ARCO Lisboa
Lora Totino, prima ora dopo anverso, 1964

Piano-pilota per la poesia concreta

Partendo dall’intento di fare un omaggio alla preziosa figura di Arrigo Lora-Totino, l’articolo per altro verso ha perseguito una sua originale memoria, concepita come fenomenologia del percorso: in questa prospettiva convergono sia l’orizzonte del ricordo, che la fucina del suo sviluppo. Le analisi centrali del testo, dedicate alla Poesia concreta, rappresentano una prima verifica, che investe le prossime ricerche di significato e di scoperta su Arrigo Lora-Totino e i campi del suo percorso. Solo orientandoci verso degli approcci integrati, che uniscono storia e attualità verbo-visiva, saremo in grado di soddisfare i requisiti di una medialità per tutti.

C’è sempre qualche conferma autobiografica: Se per confessare la mia antica devozione alla poesia concreta (quella che Arrigo Lora-Totino ha chiamato «scelta semiotica della veste tipografica») volessi raccogliere alcune pagine, non disdegnerei certamente quelle giovanili apparse tra il 1982-83, su Città & Città (il quindicinale che curavo insieme a Luca Luigi Castellano e in dialogo con Stelio Maria Martini, etc …) o, «in forma di sceneggiatura», sui numeri delle fanzine di Einstein-Bigo. Anzi, queste esperienze napoletane, sono un riferimento che mi è sempre appartenuto: prove di «vocalizzi troncati», deviazioni canore, performance di tecno-science, contro-scritture, processi semici e asemici, incursioni del giovane militante che, arrivato a Torino da Arrigo, ebbe la fortuna di incrociarlo e dialogare sul concretismo, di avere la sua amicizia, il suo incoraggiamento a lavorare con gli amici dello Studio di Informazione Estetica ((1966-68): il pittore Sandro De Alexandris e il pioniere della musica elettronica Enore Zaffiri). Scritti su cui ancora oggi, a tanta distanza di tempo, c’è da riflettere e approfondire. Erano gli anni in cui Città & Città, per teoria e per pratica, celebrava l’arte concettuale come frammento critico, inteso come illimpidimento dello stesso concetto di poesia mediale (da me sottoscritto).  Declamò  Arrigo in To be or not to be (in Grathing Space 79, Washington, Paul Vangelisti editor, Audiocassetta 1979) o in Musica liquida, Fonemi, Baci-sapore, (in Baobab, Reggio Emilia, Publiart n.6, audiocassetta 1981), che era nel costume della concretezza e nell’aria della “liquidazione” poetica, la regola a cui tendevano un po’ tutti. Era un momento anti-postmoderno, che siamo contenti di aver vissuto, per quell’improvviso sollevarsi di passione e di adolescenza che mentre era tangente alle lettere e all’universo della parola pareva della contro-vita tra l’Abstraction-lyrique e i manifesti di Theo van Doesburg! Gigino e Arrigo, poi con Rosanna Chiessi, ci avevano fatto conoscere Eugen Gomringer e «la poetica materiale», che erano un segnacolo in vessillo di concretezza. E «les illuminations» tra “verso, costellazione della lingua-linguaggio e lo scopo e la forma di una nuova poesia, rischiavano di essere “più di un indirizzo”. Max Bense, che lodava la trama degli Stili Sperimentali, e Arrigo, che sul numero di Modulo (n.1, Genova 1964) commentava il Piano-Pilota per la poesia concreta stilato da Augusto e Aroldo De Campos + Decio Pignatari (1953-58), erano le nostre illuminazioni (vedi: AA.VV., Poesia concreta, a cura di Arrigo Lora-Totino, editoriale Sometti, Mantova, 2002). Con la sua curatela critica forse Arrigo diceva troppo o troppo poco; perché, se dei molti contributi teorici che avevamo raccolto, soltanto alcuni potevano resistere (almeno per l’archivio