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Poesie d’amore e d’altri mari di Carlo Michelstädter (III parte)

Carlo R. Michelstaedter (anche Michelstädter) (Gorizia, 3 giugno 1887 – Gorizia, 17 ottobre 1910) Poesie d’amore e d’altri mari, a cura di Luca Campana. Note al testo di Andrea Bajani e Enrico Terrinoni, Interno Poesia editore, Latiano 2023. Passiamo ora all’atteggiamento poetico interno, o meglio «lirico», se vogliamo cogliere già il termine in tutta l’ampiezza della sua estensione. Qui siamo già in un terreno diverso. Ogni realtà che rientra nell’ambito dell’atteggiamento «teso» diventa, infatti, un segno di tipo particolare; e lo diventa immediatamente, nel momento stesso in cui vi è immesso. Una via viva, una via lungo la quale il piede avverte le pietre, una via che torna indietro, in sé stessa – questa è la via della poesia.

Persona inadatta alla realtà, è certamente uno scrittore inadatto al successo; e di ciò è, in qualche modo, consapevolmente vissuto. Carlo M. viene da molto prima del suo tempo, ma arriva anche molto oltre, esce fuori come certe maiuscole che non trovano spazio fra le righe anguste di un quaderno. Salta il conformismo buio delle attribuzioni ideologiche di destra e di sinistra e quello, non meno tetro, degli anni di tirocinio; quindi, arriva, persuaso e un po’ stralunato, nell’Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Ma anche oggi sono pochi quelli disposti a prenderlo sul serio. Fa in qualche modo paura? Una paura che colpisce accreditate e soddisfatte certezze? Forse sì. Perché se si trova un biografo di prestigio disposto a riproporlo, quello stesso biografo sembra poi abbandonarlo o usarlo per strumentalizzazioni politiche. Carlo M. rischia così di restare sepolto negli archivi di stato e nelle biblioteche dei lasciti indecifrabili, quando non esiste in Italia uno scrittore e un filosofo più diverso di lui, imprevedibile, ribelle a ogni idea convenzionale e, in questa ribellione, coraggiosissimo e pronto alla persuasione.

Carlo M. viene dal mare e non ha con la cultura accreditata del suo tempo quasi alcun rapporto. Tra le domande della critica, quella sul rapporto tra lingua poetica e lingua o scrittura critica rimette in gioco, in maniera feconda, entrambi i termini di tali rapporti: lo sguardo del commentatore attraverso la poesia sviluppa, a partire da esso, un discorso in cui la parola è interrogata nel suo ruolo storico e temporale, per fornire di nuovo la riflessione critica: quello strumento di cui essa ha bisogno e che nell’affidarsi soltanto alle proprie argomentazioni, non riesce a definire. Tuttavia, tra parola critica e parola simbolica, tra scrittura commentativa o persuasiva, parola poetica e “oltre retorico” non può esserci un rapporto subordinato, ma di reciproco dialogo: un “dialogo della salute”, in cui la retorica dà alla poesia ciò che le manca e la critica, per giungere alla persuasione, dà alla retorica ciò che alla visione scritta sfugge, nel comune, infaticabile tentativo di comprendere la realtà, nonostante atteggiamenti e punti di vista differenti su di essa. In questione sarà, allora, il senso di una “rettorica” che, come la critica, anche la poesia frequenta, ma che passando attraverso il filtro poetico (e il tentativo etico) viene trasfigurata e acquista caratteri diversi e decisivi proprio in virtù dell’enigmatico processo di trasformazione che subisce. Spesso la critica ha cercato una collocazione e una sistemazione della poesia, all’interno di un quadro generale, tradendo quella tendenza all’egemonia persuasiva ed etica, che non di rado la contrassegna. Forse – grazie al Dialogo (ecologico) della Salute di Carlo M. – è venuto il tempo in cui a prevalere sia di nuovo una posizione di ascolto critico della parola d’”amore degli altri mari”, lasciando che sia la poesia ad offrire alla critica ciò che essa vuole e può donare. Riprendere la domanda sul rapporto tra critica e poesia, tra persuasione e parola poetica, amore e altri mari, significa tornare ad interrogarsi anche sul rapporto tra poeta e critico, al di là di quello che ne pensava il funzionalismo di Bruno Munari di Arte come mestiere(Laterza 1966), Design e comunicazione visiva (Laterza 1968), Artista e Designer del 1971, Codice Ovvio (Einaudi 1971), Fantasia (Laterza del 1977). Se il romantico è stato il tempo in cui la poesia ha avuto un posto privilegiato al centro della riflessione critica, tanto che la veste del poeta-persuaso si è identificata spesso con quella del persuaso-poeta, nei decenni successivi, e nel corso del ‘900, con il mutare dei problemi e dei viaggi di attraversamento, si è assistito ad un analogo mutamento della poesia che, non solo nella forma, ma anche nei contenuti, è diventata una modalità della lingua entro cui manifestare propriamente un’etica della persuasione. Scrittura poetica e persuasione sentono la voce dello spirito sussultare al ricorso dei pochi volti, dei sospiri nelle nuotate d’altri mari, per sprofondare nell’abisso metafisico, per cogliere la rivelazione dell’essere e portarla alla luce attraverso il fiato così che il linguaggio nuoti verso il disvelamento dell’essente. Scrittura poetica significa interrogazione su ciò che è fuori dall’ordinario. Scritture poetiche e parole di persuasione parlano la stessa lingua, quella degli extra-ordinari come Carlo M., dei visionari della Persuasione che spendono la propria esistenza per realizzare un sogno, una visione. Interrogarsi, porsi delle domande, cercando caparbiamente delle risposte, è il sacro compito del persuaso e del poeta. In ogni domanda, in ogni ricerca, lo spirito ascende verso dimensioni superiori di persuasione, bellissime e dotate di cura, anche quando le ombre ammantano la visione, che ben presto si farà luminosa. Persuadersi, riflettere nel solco di Socrate, Gesù e Parmenide sono le uniche vie percorribili per divenire etici, lasciando così che il pensiero si trasformi in “poesia d’amore e d’altri mari”. 

