra. La sua ultima opera, 4:48 Psychosis, fu completata poco prima della morte dell’autrice e fu rappresentata un anno dopo il suicidio. Nel 2001 il Royal Court Theatre, che aveva messo in scena tutte le prime degli spettacoli di Kane eccetto uno, ha dedicato una stagione intera alla sua opera. Le 4:48 è l’ora notturna, statisticamente provata, di maggiore attrazione per il suicidio: “Alle 4:48 quando la lucidità mi fa visita per un’ora e dodici minuti sono in me. Passata quell’ora sarò di nuovo andata, marionetta in pezzi, ridicola folle. Ora sono qui e riesco a vedermi, ma quando sono rapita da basse illusioni di felicità l’orrendo incantesimo di questo motore di magie, non riesco a toccare il mio vero io. Perché mi credi in quei momenti e non adesso? Ricorda la luce e credi nella luce. Nulla importa ormai. Smettila di giudicare dalle apparenze, dai un giudizio obiettivo.- Tranquilla. Presto starai meglio.”.
Per una riflessione sul senso della disperazione, va ricordata la sua unica sceneggiatura cinematografica:Skin è un cortometraggio del ‘95, diretto da Vincent O’Connell, scritto dalla Kane e interpretato da Ewen Brenner e Marcia Rose. Oltre alla figura di Sarah, artaudiana dalla vita controversa, nel cast spicca il nome di Ewen Brenner che l’anno successivo interpreterà Daniel “Spud” Murphy nel film Trainspotting. Il film parla di una donna di colore che sequestra e “distrugge”, attraverso un amore crudo e sottomesso, un violento aggressore razzista, con la redenzione finale di quest’ultimo. La ristrettezza dello spazio e la limitazione del punto di osservazione, per paradosso si rovesciano in occasioni di percezioni nuove e di illimitati viaggi della mente, a confronto-scontro con la Televisione. Lo stesso disagio dell’assenza della reciprocità di ascolto fra il personaggio e il mondo esterno, cambiano di segno nel corso dell’opera: la quiete (l’inquietudine) coatta concede una concentrazione mai sperimentata; il silenzio e l’oscurità creano le condizioni per la morte annunciata. L’essere depressi non significa tuttavia per Sarah Kane essere al tempo stesso arrendevole e incapace di difendere le proprie idee: difese anzi con ardore la sua nuova dottrina della crudeltà, giungendo persino, ove ne vide il caso, ad essere veemente nei confronti del suo avversario (la società dello spettacolo). La nostra società suicidaria è pur sempre una società dello spettacolo e del controllo – da questo punto di vista la vita, la violenza di scena e la scrittura scenica di Sarah non ha nulla da aggiungere alle controverse analisi, hegeliane ed anti/hegeliane, di Debord e di Deleuze. Come ha osservato Szondi, questa «unità di salvezza e annientamento» è il «tratto fondamentale di ogni tragico»: “Giacché a essere tragico non è l’annientamento in sé, ma il fatto che la salvezza si trasformi in annientamento; la tragicità non si compie nel declino dell’eroe, ma nel fatto che l’uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi (P. Szondi, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi, 1996, p. 79). A questa idea i Greci diedero forma nella tragedia; ma, seppure non elaborata autonomamente nel concetto di tragico, essa non fu estranea alla loro filosofia: l’identità dei contrari è l’equivalente della forma tragica sul piano filosofico. Così Eraclito può dire: «La via in su e la via in giù sono una sola e medesima via» (22 B 60 D.K.). Gran parte della riflessione moderna sul tragico è scaturita dalla capacità di scorgere la relazione tra la forma filosofica e quella letteraria. È grazie a questa capacità che Nietzsche può definire la filosofia prima di Socrate, interamente letta nella chiave eraclitea, come la filosofia dell’«epoca tragica», dove l’aggettivo “tragico” indica il carattere «agonistico» del pensiero: un pensiero che, leggendo l’identità soltanto come identità dei contrari, nega l’essere in favore di quel divenire che sorge «dalla guerra tra gli opposti» (F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, tr. it. di