mediale di adesso), successivamente abbiamo constatato che per Poesia Concreta si intende qualcosa che oggi ci manca e di cui sentiamo il bisogno: la chiarezza della Poésie des Mots inconnus, quella che leggiamo nei segreti della Biblioteca di Lettere di Paris IV (vedi Antologia, a cura di J. Zdanevix, edizioni del 41 grado, Parigi, 1949). Arrigo – «poeta sonoro fra i concreti», per natura, e in quegli anni il poeta d’avanguardia più ricercato e più discusso – con il rifacimento di alcune antologie, si prestava a testimoniare la teoria del concretismo. La mostra organizzata per il Comune di Mantova, nel 2002, ce ne ha dato una bellissima prova, intelligente, fine e sempre attuale. Da Stelio Maria Martini ad Eugenio Miccini, tra gli amici e i glossatori a margine di Arrigo, imperversava la chiarezza teorica, la pagina scientifica, il dono della ricerca nelle deviazioni, che partono da Emilio Villa e giungono sino a Luca, non nascondendo una certa avversione per l’immagine farlocca e il medium caricato di tecnica inutile, ossia per i generi spontanei dell’espressionismo. A tutto questo, non dava una mano anche la militanza performatica di Arrigo Lora-Totino? Perché, originariamente, la costituzione della sperimentazione concretista italiana era proprio sua, se ricordiamo la lettura del “linguaggio visivo” del 1966 e la “Poesia come ricerca strutturale”. Persuaso che raramente la bellezza vivente dell’“inverso concreto” può scorrere e riempire di sé nel medesimo grado ogni parte di un’esposizione, egli stesso aveva difeso, in nome della curatela sperimentale, i punti più intensi o più salienti, dove più l’efficacia delle parole di Bense incontrano l’opposto versante del computer, il «suo accento, il suo concento». Ma mentre Bense poi sosteneva che quei medesimi punti erano come gli scoppi preparati dalle altre architetture testuali, di cui si componeva l’opera e in cui pure era diffusa e latente la poesia, salvando così il corpo estetico, i concretisti delle Americhe riducevano la lettura di un testo a quei pochi punti essenziali, cioè isolavano dall’opera le «fulgurazioni del segno», per goderle da sole, quasi un fascio di morfemi, buttando via il resto.

Quell’arbitrio rendeva più facile la lettura di un poeta; e anche il giovane sprovveduto d’ogni presupposto estetico e critico, con la sua sola piccola sensazione si buttò non senza avventatezza in quella maniera di lettura concreta, dimenticando che anche la bellezza strutturale deve avere un suo fondamento incendiario; e ne uscirono esercitazioni militanti, nell’azzardo della scrittura politica. Ma fin qui, forse poco male. Se quel modo di leggere era una eresia poetica, vuol dire che si era eretici per troppo amore di concretezza poetica. Il particolare è che quegli avvenimenti o atteggiamenti erano fatti valere con tale imprudente vivacità e intemperanza e passione (il clima di Città & Città in quel momento) da scartare chi la pensava diversamente. La leggerezza del concretismo diventava poi post-lettrismo quando ci si buttava con  una comicità intensa  e  sarcastica contro lo stesso buon senso post-moderno: il quale aveva detto male di questi esperimenti, una nostra fissa di quegli anni. In realtà, anche nel caso del Bense, il poeta non mutilava la teoria ma la confrontava, non negava ma ambientava; e molte delle sue osservazioni sullo sperimentatore concretista rimangono ancora oggi secche ma ferme e orientative. Per fortuna, la nostra breve vita è così lunga che ci da il tempo di tornare sui trascorsi di gioventù e magari chiedere scusa ai vivi e ai morti. 