In ebraico, la radice della parola arte, amanut, è amm: assai stranamente, la parola emunah, “fede”, la parola amen e la parola omanut appartengono alla stessa radice, il cui senso è innalzare, essere innalzato e portato, essere vero, essere fedele, avere fiducia, immergersi nella persuasione, stringere un’alleanza. Nella poesia dell’interrogazione, Carlo M. si chiede: “Come nasce l’arte?”, e risponde: “Come rimedio della conoscenza”. La medesima idea attraversa il pensiero ebraico che vede l’arte, sia quella dei Salmi sia quella del Mishkan (il Tabernacolo della Presenza), come l’espressione più sublime della Devekut, dell’adesione persuasiasiva della vita all’essere. Il Tikkun nella Cabala è appunto la riunificazione dei due alberi del Gran Eden: l’albero della vita e l’albero della conoscenza, che in definitiva sono un unico albero. Come la riconciliazione del Dionisiaco e dell’Apollineo. In fondo, la pratica della scrittura d’arte sarebbe l’accordo tra l’idea dell’Alto e la materia del Basso. Ogni creazione sarebbe devekut (adesione, persuasione) a una volontà, a una ispirazione, a una luce primordiale, a un progetto. Siccome però la responsabilità creatrice presso il mondo ebraico verte più intorno alla vita che intorno alla materia, al disegno, alla sola pittura, al solo esercizio scultoreo, solo Carlo M. ha sempre preferito il libro: costantemente interrogato. In Aristotele l’arte è catarsi, purificazione delle passioni, mediazione tra le persone e sublimazione. Nella stessa scia, il pittore Georges Rouault può scrivere: “l’arte è un ammirevole sfogo, può essere un ardente confessione o una comunione”. Presso gli ebrei come Carlo M. l’arte non è catarsi: è una possibilità di adesione alla creazione, è quello che consente di riparare alla “rottura dei vasi”. Il simbolo ha, dunque, la particolare proprietà di essere sempre aperto, generale, universale: consente il passaggio dall’individuale allo spirituale comunitario. Lo sguardo divenendo coscienza metafisica, visione interiore che trascende la natura e si inscrive nell’essenza, testimonia il fatto che non è possibile la diceria secondo cui Julius Evola sarebbe stato il vero attualizzatore e scopritore di Carlo M. Il simbolo consente non soltanto di capire, ma anche di vivere un’esperienza o un dato, così come entrare nel mishkan era probabilmente partecipare al movimento dei pianeti e della rivoluzione della Terra e dell’incessante vita degli atomi. Il simbolo diventa la chiave dell’esperienza persuasiva perché proietta il poeta in una vera relazione politica, anziché in una definizione. Conscio ed inconscio – in contraddizione alla strumentalità che Julius Evola vorrebbe attribuire a Carlo M. – funzionano, dunque, in una libertà assoluta, in quanto fine di ogni fissazione, di ogni limitazione. Il simbolo rende possibili tutti i possibili, pertanto schiude l’accesso agli “altri mari”. L’arte di Carlo M. è un’arte proto-concettuale e astratta (dalla parte di Tolstoj): un’arte che si è evoluta nella liberazione delle contingenze della materia artistica e poetica; un’arte che aspira innanzitutto a suggerire la mutevolezza cosmica, a integrare il reale nella sua sorgente primordiale. Il ricettacolo, l’oggetto della scrittura poetica, diventano al limite astratti, in quanto non esistono per se stessi, ma nella misura in cui ricevono la luce, l’ispirazione, l’anima. La loro finalità, quella di trattenere la scintilla dell’Alto. Tuttavia il ricettacolo non si accontenta di essere solo passivo, ma diventa passivo/attivo: proprio come quell’essere che riceve il seme e poi genera nel proprio corpo. Riceve e rivela. In una simile prospettiva, l’oggetto non è più riproduzione fotografica di uno spazio-tempo definito ma, nella sua stessa