Gerhard Merz

Riflessioni sulla perdita dell’immediatezza percettiva

Il testo è in sostanza la relazione tenuta dal Prof. Vincenzo Cuomo all’Accademia di Belle Arti di Napoli il 12 gennaio 2024, durante il Seminario ispirato al libro di Gabriele Perretta

Il volume di Gabriele Perretta, Il sensore che non vede (Il sensore che non vede. Sulla perdita dell’immediatezza percettiva, Edizioni Paginauno, Milano 2023), è un libro-fiume e magmatico a un tempo. Vi si discutono molte questioni relative agli assetti psico-sociali tipici delle indebolite soggettività contemporanee, così come al ruolo delle odierne espressioni artistiche. E si discute del ruolo della critica d’arte.

Per evitare di disperdermi nei tantissimi rivoli critici del libro, vorrei evidenziare, tre questioni che lo percorrono, a mio avviso, in modo diretto o indiretto.

La prima questione riguarda i significati evocati innanzitutto dal titolo, “Il sensore che non vede”.

Il titolo è volutamente polisemico, perché allude, a mio avviso, contemporaneamente a più questioni. Innanzitutto a quella della “debolezza” delle soggettività contemporanee incapaci di mettere a “distanza critica” ciò che sentono. Ma, il titolo sembra alludere, in positivo, anche a una caratteristica degli artisti “autentici” che, novelli Tiresia, appaiono essere dei sensori nello stesso tempo ciechi ma in grado di prevedere il non ancora visibile. Infine, in alcune pagine, il “sensore che non vede” sembra addirittura dare un nome ai dispositivi di controllo mediale, alle macchine che vedono senza “vedere”, con le quali tutti quotidianamente facciamo i conti.

Tuttavia, per iniziare vorrei soffermarmi sulla prima delle possibili interpretazioni del titolo del libro, quella che fa riferimento a un individuo-sensore incapace di distanza critica.  

Che questo sia un individuo qualsiasi oppure, di nuovo, l’artista o sia anche il critico d’arte, cercherò di problematizzarlo dopo, perché, innanzitutto, l’espressione “il sensore che non vede” mi sembra faccia riferimento alla questione generale del cosiddetto sensazionalismo mediale già analizzato da vari studiosi – come Christoph Türcke, che ha proposto il concetto/immagine della società eccitata, dell’Erregte Gesellschaft (La società eccitata. Filosofia della sensazione, trad. it. di T. Cavallo, Bollati Boringhieri, Milano 2012), oppure come Richard Grusin con la sua analisi degli shock mediali e della pre-mediation (Radical Mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di A Maiello, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2017) – , anche se i primi pensatori a sondare il campo del sensazionalismo mediale sono stati, a mio avviso, Simmel e Benjamin – se tralasciamo la questione della psicologia delle folle che, non a caso, è nata come oggetto di studio tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, in concomitanza con le prime sperimentazioni del dispositivo cinematografico.

Per utilizzare due efficaci definizioni psico-sociali di Christoph Türcke, potremmo convenire sul fatto che le soggettività contemporanee, indebolite dalla pervasività degli shock mediali, oscillino di continuo tra l’esse est percepi e l’esse est percipere, vale a dire tra la coazione a tele-comunicare la propria immagine e la coazione a provare sensazioni sempre più intense e nuove (che Türcke definisce anche sensation seeking, cioè spasmodica ricerca di sensazioni). Restando sul piano per così dire fenomenografico, senza addentrarci nella complessa questione delle cause, la prima delle conseguenze di tale sensazionalismo mediale è l’iper-eccitazione di massa, che, a sua volta, racchiude un intreccio tra un sempre più diffuso deficit di attenzione, e quello che possiamo definire un habitus algoritmico multitasking – derivante dall’abitudine ad eseguire più o meno passivamente procedure algoritmiche multimediali e poli-sensoriali, per lavoro oppure come forma di intrattenimento (ma è noto che la distinzione tra lavoro e intrattenimento sia ormai da tempo molto sfumata). Tuttavia, l’iper-eccitazione mediale che ne consegue non è solo coazione a comunicare la propria immagine, né è solo ricerca di sensazioni sempre più forti e nuove ma è anche ciò che mi piace definire un perdurante stato psico-cognitivo di abbrivio, consistente nella riduzione, se non proprio dell’evaporazione, di ciò che Walter Benjamin chiamava Erfahrung, vale a dire “esperienza profonda”, se non vogliamo tirare in ballo anche lo Hegel della Fenomenologia dello spirito, che pensava proprio il fare esperienza come un tragitto “veritativo” che da una verità parziale arriva a un’altra più ampia e inglobante, ma passando attraverso ciò che egli definiva il travaglio del negativo. Ora, lo stato psico-cognitivo di eccitazione mediale, è da intendersi proprio come la progressiva riduzione delle esperienze emotive, sentimentali, cognitive, relazionali al loro stato incoativo e iniziale, cioè al loro stato di eccitazione, omologo al significato erotico della parola. Si tratta di una forma specifica di narcosi mediale diffusa – proprio nel senso di McLuhan, anche se Gabriele Perretta non mi è parso molto tenero nei confronti del sociologo canadese – una forma di narcosi su cui bisognerebbe riflettere. In ogni caso, se facciamo riferimento al medium informatico-digitale che da decenni ha fagocitato e trasformato tutti i media precedenti analogici ed elettronici, ben al di là delle previsioni di McLuhan, la forma iper-eccitante di questa diffusa narcosi mediale – narcosi che, come sapete, è una forma di fascinazione inconsapevole per i media che condizionano il sensorio soggettivo (quindi il “sensore che non vede” è pur sempre affascinato da ciò che vede) – tale forma di narcosi mediale non è solo caratterizzata dall’immersività – che è una caratteristica di tutti i media di percezione-cognizione-comunicazione – ma, come ho ricordato, ha come sua caratteristica specifica quella dell’iper-eccitazione multimediale e polisensoriale. Si tratta quindi di una forma di narcosi paradossale perché, al contempo, immersiva e iper-eccitante (Sulla questione dell’eccitazione mediale vedi V. Cuomo, Eccitazioni mediali. Forme di vita e poetiche non simboliche, Kaiak Edizioni, Pompei 2014).