Lora Totino, Oceano, 2001

Riflessioni concrete sulla testualità mediale e intermediale: Liberarsi della ricerca del verso, decretando la morte della lirica e riducendola ad un genere di azzeramento, è un  esercizio dell’avanguardia, in cui si cade quasi per necessità e che appare come una conseguenza interna al movimento della stessa storia dell’arte o delle arti a cui ci si rifà: esprimere una “zona-limite” (direbbe Adriano Spatola) trascendentale, che è stata generata da una giusta esigenza e dalla quale si può uscire solo grazie ad uno stile di “densità semica”, in grado di riconoscere sia quell’esigenza originaria, sia il carattere semiotico in cui essa è stata speculativamente sviluppata. Eppure, se c’è stata ed è tutt’ora in atto una pratica e non per caso, allora è necessario capirne la genesi, se si vuole continuare a comprendere l’esperienza. Per molto tempo, il mantra della «liquidazione» è risuonato con insistenza in Occidente: filosofi, sociologi, psicologi, scienziati e scrittori hanno fatto a gara per pronosticare la fine dell’astrazione-concreta. L’immagine più celebre, che caratterizza tale impostazione di pensiero, è quella del ritiro dell’avanguardia e la progressiva diminuzione degli spazi di incidenza della dimensione sacrale sulle vicende del mondo. Presupposto sottostante a tale lettura è la visione positivista della storia, intesa in maniera lineare e progressiva: l’umanità, nel corso dei secoli, sarebbe passata da un approccio al mondo primitivo e superstizioso, alla piena maturità razionale (l’età positiva), caratterizzata dal sapere reale, utile, certo, preciso e costruttivo, proprio della mentalità scientifica. Un effetto di tale visione è l’avanzamento della scienza a senso unico e il conseguente irreversibile arretramento dei saperi «astratti o astratto-concreti». Di fatto, il consenso fu tale che la teoria non solo non venne contestata, ma nemmeno venne sottoposta a verifica empirica, in quanto era data per scontata. Le loro prognosi potevano essere diverse, ma le diagnosi da essi formulate rispecchiavano l’idea che le vecchie astrazioni (sperimentali) non sarebbero mai sopravvissute all’assalto del realismo moderno e mai più sarebbe ricomparsa la dimensione dell’«astratto-concreto». Il corso successivo del tempo ha però mostrato un andamento più complesso. Dopo le ferite della seconda guerra mondiale, nell’Europa recisa e animata dal dolore esistenzialista, divisa da una cortina di ferro, l’approccio «concreto» rinasce soprattutto in Francia, sotto forme che traducono il bisogno di liberarsi di ogni ingombro catastrofista, onde assicurare e convalidare una ritrovata autonomia sperimentale. A Parigi, parecchi membri del gruppo Abstraction-Création, fondato nel 1931, approntarono nel 1946 un Salon riservato esclusivamente all’esposizione di opere d’arte comunemente chiamata «arte concreta, arte non figurativa o arte astratta, cioè arte totalmente svincolata dalla visione e dall’interpretazione della natura» (Statuti del salon des Realites Nouvelles (1946), citati in D. Viéville, Vous avez dit géometrique?, catalogo della Mostra Paris/Paris 1937-1957, C.G. Pompidou, Paris, 1981, nuova ed. Gallimard, Paris, 1992, p.407). Etienne Gilson, in uno scritto del 1972 su Peinture et réalité, sottolineava: “Da un certo punto di vista, arte astratta è una denominazione assurda, perché non c’è nulla di più concreto di un quadro. Mondrian ha anche fatto osservare, con ragione, che un quadro cosiddetto astratto è più concreto di un quadro naturalista: il primo è una cosa, il secondo è soltanto un’immagine. – Arte non oggettiva si scontra con il fatto che tale arte guarda al contrario agli oggetti come tali, non come semplici mezzi espressivi” (Vrin, Paris, p.154, n.62). Theo Van Doesburg e parecchi suoi amici