astrazione, l’immagine della persuasione vitale, dell’incessante movimento dei pianeti del cosmo (pensiamo ad A. Blanqui, L’eternità attraverso gli astri. Una cosmologia fantastica, a cura di F. Desideri, Theoria, Roma, 1983; ed all’interpretazione di Walter Benjamin in Parigi Capitale …), del sangue nel corpo, l’immagine del mutevole nella scrittura e del non permanente (l’immagine positiva della fluidità). Per affinità tematica, è immediato il richiamo all’Eureka di Edgar Allan Poe ma, se nel caso di questi è possibile ravvisare una continuità analogica tra le sue trame investigative e la decifrazione del “crittogramma dei cieli”, ne  L’eternità attraverso gli astri si ritrova l’anticipazione dello Zarathustra. Una concezione che Walter Benjamin – certamente il più illustre, se non il solo, lettore di questo testo – interpreta come il malinconico documento di una sconfitta storica: è l’idea di progresso, anzi l’idea stessa di storia, a vanificarsi nella «fantasmagoria» di un cosmo senza fine. L’universo di Blanqui precorre, sempre secondo Benjamin, la teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche: al finito numero di elementi del primo, il secondo sostituisce un numero limitato di «centri di forza». Nell’antichissima tradizione ebraica, così come nell’abitudine del “permanente-rotto” napoletano (vedi Alfred Sohn-Rethel e lo scritto su Napoli; Das Ideal des Kaputten, a cura di Carl Freytag, Bremen, Verlag Bettina Wassman, 1990, pp.33-38), il fatto di non completare deliberatamente una cosa o un’opera d’arte, che di solito viene collegato con il ricordo della distruzione del tempio, potrebbe qui trovare un altro senso: l’impossibilità di Carlo M. di consegnare la sua tesi di laurea, potrebbe essere la legittimazione ascetica del Sabato del Villaggio, il commento ai suoi ultimi giorni di vita, o la spiegazione alle parole dette al padre rifiutandosi di fare il professore, l’intento di recarsi verso il mare, forse a Pirano o a Grado. Infatti, il 17 ottobre, dopo un diverbio con la madre, impugna la pistola, lasciatagli da Enrico Mreule, e si toglie la vita. Sul frontespizio della Tesi aveva disegnato un simbolo fiorente, una lampada ad olio, e aggiunto in greco “apes bestehen”, “io mi spensi”. Quando il Cantico dei Cantici descrive la chioma della fanciulla come sostanze che scendono dalle pendici del Galaad, Carlo M. potrebbe essere interessato a vedervi soltanto le onde del suo movimento. Ritornando alla radice ebraica amn e alle due parole che da essa hanno origine: emunah, fede, fedeltà, e amanut, “arte”, per tentare di approfondire ulteriormente le connessioni: l’artista che lavora con la materia mutevole della poesia, sulla mutevolezza, sulla materia dell’energia stessa, deve essere persuaso ad un disegno, a una trascendenza, alla sua scintilla per creare; altrimenti si trova permanentemente confrontato con la morte. E se, nella legge ebraica, il contatto con un poeta morto rende impuri, è più un motivo metafisico essenziale che un tabù religioso o igienico: la morte è l’interruzione definitiva del flusso, dell’energia parmenidea; essa non può più incontrare la vita. Ben oltre il secondo comandamento e il suo interdetto, occorre definire la “relazione poetica” tra l’ebraismo e l’arte! È forse per questo che la scrittura di memoria ebraica è sempre stata più a nostro agio: “in una creazione che non fosse per sé ma per la comunità”; non perché abbiamo voluto essere più artigiani che artisti, ma perchè se l’oggetto era connesso con un’essenza, l’interazione permanente con questa ci assicura la vita; ovvero non saremmo finiti in un Museo, ma avremmo partecipato liberamente alla storia delle persone e della comunità e conseguito con loro l’ascesa alla liberazione. 