Se ora, come fa lo stesso Perretta in molte delle sue pagine, quelle più impegnate politicamente – perché il suo è anche un libro pieno di passione politica – rendiamo meno astratte queste considerazioni sul sensazionalismo mediale e le leghiamo alla condizione psico-economica, oltre che psico-culturale, del capitalismo neo-liberista che sembra pervadere ogni aspetto della nostra vita soggettiva, inducendoci a una iper-produttività in ogni campo, sia quello lavorativo che quello della cultura e dell’entertainment, essi stessi indistricabilmente intrecciati, allora la questione dell’iper-eccitazione mediale diventa non solo più concreta ma anche molto più inquietante, perché il tutto diventa anche, se non in primo luogo, una questione di corpi.

C’è un passo di Perretta che – per quanto dedicato a un tema specifico, quello dei tatuaggi – mi sembra indicativo di tale connessione tra “sensazioni medializzate” e iper-produttivismo capitalistico neo-liberale: «la superficialità della corporeità è assenza di risonanza, oscillazione prevedibile dei moti psichici, che riceve silenziosità dall’allargarsi dell’orizzonte dell’alienazione» (G. Perretta, Op. cit., p. 71).

Passo ora alla seconda questione che attraversa il libro e che è molto più specifica del campo di studi dell’autore. Si tratta della questione della proliferazione delle mode artistiche e del connesso problema del disorientamento della critica.

Questa volta parto da un’altra citazione.

«Spesso, in tempi recenti – scrive Perretta –, è stata annunciata la fine della critica. Oggi, la critica sarebbe vittima dell’illimitata franchigia della scelta, della molteplicità delle opzioni artistiche, dell’approccio anarchico dell’arte e dell’impulso all’ottimizzazione del corroborabile estetico (o estesico). La critica non sarebbe possibile in un mondo di apparenti e sconcertanti occasioni illimitate. […] Alla crisi della critica non conduce soltanto l’eccessiva offerta del positivo del nuovo positivismo, bensì l’erosione della Critica, che ha luogo attualmente in ogni ambito della vita e si accompagna alla crescente trasformazione estetica e autoreferenziale della pratica artistica e performativa. Il fatto che la dialettica del negativo svanisca è, in definitiva, un processo drammatico, che però inevitabilmente avviene senza essere rilevato dai fautori della totalità liberale espansa» (Ivi, p. 72).

Cercherò di commentare questa descrizione relativa al disorientamento e all’erosione della “critica”. Parto ovviamente dal primo aspetto registrato da Perretta, che è quello della proliferazione di ciò che proporrei di chiamare decisamente mode artistiche e non più “poetiche” come accadeva nella tradizione “moderna”, ma anche novecentesca. Non ho qui il modo di mostrarlo (né forse tutta la competenza storico-artistica necessaria per farlo) ma penso che l’ultima grande poetica artistica, radicata in una potente filosofia dell’arte, per quanto al suo interno diversificata e non monolitica, sia stata quella del romanticismo, se restiamo ovviamente nel campo della cultura occidentale. Ma la poetica romantica – specie se ci riportiamo alla sua prima teorizzazione nella rivista Atheneum animata soprattutto, come sapete, da Friedrich Schlegel negli ultimi anni del Settecento – è stata anche quella che è, per così dire, tramontata proliferando, perché ha dato ai movimenti artistici successivi, a partire dall’impressionismo e l’espressionismo fino alle avanguardie storiche, i due principi fondamentali, vale a dire quello della de-generazione dei “generi” artistici e quello della radicale connessione tra arte e vita. Nel frammento 43 dei suoi Fragmente zur Literatur Schlegel, ad esempio, opponeva i generi poetici classici (epica, dramma, lirica) caratterizzati da “forma, contenuto e stile”, ai generi del romanzo (romantico) caratterizzati, invece, da maniera, tendenza e tono, opponendo cioè a una classificazione “oggettiva”, quella classica, una sentimentale moderno-romantica. Ne deduceva non solo che la poesia romantica dovesse riunire tutti i superati generi letterari in uno solo, quello romantico e progressivo; ma che la poesia romantica dovesse avere come scopo quello di poetizzare la vita e la società. Non è quindi un caso che i movimenti artistici tardo-novecenteschi e novecenteschi abbiamo ereditato dalla poetica romantica proprio questi due caratteri, quello della progressiva distruzione sperimentale del sistema moderno delle arti e quello della connessione tra arte, vita e società. Tutto ciò è accaduto come sappiamo in concomitanza con: 1) le trasformazioni del capitalismo proprietario dapprima in capitalismo dei consumi, poi in capitalismo finanziario; 2) l’irruzione delle masse nella politica; e ha comportato la progressiva trasformazione dei movimenti artistici, coi loro manifesti proclamanti il nuovo – per dirla con Arthur Rimbaud –, in una convulsa congerie di mode artistiche, in cui è diventato davvero difficile separare, per così dire, il grano dall’oglio, difficile distinguere le sperimentazioni artistiche “autentiche” dalle pure e semplici operazioni di mercato.