optarono, già alla fine degli anni Venti del Secolo scorso, per arte concreta, e firmarono insieme un Manifesto che proclamava: «Il quadro dev’essere interamente costruito con elementi puramente plastici, vale a dire piani e colori. Un elemento pittorico non ha altro significato che “se stesso”; di conseguenza il quadro non ha altro significato che “se stesso”» (Manifesto dell’Arte Concreta, in S. Lemoine (a cura di), Théo Van Doesburg, P. Sers, Paris, 1990, p.207). Più tardi, anche Max Bill pose l’insieme del suo lavoro progettuale sotto la sigla dell’arte concreta. La locuzione, anche dopo l’intervento di artisti che spostano l’attenzione nel campo della pratica poetico-testuale, non ha comunque scambiato quella di arte astratto-concreta, di cui designa ormai solo una zona micro-concettuale e pittorica, che si oppone al rifiuto di Picasso di considerare i mezzi plastici. Con una riconsiderazione espansa dei papier collé, Van Doesburg che aveva sviluppato una «attività dadaista anonima» (vedi la pratica di I.K. Bonset, altro che Banksy), non era certo all’oscuro di ponteggi strani tra arti visive e poetiche dell’astratto, così come non lo erano umori di riviste come Vou, che nel 1935 a Tokyo, incarnano quello che Arrigo Lora-Totino storicizza come un momento originario della poesia concretista. Seguendo percorsi diametralmente opposti ma spesso intrecciati, l’astrazione e le diverse sperimentazioni di arte concreta giungevano ad un risultato sostanzialmente simile. Il rifiuto della rappresentazione, ovvero la concettualizzazione di materia e spirito negli elementi che compongono l’apeiron naturale, sono individuati da Gaston Bachelard, durante una trasmissione a Radio France (1952), su un tema a lui caro e già sviluppato in diversi libri: La poesia e gli elementi. L’acqua, il fuoco, l’aria e la terra. Gli ‘elementi  materiali’, nutrono con la loro sostanza l’immaginario poetico, attivano con la loro forza l’immaginazione, originano la poesia. Una riflessione sugli universi fantastici della creazione artistica, che è al tempo stesso l’indicazione di una nuova visualità del concreto, sostiene che relazionarsi agli elementi naturali, non è forse «… offrire, sinceramente, la tua immaginazione come eco, come riflesso dell’immaginazione del poeta?» (G. Bachelard, La poesia della Materia, Red edizioni, Milano, 1997, p. 27). Infatti da lì a poco la presunta arte realistica, così circoscritta, quella dell’assemblaggio per intenderci, non riproduce gli oggetti del mondo, non li integra più soltanto al proprio interno, ma li teatralizza nella forma di un nuovo realismo. Costruisce semplici artefatti, che ci propongono di vivere l’esperienza approssimativa di un raffronto con la loro realtà fisica, inscritta nello spazio concreto in cui ci dislochiamo quotidianamente.  Gli artefatti non hanno alcun significato apparente, né alcun impiego effettivo. Sono percepibili, sono lì, concretamente a denunciare una «mancanza di realtà». Lontani eredi dell’arte concreta, l’arte del reale procede in qualche modo da una epochè: se infatti mira a rifiutare qualsiasi interpretazione monolitica, qualsiasi idealismo simbolico, rivendica comunque i suoi rapporti con la fenomenologia di un concreto testuale. Potremmo ricordare ancora l’esperienza dell’Abstraction Lyrique di Georges Mathieu! Egli si recò in Giappone nel 1957. Lì, abbigliato con un kimono, performò a contatto col pubblico. Una delle sue tele, La Bataille d’Akata, fu acquistata da Jiro Yoshihara, che aveva fondato nel 1954 il gruppo Gutai Bijutsu Kyokai (Associazione dell’arte concreta). In occasione della prima mostra d’arte Gutai (Tokyo, ottobre 1955), due opere vennero realizzate alla presenza del pubblico per espandere la filosofia della materia, dei corpi, dell’agire e dello spettacolo dell’arte.