Nella vita di ciascun giovane-poeta si manifestano momenti di difficoltà, insuccessi, perdite, rinunce che ostacolano lo stadio finale o rivedono l’immagine della fine. Di fronte a queste situazioni gli individui si dividono in due grandi categorie: quelli che soccombono e quelli che si rialzano e riprendono a camminare. Entrambi hanno paura di non farcela, così come entrambi si fermano al “sabato del villaggio”, avendo paura della domenica della vita, la domenica di un passaggio o di un traguardo, ma di fronte a tale paura ogni giovane poeta reagisce in modo molto differente. 

A fare la differenza sono le esperienze che il giovane-poeta ha vissuto nella vita e le reazioni ad esse che ha assimilato e tentato di rigettare. Una serie di fallimenti può giocare un ruolo importante, così come le esperienze vissute da piccoli nell’ambito della scrittura conclusiva, di una scrittura della verità, e in particolare lo stile formativo di un’indagine: forse chè la tesi di laurea di Carlo M. rappresenta l’impossibilità del superamento della rettorica? Essersi sentiti dire spesso «Non ce la farai mai a superare la Rettorica», oppure «Sono certo che ce la farai, all’interno del tuo modo di leggere Socrate e di vedere i persuasi», fa un’enorme differenza nel futuro di una persona. Ma la buona notizia è che il giovane-poeta, dopo aver steso la sua tesi di laurea e dopo aver codificato l’ultima parola del suo discorso, continua ad apprendere e a portarsi avanti nella progettazione di qualcosa che concettualmente dovrebbe venir dopo. Le ultime ricerche nel campo della neuroplasticità confermano che il cervello impara continuamente e si adatta nel corso della nostra vita, fino al punto che supera mentalmente ciò che invece gli resta nel respiro, nel fiato corto, in una specie di “sindrome teleologica dell’interruzione”. Cosa potrebbe essere la sindrome teleologica dell’interruzione? Attività rivolta al conseguimento di un obiettivo, cioè indirizzata alla realizzazione di uno scopo, decisione di superare il sabato del villaggio o farla finita prima che arrivi la domenica, indipendentemente dal fatto che sia un atto volontario o un’azione inconsapevole: potrebbe essere definito un “atteggiamento finalizzato all’inconcluso volontario”, cioè orientato ed intenzionale; dal greco τέλος (télos → fine) e λόγος (lógos → discorso), il comportamento teleologico può essere considerato come un atto finalistico e finalizzato, che mira a realizzare un traguardo, dissociazione tra fine o inizio di una tesi, confusione teleologica, caos: spartito infinalizzabile e superamento definitivo della rettorica. L’espressione esaurimento nervoso (nevrastenia o neuroastenia) della teleologia è stato introdotto nel XX° secolo, involontariamente, proprio da Carlo M., che lo sottintese attraverso l’utilizzazione del suicidio, per indicare una condizione pervasiva caratterizzata da fatica cronica e disabilità alla teleologia momentanea. Oggi, nel linguaggio comune, si parla di “esaurimento nervoso da compimento” per indicare uno stato generale di stanchezza e debolezza fisica e mentale, che può comprendere un’ampia varietà di sintomi: senso eccessivo di ricerca della verità, dopo uno sforzo mentale e difficoltà a concentrarsi (con conseguente riduzione dell’efficienza sia nella scrittura poetica che in altri compiti della vita quotidiana), debolezza fisica, stanchezza cronica alla parola ultima, dolori, difficoltà a rilassarsi, vertigini da compimento, riduzione della capacità di provare emozioni rettoriche (anedonia teleologica), umore estetico irritabile (“nervosismo teleologico”). In pratica, la dizione “esaurimento da compimento” è stata, ed è tutt’oggi, ampiamente utilizzata per riferirsi a un periodo difficile che causa sintomi ascrivibili agli stadi depressivi e ai disturbi ansiosi del “futuro domenicale”. Nello specifico, è una condizione che insorge in modo acuto, dopo un periodo particolarmente stressante di compilazione di una tesi di laurea. 