Ma Perretta, come abbiamo letto, aggiunge anche una notazione essenziale: la progressiva erosione e poi (apparente) espulsione del “negativo” dall’orizzonte della Critica. Si tratta di un tema molto complesso da affrontare qui in modo esauriente; tuttavia, potremmo dire che, soffermandoci forse solo sul suo aspetto più superficiale, nella “positivizzazione” del negativo che buona parte delle odierne mode artistiche sembra promuovere, è possibile registrare o una espulsione della realtà del dolore, della sofferenza, cioè di ciò che potrebbe disturbare la gioiosa fantasmagoria delle merci artistiche, oppure una sua riduzione spettacolare a semplici e fugaci esperienze di passaggio, come accade in quelle serie televisive nelle quali la morte viene immediatamente trasformata in una breve occasione di malinconia evidenziata da una toccante colonna sonora, per poi scomparire dalla diegesi narrativa. 

Ma c’è un altro aspetto di tale espulsione del negativo che è ben più radicale perché ha a che fare con la tendenziale trasformazione di ogni conflitto in un’occasione di proliferazione di differenze consumabili.

La conseguenza, registrata in quasi ogni pagina del libro di Gabriele Perretta, è che tale proliferazione di mode artistiche finisca per disorientare e rendere quasi impraticabile la critica d’arte. Un aspetto importante di tale disorientamento è la riduzione del critico a semplice curatore.

Ma su questo punto ridarei la parola a Perretta che scrive: «la società dell’ideazione, quella della produzione curatoriale, quella dell’emittenza e quella della ricevenza dei beni culturali, delle politiche curatoriali e delle progettualità espositive, è dominata da fobie neo-liberali e pianificatrici». E aggiunge «da questo schema è facile intuire che la curatorialità è dei tutori fobici, è di loro spettanza, sembra che sia il loro diritto. È il loro giardino riservato nell’ortomercato della fobia, della trasposizione, del racconto fasullo, dell’affermazione dell’idiozia. Così tutti abbiamo la coscienza a posto» (Ivi, p. 270).

Questa citazione mi porta, in conclusione, a parlare brevemente di un altro tema che percorre il libro, che è quello, per usare ancora le parole dell’autore, della «progressiva erosione del muro tra la realtà e la finzione» (Ivi, p. 29).

È un tema che è stato al centro di molte riflessioni critiche, specie nei passati decenni. Mi riferisco innanzitutto a Baudrillard e alle sue tesi circa la società della “simulazione integrale”, tesi intrecciate anch’esse con il problema del “negativo” cui accennavo prima. Infatti, Baudrillard sosteneva proprio che la società della simulazione integrale fosse quella in cui tutto il negativo sarebbe stato positivizzato e valorizzato in un sistema sociale in cui, in apparenza, non si darebbe che una continua e spettacolare proliferazione di differenze.

Perretta arriva a sostenere una tesi molto simile quando definisce la società neo-liberista e medializzata odierna il “nuovo sistema della falsificazione integrata” (NSFI) (Ivi, p. 95). È evidentemente un’iperbole retorico-critica, perché, a differenza di Baudrillard che, nei confronti della simulazione integrale della società, era giunto a pensare solo due possibili uscite, o quella del terrore in grado di infrangere gli specchi dell’apparenza, oppure quella dell’illusione radicale, cioè di un’ipertrofizzazione del simulacro, Gabriele Perretta sembra riporre speranza politica in un’alternativa creativa concreta che egli, in varie parti del libro, chiama art communities, comunità artistiche acefale e anonime in grado, se ho ben interpretato il suo pensiero, di strutturare dal basso forme di vita non capitalistiche. Questa mi sembra essere la via d’uscita che il suo libro propone.

Vincenzo Cuomo

È studioso di estetica e di filosofia della tecnica. È direttore della rivista internazionale di filosofia Kaiak.