Dentro il concretismo: Il termine concreto, in grammatica, proviene dall’indicazione di un nome corporeo, un essere o un oggetto reale. È qualcosa di relativamente contrario ed astratto, che indica solo qualità e modi di essere, tipo: uomo, casa, cane, donna di fronte a verità, amore, salute. È espressione della logica classica, indicante un termine che denoti una proprietà, impersonandola nel soggetto che ne è il portatore; ad esempio, il termine persona che è il portatore della proprietà di umanità, a differenza del termine astratto, che prescinde invece dal soggetto portatore, enuncia la proprietà di per sé: “umanità”. Nell’Estetica generale (1965) Max Bense afferma che: “Ciò che Max Bill chiama “concretizzazione” consiste nella rappresentazione di un “pensiero”, in  questo caso di un pensiero astratto, attraverso un modo adeguato di espressione. Il pensiero è in questo caso “una realtà artistica”, come dice Bill, è “correaltà”, come dovremmo chiamarla, e, come si dovrebbe aggiungere, è la “modalità della bellezza”; il “modo di espressione” consiste invece nella relazione  con la “superficie”, che, in quanto tale, si serve di segni (punto rosso, superficie del quadro) privi in sé di significato. Proprio per “segni privi di significato” l’estetica della pittura moderna si colloca nelle vicinanze della logica moderna” (Forma e Astrazione in Estetica [1965], a cura di Giovanni Anceschi,  Bompiani, Milano, 1974, p.96). Ecco anche qui una conferma, se ce ne fosse bisogno, della ripetuta affermazione di Bense che equipara l’arte a una attività teorica. Sino a Immanuel Kant si ritiene, in genere, che l’universale debba sempre mirare ad essere il più possibile astratto, mentre da Kant in poi l’idealismo (Hegel) ha avanzato l’esigenza di un “universale concreto”, che attui la sintesi del pensiero e dell’esperienza.

In termini semplici, quasi scolastici, si può dire che la definizione poetica concreta si distingue a prima vista dalla prosa perché il suo strumento espressivo è il verso: il verso libero o trattenuto, la frase corta, la parola graficizzata, l’istogramma del termine, il puro sintagma, la parola ricavata dal referente iconico, il fonema enunciato, visualizzato o testivizzato, il blocco testuale della ripetizione versuale, la concettualizzazione dei contenuti di un testo e via di seguito. L’estensione della parola, compreso il verso libero assai diseguale per lunghezza, non occupa lo spazio della linea per la prosa. Ma questo non è tutto. La poesia concreta, anche se non necessariamente, possiede per lo più una rima o un ritmo che si diversifica dalla cadenza caratteristica della dispositio spaziale, così come lo definisce Arrigo Lora-Totino: «Questo genere di poesia costituisce in certo modo il contraltare o specchio fonico della visualità verbale: la deprivazione del suono caratteristica di questa – ma non poi tanto se si va a controllare sui testi – induce più di un autore concreto a sperimentare l’opposto versante della parola poetica, il suo accento, il suo concento, ed è ciò che fanno ad esempio F. Mon, B. Cobbing, P. De Vree, G. Rühm, A. Spatola, E. Jandl, F. Krivet, I. e P. Garnier, H. Chopin, C. Claus, S. Cena, J. Blaine, io stesso, e scusate se vi paiono pochi. Infine, ad evitare che si confonda sul significato di qualche qualificazione, vorrei precisare alcuni predicati: a) poesia visuale, termine proposto da Carlo Belloli soprattutto nelle Note per una estetica dell’audiovisualismo, che fungono da introduzione ai textes audiovisuels (International Avant-Garde Poetry Group, London Basel New York, 1959), la cui teoria e pratica non differiscono poi molto da quelle del concretismo, tranne nel punto costituito dall’esigenza, sostenuta da Belloli e che mi trova d’accordo, di far corrispondere al valore semantico del poema visuale una precisa scelta semeiotica della veste tipografica: scelta dei tipi, dei corpi e delle intensità dei caratteri di stampa. B) poesia visiva, proposta dal gruppo fiorentino degli autori tecnologici, consistente nell’accostamento e rapporto tra parola e immagine (da giornali, rotocalchi, ecc) e conseguente critica nei confronti del banale quotidiano quale compare e domina sui giornali, rotocalchi, televisioni, eccetera: in sostanza una forma di pubblicità in negativo» (Poesia Concreta, op. cit., p. 34-35).