La nozione di un’immagine poetica vagamente percepita, come qualcosa che si agita dietro il superamento della Rettorica, non è certo un finalismo facile. Il demone socratico, il moi habituel, la bete vissuta da Carlo M. dimostrerebbero, in modo eloquente, l’esistenza perenne di un domenicale celato sotto la soglia della coscienza di ogni poeta-giovane. Il persuaso, lo straniero prossimo alla decisione del suicidio, è stato di volta in volta considerato fonte di ispirazione, o motivo di orrore teleologico ed è entrato così nella storia del pensiero occidentale come un grande mistero insoluto, come un telos da evitare. Davanti a un problema o a una ricerca di verità la prima azione che tutti compiamo, a livello inconscio, è di analizzare se abbiamo le risorse per affrontare con successo o meno il passaggio alla persuasione. Se il risultato di quest’analisi porta a una risposta negativa, la paura poetica e ontologica di non farcela si trasforma in un blocco per le nostre eventuali azioni e reazioni. Non è, quindi, tanto il tipo di problema che stava affrontando Carlo M. che fa la differenza, quanto il livello di autostima del poeta, quanto il giovane-poeta crede “in se stesso”, quanta fiducia ha impiegato nella scrittura biografica e lirica del “noi stessi persuaso” o, viceversa, quanto poco credeva nelle sue capacità ermeneutiche, per affrontare la “vita della domenica”. E del resto, è seguendo questa linea interpretativa che Carlo M. ha ripreso in esame la tradizione letteraria e filosofica della rettorica. Ci si imbatte sempre nella stessa immagine “minuziosamente somigliante all’altro da sè”, magari affacciata in uno specchio che sta per infrangersi, doppia e fatalmente contrapposta alla rettorica della vita banale. Buoni livelli di rinuncia si traducono in una percezione di capacità di fronte al problema del telos e pertanto favoriscono un’azione positiva dell’arresto. Una bassa autostima, al contrario, significa una percezione di scarse risorse che comporta una tendenza a soccombere passivamente davanti alle difficoltà. Ecco perché alcuni poeti-giovani tendono ad essere capaci o incapaci di superare le sfide di una ricerca della verità esistenziale che si trovano a dover affrontare. Si sviluppa una sorta di pattern di interazione con le difficoltà, che si ripete nel corso della vita di un poeta. Acquisire un grado maggiore di obiettività nei propri confronti, permette anche di smussare quel lato ipercritico che tende al perfezionismo, presentato da molti dei giovani-poeti. La nostra società e il sistema del successo, la piattaforma dell’autostima e della realizzazione, in particolare, tendono a creare degli approcci standardizzati ai problemi e ciò invita il poeta-giovane a cercare sempre di aderire a un modello specifico di azione o comportamento e ad essere implicitamente ipercritico, nel momento in cui non si calza a pennello con quel modello. L’epitaffio sulla tomba di Oscar Wilde recita così: “Solo gli emarginati mi rimpiangeranno, perché degli emarginati è il lutto”. Ai margini dell’“epopea persuasa” figure di depressione e arrendevolezza esile vagano in un limbo destinato al riconoscimento postumo.

