Pratica Poetica Politica
Giovanni Gaggia con l'opera Pratica Poetica Politica, Palermo Museo Riso, foto Michele Alberto Sereni

Pratica Poetica Politica

L’estate è finita. Quale la vostra mostra preferita? Andrea Guastella non ha dubbi: Pratica Poetica Politica di Giovanni Gaggia, a cura di Desirée Maida, al Museo Riso di Palermo.

Che lunga estate, di mostre ed eventi. Dopo la ristrettezza, un poco di respiro. Quel tanto che basta per affrontare una stagione che si preannuncia, oltreché fredda, incerta, tra elezioni politiche e turbamenti sociali. Di tutte queste rassegne mi piace menzionarne una, Pratica Poetica Politica di Giovanni Gaggia, a cura di Desirée Maida, al Museo Riso di Palermo dal 6 maggio al 31 agosto 2022, che ho avuto la fortuna di visitare, una domenica di luglio, in compagnia del suo autore. 

Incontro Giovanni nell’androne del museo, nel punto esatto in cui l’aria condizionata e il calore dell’esterno – sono le dodici in punto – creano vortici, correnti ascensionali. Salite le scale, dopo aver rischiato di inciampare in un’istallazione di candele realizzata da artisti “residenti”, scenografica ma non troppo convincente, ci avviamo all’ala nuova del palazzo, da poco restaurata; quella, per capirci, in cui è ospitato in permanenza un lavoro luminoso di Boltanski: una camicia con tante lampadine accese che mi ricorda la copertina di Delicate Sound of Thunder, album dal vivo dei Pink Floyd (ma senza Roger Waters) dove un vecchio col bastone che indossa una camicia simile si staglia su un paesaggio tra il vulcanico e il lunare. 

Le luci, in effetti, creano un’atmosfera surreale. Si capisce che la stanza è l’anticamera di un incubo, avvenuto tanto tempo fa: Giovanni Gaggia lavora sulla memoria della strage di Ustica; tema messo a sistema da Boltanski nel museo di Bologna, l’unico dedicato alla tragedia, da cui Giovanni ha tratto ispirazione. 

La prima cosa che salta agli occhi è difatti una serie di fogli, appesi come lenzuola ad asciugare, in cui i resti mortali della strage – un cucchiaino, una tazza – che nel museo bolognese si presentano pesantemente incapsulati, si librano nel vuoto. Dove Boltanski chiude, Gaggia apre. E il nero del fondo, che dovrebbe evocare il sangue raggrumato, sembra una macchia di caffè. È come se il disegno, trasfigurando la morte, rendesse il passato leggero e vagante. Questi oggetti non sono più ex voto ma foto di un album familiare: l’album impresso nella coscienza collettiva di “ciò che doveva accadere”, la frase di Daria Bonfietti che ossessiona l’artista da quando, circa un decennio fa, presso la cavallerizza del Palazzo Costantino di Palermo, cucì in un carattere un filino più sottile la “e” finale di “accadere” su un arazzo in precedenza lavorato. E la mostra, nel suo complesso, è soprattutto una mostra di parole. 

Le reliquie che espone, come, sempre nella prima sala, la sagoma di forma circolare aperta su un mare di carta, neanche fosse un oblò, o la scatola vuota servita da imballo all’arazzo per le spedizioni postali, o i nove sassolini e i fogli col “Nove” nove volte ripetuto che richiamano l’evento, a cominciare dalla sigla dell’aereo caduto, sono frasi sillabate sull’orlo dell’abisso; sottovoce, poco prima di venir risucchiate dalla penombra ambientale: metafora assordante del silenzio caduto sui fatti del DC9. 

Ungaretti scriveva di parole luce, parole che feriscono il buio. Ma le parole di Giovanni non separano: ricuciono. Risarciscono nell’avventura del presente la dimenticanza del passato. 

Non a caso, nella seconda stanza, dominata dall’arazzo con tre lemmi sovrapposti, “Pratica Poetica Politica”, la mostra diventa esperienza performativa, condotta in compagnia di alcuni alunni del Liceo Classico Vittorio Emanuele di Palermo i quali, anziché lavorare in verticale, hanno fissato le loro impressioni su una sorta di tela poggiata al pavimento. Qui le tre “P” dorate dell’arazzo, dove la sequenza delle parole incolonnate richiama forse gli enigmi – anch’essi irrisolvibili – del quadrato magico latino, divengono le iniziali, svelate, di Padre Pino Puglisi. Ma avrebbero anche potuto essere la sigla di Pier Paolo Pasolini: uno dei pochi a denunciare, e a testimoniare con la morte, gli intrighi di potere alla radice delle pagine più buie della storia repubblicana. 

Le vittime sono davvero tutte uguali: di loro restano soltanto i puri nomi. Guai però a sottovalutare il potere delle parole. Come insegna la Torà giudaica, le parole decidono il reale. Chi le pronuncia, anche se cieco, può vedere. Lo testimonia, nell’ultima stanza, un terzo telo al cui interno campeggiano dei cerchi pieni e vuoti. Al suo cospetto, la mia prima tentazione è stata contarli: avrebbero potuto essere i posti occupati dai viaggiatori su una pianta dell’aereo. Mi sbagliavo. Si tratta piuttosto della trasposizione ottica di una sequenza alfabetica in Braille, disponibile al tatto su una colonna metallica – un rotolo della Legge – collocata a fianco della tela. 

La traduzione? Pratica Poetica Politica. Le medesime parole. O forse no. Svuotate di ogni immagine accessoria, purificate di ogni riferimento ai fatti di Ustica, le parole ritornano umane. Diventano la voce della moglie di una delle vittime. Una voce calda, familiare, che è possibile udire solo addentrandosi in una scala a chiocciola, che somiglia vagamente a un padiglione auricolare. Giunti al suolo, tutto è dimenticato. La strada per giungere al vero è ancora lunga, ma, purificati dai preconcetti, e dalla calura estiva, ci riuscirà forse più facile ricominciare a camminare.