Se ci chiedessero quando la poesia cessa di essere prosastica, per trasformarsi in veicolo poetico concreto, potremmo rimettere la questione alle parole iniziali dello studio di Arrigo: l’intenzione dell’amico Lora-Totino sembra essere la ricerca di un paradigma. L’architettura concreta del testo, così come il verso materico nella sua stessa ontologica realtà, non propone nulla di alieno alla sua finalità di esprimere un’emozione, o un’esperienza astratta che noi micromedialmente indichiamo come concreta! È ormai da oltre un secolo che la modernità semiotica è consapevole dei problemi fondamentali della poesia della prima e della seconda avanguardia del ‘900; la sua funzione, fa da testimonianza del «concento», come lo chiama Arrigo. Una speciale attenzione è stata riservata alla critica della rappresentazioni classiche del testo, come quelle, ad esempio, prodotte dal concretismo del 1935. Tale visione della testualità è diventata oggetto di discussione critica, tanto quanto il progetto di epigonismo del testo post-avanguardistico, attraverso l’uso adeguato della scomposizione, della frammentazione e di altre pratiche di dissociazione. L’anti-astrattismo è all’ordine del giorno dell’età moderna, a partire dalle riviste Vou del ’35 e Bizarre del ‘53 e la teorizzazione dell’audiovisualismo di Carlo Belloli del 1943-59. Esso pone interrogativi sulla struttura della concretezza, sfidando il dualismo, di cui la dicotomia astratto-concreta è il modello, per modificare la definizione stessa dello schema di testo. Il clima del dibattito teorico contemporaneo, almeno nella semiosi dell’Europa continentale, e soprattutto in quella dell’Est Occidentale è dominato dal discorso sulla natura stessa del concretismo testuale. Concretismo che va inteso come l’interrogarsi degli “stili sperimentali”, sul verso e la struttura formale del verso, lo scopo e la forma di una nuova poesia, il contenuto del concreto, il confronto con i campi della percezione di Max Bill, l’indagine sul poema come oggetto d’uso, l’atomizzazione della parola, la tipografia fisiognomica e l’enfasi espressionistica sullo spazio. Secondo Max Bense: “Si tratta di una poesia che non riproduce il senso semantico ed il senso estetico dei suoi elementi, ad esempio le parole, con la consueta formazione di contesti ordinati linearmente e grammaticalmente, ma gioca sui nessi visivi e nessi di superficie. Non la giustapposizione delle parole nella mente, ma il loro intreccio nella percezione è dunque il principio costruttivo di questo genere di poesia. La parola non viene usata principalmente come veicolo intenzionale di significati, ma anche come elemento materiale di figurazione, di modo che significato e figurazione si condizionano e si esprimono reciprocamente […] I testi concreti, per ampliare ora il concetto di tale poesia, si avvicinano spesso, data la loro dipendenza tipografica e visiva, a testi pubblicitari, cioè il loro schema estetico di comunicazione corrisponde spesso e volentieri ad uno schema di tecnica reclamistica: il segno centrale, per lo più una parola, assume una funzione di slogan. La poesia concreta ha la possibilità di affascinare e la fascinazione è una forma di concentrazione che in misura eguale si estende alla percezione del materiale e alla appercezione del suo significato” (Lora-Totino, op. cit., pp. 16-17). 