Sul finire dell’estate del 1910, un poeta goriziano, giovane e positivo, malinconico all’inverosimile se ne va in giro per gli ultimi mari, con una flebile voce suadente e soffusa. Si chiama Carlo M. La schiettezza del poeta va fatta risalire, oltre all’enorme emotività di alcuni suoi “troncati poemi”, alla capacità di trasmettere in un modo sconcertante tutto il suo flebile desiderio di raggiungere la persuasione, la sua impossibilità di non sentire. Le poesie di Carlo M. sono “contro-spleen”, sono poesie di lacrime dolci, immagini spettrali di una fine inevitabile di etereo abbandono. Un presagio e un monito di indicibile drammaticità, ma con una disperazione lieve, quasi romantica, il testamento di un poeta che di lì a dieci anni avrebbe avuto il meritato successo dai figli dei suoi disattenti contemporanei.

Tra i giovani-poeti più strumentalizzati di sempre, eppure di un’influenza clamorosa per le generazioni a venire, Carlo M. diviene il padrino, l’artefice del “telos interrotto”. Tuttavia, non sempre il comportamento previsto è il più adatto a noi come singoli scrittori di un “canzoniere” di fronte ai nostri specifici problemi. Per questo dobbiamo sviluppare il coraggio di non bloccare la nostra creatività di fronte alle difficoltà. La paura di non farcela è lì per insegnarci come agire meglio, e non per bloccarci. Per questo è una sensazione di base, così presente in noi e ci ha accompagnato in ogni fase della storia evolutiva di noi come specie e come individui. Se si vive la paura della laurea come un freno, essa rappresenta una vera e propria trappola della mente poetica destinata a impedirci di vivere appieno. Se, all’opposto, la vivi come un’occasione per migliorare l’esercizio di persuasione, uscirai dalla trappola rettorica e inizierai a vedere il mondo e le sfide del linguaggio sotto un’altra prospettiva.

Il giovane-poeta con scarsa autostima non solo non riesce a vivere pienamente e ad affrontare le problematiche che le si presentano davanti, ma in più si isola dagli altri nella convinzione di avere qualcosa di sbagliato, da nascondere. Spesso si instaurano così sensazioni di solitudine, di emarginazione, di frustrazione e di vera e propria depressione che nuocciono alla scrittura. Oggi sappiamo che la qualità della nostra “scrittura del limite” determina la qualità della nostra vita e, per molti aspetti, anche della nostra capacità di superamento. Non si può restare sulla soglia della persuasione senza essere fobici, non si “può abitarci” senza essere combattuti dalla rettorica. L’insoluto del superamento della rettorica della vita sembra essere quello della fine della persuasione. Di fatto, esso appare in positivo non appena il negativo della nevrosi poetica lascia inconclusa la sfida della laurea. Questo è ciò che avviene nel destarsi del sogno delle sostituzioni. Dal potenziale persuaso, lungo tutto il breve tracciato del goriziano, abbiamo assistito al rivelarsi di un non-luogo. La nevrosi della laurea non è topica è atopica. Il luogo si rivela nel suo sciogliersi, ma è un non luogo di così “terribile impasse” da restarne tramortiti prima che “suicidati dalla società”. Ma allora non per niente un accenno alla questione della rettorica – che implica la domanda come sopportare di non raggiungere e superare la laurea? – è anche qui, nella domanda rivolta a se stessi su cui ci siamo soffermati, grazie a Carlo M., come scrivere un intero trattato e poi non pubblicarlo. Un intero trattato: strano ritorno della rettorica. Come se la rappresentazione dell’intero appartenesse alla sua sfera incompiuta. E, infatti, nel fluire inarrestabile, e in qualche modo inafferrabile, del tempo, non è sulla linea evolutiva da cui discendiamo, la linea darwiniana che procede dal fondo remotissimo della natura antisofistica per giungere fino alla posizione imminente della figura del telos stroncato, non è su questa linea che possiamo trovare dove agganciare la nostra rappresentazione della fine, dello strangolamento di qualsiasi compimento. Abbiamo visto che la linea della laurea da realizzare è spezzata, interrotta, che il fallo dell’amore non fa parte di quel bagaglio che il diritto chiama un’eredità. Il nostro rimosso rettorico è invece ciò che, come nel sogno del suicidio, prima che si realizzi, ci ritorna da dove, è ancora la scrittura di Carlo M. a rimarcarlo, fa ritorno ogni rimosso, cioè non dal passato ma dall’avvenire. 