G. Colli, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. III/II, Milano, Adelphi, 1982, p. 294). Solo che la extreme action writing scopre l’oscuro motore che mette in scena lo spettacolo e fa funzionare “l’apparato dell’Occulto”. Se il tempo della società dello spettacolo è come una fase dello specchio, che si prolunga ben oltre il trentaseiesimo mese della vita di noi giganteschi infanti, l’extreme action writing svela la lamina di stagno e piombo che permette allo specchio di decostruire l’integrità delle nostre immagini. Questo motore, questa lamina fatta di assoluta opacità, condizione di ogni posticcia trasparenza, è appunto il suicidio. Il suicidio, ovvero la minaccia di morte con la quale ognuno di noi viene tenuto sotto pressione nervosa dalla società religio-capitalistica, come direbbe l’inedito di Walter Benjamin, e dalle condizioni di sfruttamento ivi vigenti. Chi conobbe di persona Sarah Kane parlò di lei come di uno spirito artaudiano e beckettiano, portato all’estremo, discreto e diretto, di larghe vedute letterarie, in cui il tragico, la disperazione e la ragione timica (esistenziale) aveva la sua parte; uno spirito inquieto, non privo di profanazioni e di contrasti di genere. Questa inquietudine ella la trasferì nella ricerca letteraria, nella radicalità teatrale e soprattutto nella scrittura scenica a contatto col pubblico, con lo spettatore. Sarah Kane, nota comunemente per una versione del Woyzeck e la scrittura di cinque opere teatrali, non è mai stata impegnata fino in fondo nella ricerca e nella battaglia politica, ma nella sua breve carriera pur facendo prevalere sempre la dimensione dell’impegno artistico ed esistenziale, è riuscita a trasformare la ragione timica in una ragione politica. Oggi il mondo, sotto l’influenza di varie e contrastanti malattie, va verso una sorta di “spaesamento religioso e antitimico” di nuova formazione. La malattia dell’attore è al centro del teatro sociale, quindi di considerazioni particolari e di attenzioni, che variano a seconda dell’idea (marginale) che si ha di esso. Questo cammino del mondo, verso un rinato spaesamento antitimico, appare ormai irreversivibile. Il Teatro della Crudeltà, attraverso il concilio di sottrazione artaudiano e gli attori moderni che lo hanno adottato, consci del periodo che attraversiamo, hanno dovuto e devono rendere sempre più cosciente i conflitti tra alienazione e timicità: “Non sono di quelli che credono che per cambiare il teatro bisogna cambiare la civiltà; sono però convinto che il teatro, inteso nella sua accezione più alta e difficile, abbia la forza di influire sull’aspetto e sulla formazione delle cose; e che lo scontro sulla scena di due manifestazioni passionali, di due forze vitali, di due magnetismi nervosi, sia paragonabile per totalità, autenticità, persino per efficacia, a quel che nella vita è un accostamento tra due epidermidi in un amplesso senza domani” (Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1968 p. 160-161).
È in questa epoca storica che si situa la rivolta timica, la concretezza del teatro post-assurdo di Blasted. Con sorpresa osserviamo che anche per noi, per questo movimento suscitato oggi dall’assenza di teatro, la ragione timica assume un’importanza grandissima e determinante, forse difficilmente riscontrabile in altre precedenti correnti di lealismo (e nervosismo) teatrale. Se l’attore crudele è stato sempre oggetto dell’autenticità conflittuale, nelle innumerevoli opere della scrittura scenica che si sono curate di lui sotto i più diversi aspetti, egli per noi è nientemeno che la strada che ci permette l’accesso alla nuova sfera timica. Noi andiamo al sociale attraverso il teatro, o è il teatro che ormai viene a noi attraverso il sociale? Quando Van Gogh colla sua grazia ci fece intendere ciò, la cosa apparve nuovissima e risultò un salutare scandalo alla mentalità corrente di molti artisti per i quali gli attori, la creatura, era considerato spesso un ostacolo per la discesa verso la crudeltà.