La produttività conoscitiva d’una poesia è qualcosa di insostituibile: la poesia è strumento delicato e sensibile per la conoscenza di un oggetto che, nei termini di Max Bense, si denomina “dipendenza tipografica e visiva” (tecnica reclamistica mediale). E non si tratta affatto di un sommario punto di vista, radicalmente eteronomo, sulla poesia; non c’è dubbio, la poesia qui appare come strumento, come documento preferibile ad altri: ma l’operazione laboratoriale in cui essa viene impiegata, la riguarda nella sua stessa intimità. La ricchezza, la pienezza semantica della struttura testuale della parola controlla, dunque, la sua intima pregnanza verbo-visiva: non capriccio bizzarro e casuale dell’immaginazione, bensì copia, riproduzione des moeurs environnantes e segno d’un état d’esprit; in questa opera che si lascia trascrivere in façons de sentir et des penser, ecco che si sovrappongono e coincidono i due movimenti della concretezza e della concrezione:noi conosciamo i concreti (facciamo), l’opera del testo, poiché il testo stesso materializza (spiega). Nella poesia contemporanea, come insieme di “zona-limite (mediale)” e critiche ad essa, permane l’immagine classica di riflessione, comprensione, spiegazione di ciò che esiste nella natura e nella storia del verso. Questo  esercizio di costituzione e di critica mediale è stato organizzato, fin dalle origini della modernità, da “zone-limite”, logiche e concrete, finalizzate a mostrare la struttura essenziale di ciò che esiste nella scrittura. Anche quando l’esperimento è lentamente riuscito, secondo modalità avanguardistiche sempre più sottili, portando dentro la poesia “dell’essenza il significato degli accidenti e delle forme basilari”, capire (o far capire) ciò che è per ciò che essa possiede, o in modo vitale o in modo improvviso, è un proto-medium affermativo. La concretezza – e insieme la parzialità concettuale di questo tentativo – è stata la causa originaria di molti lettrismi trascendenti, che portano ad interrogarsi o a ipotizzare la storia dell’antiverso, pensando così di mantenerla nella sua veste originaria. Da tutto questo non poteva che nascere la critica interna a qualsiasi testualità; se si pensa che “ciò che è” della frantumazione linguistica post-simbolista, sia nei suoi tratti essenziali che nelle sue componenti accidentali, soprattutto in rapporto a ciò che esso è già concreto, allora sorge il necessario dubbio che la concretezza è nella parola e la corporeità è nell’applicazione della parola al testo (in pagina). Da ciò si origina la zona-limite come individuazione del fondamento, il concreto, le verità della pagina – intesi come concetti qualificanti le linee essenziali della grande transizione semiotica (da lingua a linguaggio) – in difesa della differenza della neo-avanguardia, della molteplicità del Piano-Pilota per la poesia concreta (1953-1958). Dice il Manifesto dei Noigandres brasiliani: “Poesia concreta: prodotto di un’evoluzione critica delle forme. Supponendo che il ciclo storico del verso (come unità formale-ritmica) sia chiuso, la poesia concreta inizia dalla coscienza dello spazio grafico  come elemento strutturale […]. Poesia concreta: tensione di cose-parole nello spazio-tempo. Struttura dinamica: molteplicità di movimenti concomitanti. Anche nella musica – arte di tempo (temporale) per definizione – interviene l’elemento spazio (Webern ed i suoi seguaci: Boulez e Stockhausen; musica concreta ed elettronica); nelle arti visuali – spaziali per definizione – interviene l’elemento tempo (Mondrian e le sue serie Boogie-woogie; Max Bill; Albers e l’ambivalenza percettiva; arte concreta in generale). […] La poesia concreta mira al minimo comune multiplo della lingua. Da ciò deriva la sua tendenza a nominare e verbificare. “Il mezzo concreto di linguaggio” (Sapir). Da ciò derivano le sue affinità con le cosiddette isolating languages (cinese): “Tanto più è limitata la grammatica esterna della lingua cinese, tanto è più