Concluso un percorso di studi superiori, si ottiene la laurea: ma che cos’è la laurea? Siamo abituati a pensarla come un documento ufficiale, un’attestazione, un foglio da allegare a una domanda di partecipazione a un concorso, una pergamena da appendere – o un frustrato pezzo di carta che alla fine non ti serve a niente. Ma nell’uso corrente si perde il contatto con la parola: laurea è un aggettivo vòlto al femminile, è qualcosa di laureo, cioè qualcosa fatto di alloro – in particolare, si sottintende, una corona. L’alloro è una pianta importante nella nostra cultura: alto, sempreverde e profumato in modo inebriante, da sempre i suoi rami, intrecciati, sono l’ornamento posto sul capo del generale vittorioso e del più alto poeta. La celebrazione più vicina all’apoteosi ha il proprio simbolo nell’umiltà viva della flora: non vuole la morta corona d’oro e di gemme. Il serto leggero che cinge la testa di Petrarca vale più di una pesante corona di re. Così, quelli che hanno per primi intrapreso l’uso di mettere in capo corone d’alloro a chi giungeva alla fine degli studi universitari, hanno allora scelto di riabbracciare un onore conferito per mezzo del simbolo vivo. E oggi più che mai, leggendo le opere o l’opera di Carlo M., percepiamo che il traguardo di una laurea non può essere qualcosa di minerale, il cristallizzarsi in un futuro d’impronta accademica – vuoi perché è difficile trovare la persuasione, vuoi perché la società cambia e la formazione diventa una tensione continua, proteiforme, che dura tutta la vita: ovvero una rettorica che continua a minacciare e una persuasione difficile da conquistare. Perciò un “serto vivo” dà una buona dimensione di un traguardo vivo – che magari non ti rivoluziona l’esistenza, ma per cui è giusto fermarsi e festeggiare con una corona in testa, a meno che prima di consegnare la Tesi non pensiamo di farla finita, di capire il gesto di Carlo M.. È il padre della psicoanalisi, quello tanto beffeggiato dalla mia stessa generazione, d’altra parte, in Analisi terminabile e interminabile, che prova a sottolineare che nei processi di sviluppo e trasformazione, come quelli che ci attendiamo da un passaggio analitico cruciale, siamo portati a sorvolare sul fatto che i risultati sono incompleti e instabili, che tendono a ricadere nel caos teleologico, a ritornare, aggiungiamo, allo stadio della natura del Sabato del Villaggio, dove non vi sono che amori e tensioni in movimento.

L’incredibile potere del fattore timico e tensivo si fa gioco del nostro sforzo di mettere ordine, mediante regole e leggi, nel caos delle tentazioni in cui viviamo. Per cui, se con questo sforzo si riesce a semplificare la varietà e la confusione delle tentazioni, non si può fare a meno di affrontarlo. Diventare più obiettivi e distaccati nei confronti della propria scrittura permette di scoprire risorse e capacità che altrimenti rimangono nell’ombra, sepolte dalle nostre insicurezze. In tal modo “l’autostima persuasa” migliora e questo a sua volta ci dà il coraggio necessario per agire. Le azioni che compiamo ci premieranno e si creerà così un circolo virtuoso di aumento della fiducia in noi stessi. Questo ha una lunga serie di benefici che partono proprio da una minore percezione di “prigione linguistica” e da un aumentato senso di controllo sulla propria vita e sul proprio uso del linguaggio.

Esistono influenze reciproche assai profonde tra le lingue che si frequentano in senso positivo, ma anche negativo. Le ricerche parlano di “contagio linguistico” per definire quanto “le poesie e le poetiche” che frequentiamo siano fondamentali nel determinare le nostre scritture e perfino i nostri livelli di felicità. La paura di non farcela davanti a un problema o una sfida è qualcosa che tutti noi viviamo in qualche momento della nostra vita. Per alcune persone questo diventa un limite che impedisce di vivere appieno e ostacola il raggiungimento degli obiettivi desiderati. A nessuno piace sentirsi bloccato, privato dai propri limiti interiori della libertà di agire al meglio e di superare i problemi che gli si presentano davanti. Per evitare che ciò accada dobbiamo avere un piano strategico alternativo di azione, che ci porti fuori dallo stallo. Vivere una vita poetica straordinaria non significa non avere problemi, ma impossessarsi delle capacità per superarli: “fuori dal linguaggio”.

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