Più volte, come ricordiamo, in questi anni abbiamo affermato che per noi l’attore, la dimensione performatico-attoriale, è ciò che per altri attori alla Sarah Kane, che tendono anch’essi alla crudeltà voluta dal realismo politico degli anni ‘90, è la denuncia della carcerazione sociale, la grata del malessere, il velo di Maya della difficoltà esistenziale. Coll’attore, col performer, noi possiamo riuscire a creare in mezzo al mondo un’oasi di denuncia esistenziale, di conflitto mediologico diretto, di catastrofe della comunicazione umana. Col teatro della nuova crudeltà è messa anche a prova la nostra virtù di affrontare le difficoltà del mondo, quando egli diventa, nelle difficoltà che può porci, uno strumento per il conflitto della società dello spettacolo. È ancora nella crudità alla Blasted che riscontriamo la prima e più grande arma per mantenere salda la nostra consacrazione al conflitto. È per la crudeltà che ha senso la nostra povertà (si pensi a Grotowski); ed è perché esiste O.M.T. (Orgien Mysterien Theater di H. Nitsch) che possiamo donare all’essere diretti l’omaggio della nostra dissidenza. Se analizzassimo tutta la nostra vita di membri di una Comunità del Teatro Sociale, vedremmo che essa, in ogni suo aspetto, non prescinde mai dall’altro. George Bataille non è solo l’autore di alcuni famosi romanzi erotici o il filosofo a cui si deve una Somme a/théologique, ma anche un saggista originalissimo, attento ai più diversi fenomeni culturali e sociali. Tra i suoi scritti ve ne sono alcuni, poco noti ma significativi, che hanno per oggetto l’arte moderna, quella che, preannunciata da certi bizzarri o drammatici dipinti di Goya, si manifesta con chiarezza nel metodo cruento degli impressionisti, si accende nelle fulminazioni di Van Gogh e deflagra producendo forme impreviste nei quadri di Max Ernst o del suo fedele amico André Masson. Dunque, Bataille elabora una propria concezione dell’arte moderna, secondo cui il rifiuto dei canoni tradizionali costituisce il modo necessario, che i pittori hanno trovato per suggerire alle “correspondance teatrali” di Artaud una nuova forma di crudeltà e bellezza. È una bellezza spesso crudele, sublime e perturbante, che ci suggerisce di opporre al mondo ordinario – posto all’insegna della subordinazione e del profitto – un mondo straniato, diverso, Blasted, in senso critico,in cui sia ancora possibile avvicinarsi a un’esperienza autonoma e sovrana (Pour Bataille. Dossografia del dilettantismo, a cura di G. Perretta, Galleria de’ Serpenti, Teatro Politecnico, Rome, 1996; cat. ed. Collant, Napoli, 1996). Infatti George Bataille, in un testo pubblicato in “Medicine de France” (4 giugno 1949), e titolato L’art, exercice de cruauté, dice: «L’arte ha finito col liberarsi dalla sua subordinazione nei confronti della religione, ma l’ha mantenuta di fronte all’orrore; resta aperta alla rappresentazione del ripugnante … […] Ormai il bambino, in qualche misura, resta sempre con la fronte incollata al vetro, nell’attesa di un momento folgorante. È una simile attesa che risponde all’esca del sacrificio; ciò che attendiamo fin dall’infanzia è questo alterarsi dell’ordine entro cui soffochiamo. Nel sacrificio un oggetto deve essere distrutto (distrutto in quanto oggetto e, se possibile, in quanto «separato»), noi ci introduciamo nella negazione di questo limite della morte, che affascina come la luce. Poichè l’alterazione dell’oggetto – la distruzione – ha valore solo nella misura in cui ci altera, in cui altera al tempo stesso il soggetto».
È un meccanismo rituale che tanto più persuade e intriga lo spettatore, quanto più l’artista rinuncia alla sua autorità d’autore (cfr.: art.comm, Roma, Castelvecchi, 2002), si fa discreto, quasi si nasconde e affida la focalizzazione, cioè il punto di vista, all’ottica del personaggio performante. In questo modo, pur nella saldezza dell’impianto costruttivo, l’opera teatrale assume un andamento mobile, dinamico, corrispondente, in cui la tecnica di far sembrare simultanei gli avvenimenti e la loro registrazione, simula una coincidenza quasi perfetta fra il tempo della storia e il tempo della performance, che dà continuamente scacco alle aspettative dello spettatore e lo incatena allo svolgimento imprevedibile dell’azione. È legittimo ipotizzare che l’attività di attrice e di giovanissima ricercatrice universitaria di Sarah Kane, studentessa e poi specializzanda in pratiche teatrali e recitazione, possa costruire il terreno teorico in cui sono state generate le sue cinque opere teatrali. Personalmente, tuttavia, non lo credo. Sia perchè casi analoghi di esperte-scrittrici hanno offerto, negli ultimi anni ‘90, risultati ben modesti. Sia perché, se fosse sufficiente essere artisti visivi o scrittori, scenografi, fotografi, registi o sceneggiatori, per produrre delle buone opere teatrali o degli ottimi incipit performatici, saremmo sommersi da una invasione di bei testi. No. A leggere i cinque testi di Sarah Kane: Blasted (Dannati – 1995); Phaedra’s Love (L’amore di Fedra – 1996); Cleansed (Purificati – 1998); Crave (Febbre – 1998); 4:48 Psychosis (Psicosi delle 4:48 – 1999), nessuno può negare che ci troviamo in presenza di una autentica poetessa, psico-linguista, performer, teorica dell’azione e artista visiva, diversa e incisiva rispetto all’area della Brit art (Anni ‘90). La sua preparazione umana, il suo vissuto di bambina/figlia dell’informazione e dei media (mi riferisco ai genitori che erano tutti e due giornalisti) può avergli agevolato il conflitto più che il lavoro: ma la sua capacità affabulatoria e la sua forza inventiva e performatica hanno origini autonome. Anzi dovendo pensare a qualche riferimento le sue action scriptures sono più vicine a Ulay che non a Marina Abramovic.