sviluppata quella interna” (Humbolt Via Cassirer). Il cinese è un esempio di sintassi puramente razionale, basato solo sull’ordine delle parole (vedi Fenollosa, Sapir e Cassirer)” (Manifesto 53-58, in Lora-Totino, op.cit., pp. 29-31). Nell’immediato senso lessicale, il termine “concreto” sembra rinviare a una dimensione gerarchicamente secondaria e strumentale dell’universo della parola; ma sappiamo come questo termine, concreto, significhi assai più in una selezione di valori che in un designare referenziale, né mancano orientamenti di ricerca – tra Ottocento e Novecento -, a partire almeno dai formalisti russi – che propongono un’idea più ricca e complessa delle tecniche letterarie. Il dizionario di retorica di Greimas e Courtes è certo più attento e paziente nel cogliere tratti significativi nella tradizione delle artes concrete, e orientato ad esprimere così un ideale di concretezza; per questa via, pur riconoscendo il carattere tecnico delle artes testuali, e imputandole di impennate intense e riconoscibili, esso riesce a suggerire una comprensione delle artes secondo suggestioni enciclopediche e grandi nozioni storico-linguistiche: “La densità semica può essere determinata dal numero, più o meno elevato, di semi che entrano nella composizione di un semema. Si tratta di un criterio semantico quantitativo che permette di misurare il grado di astrazione di un concetto”(a cura di Paolo Fabbri, Mondadori, Milano, 2007, p. 76). 

Il mondo del testo: Nel Tractatus di Wittgenstein il mondo è la totalità dei fatti, che sono costitutivi di altri fatti elementari o stadi di cose tradotti in parole, i quali a loro volta, sono formati di strutture significanti; pronunce, non ulteriormente scomponibili. La parola è una componente essenziale della totalità delle proposizioni e la proposizione è la raffigurazione di uno stato di cose dell’oggetto parola che – qualora la frase è sensata e non abbia solo un carattere logico – ha in comune con la sua densità semica la relazione strutturale, una delle possibili combinazioni di semi e di significato. Esiste, quindi, una sovrapposizione tra parola e mondo e la forma persiste attraverso possibili trasformazioni e proiezioni semiche. Il linguaggio scritto e parlato è quindi simile a una “grafia geroglifica”, che raffigura i fatti che descrive (Tractatus …,Einaudi, Torino 1964, 4.016) e che si conserva tale, un senso raffigurativo, anche quando diventa alfabetico. Le icone prodotte dalla parola non sono la copia di un fatto, ma un fatto concreto esse stesse. Le concrezioni della parola sono indipendenti l’una dall’altra, per cui la supposizione semica non solo è relativamente possibile, ma lo è anche la credenza nel nesso concretista tra scrittura e visione. Dalla sfera delle concretezze, della mera esistenza linguistica, a quella della logica del testo non c’è un passaggio lineare. Tradurre da una lingua ad un’altra: figurare, visivizzare, disegnare, dipingere, graficizzare, non possono essere ridotte ad una mitica unità (secondo il Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche), ma possono essere viste nelle loro somiglianze. E allora cos’è questo benedetto linguaggio che fa leva su una lingua o non su una arbitrarietà logico-visiva? Dice Wittgenstein: “Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base alla quale impieghiamo per tutti la stessa parola, ma che sono imparentati l’uno con l’altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti linguaggi” (Ricerche …, Einaudi Torino 1967, I, § 65, p.46). Attraverso una suggestiva riflessione su temi gestaltici, Wittgenstein mostra come non esista una “immacolata percezione”, neutra e puramente passiva come la relazione tra il testo che indica la cosa e lo sguardo: in sostanza, il loro rapporto non è analogo a quello fra l’originale e la copia, poiché nel percepire c’è un “pensiero che echeggia nel vedere”, un vedere che può anticipare il testo concreto!

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