Fabrizio Villa, The Floating Piers, Lago d’Iseo 28 giugno 2016. (Installazione artistica temporanea dell'artista Christo, fotografata da elicottero Photo Courtesy l'artista.

“People”, Fabrizio Villa alla galleria KōArt di Catania

Qualche tempo fa Fabrizio Villa è divenuto estremamente e improvvisamente popolare nella mia città (Agrigento). Il Corriere della Sera, il 20 febbraio 2018, aveva pubblicato una recensione al libro di Tomaso Montanari, intitolato “Costituzione italiana: articolo 9” (Carocci), firmata da Corrado Stajano. Adesso che rileggo la recensione riconfermo ciò che pensai la prima volta che ne venni a conoscenza: è un articolo scritto magistralmente. E Villa? Ah, sì sì, scusa.

La testata milanese allegò alle parole di Stajano una foto di Fabrizio Villa. La foto ritraeva un tempio di Akràgas schiacciato su un ammasso di “tolli” – cioè di palazzi come li chiamano lì – eretti circa mezzo secolo fa. L’effetto della foto non poteva lasciare indifferenti: la bellezza dell’arenaria delle colonne doriche, accostata alla superbia del più puro cemento da cantiere, avrebbe infastidito chiunque si ritiene dotato di sensibilità.

Tuttavia, nel giro di pochi minuti, accadde ciò che mai avrei immaginato: vennero postati sui social un oceano di volgarissime offese rivolte a Villa e al Corriere, e addirittura si parlò di un’azione legale nei loro confronti.

A me questa vicenda turbò parecchio. La trovai volgare come i post, la trovai di poco gusto, la trovai coerente con le scarse conoscenze che gli italiani hanno della storia dell’arte e della filosofia di paesaggio.

Mi sentii in dovere di difendere Villa in alcuni giornaletti locali. E non perché egli ne avesse necessità (figuriamoci, manco sa che esisto), non perché mi piacesse quella foto (non mi piace particolarmente, lo ammetto), non per apparire controcorrente. Ma per onestà. Mi spiego meglio, mi spiego con il ragionamento di un fotografo mio concittadino, che stimo umanamente e professionalmente (ometto il suo nome poiché potrebbe non fargli piacere “abitare” dentro un mio articolo).

Questo fotografo mi disse un giorno in automobile: «Ammettiamo che, cadendo, io mi faccia male a una gamba. Ammettiamo che effettui una radiografia per accertarmi di non avere una rottura. E ammettiamo che la radiografia, invece, dimostri il contrario. Perché dovrei arrabbiarmi col radiologo o con la sua lastra?». Esatto, perché?

È ovvio. Non sto affermando che la foto del tempio spalmato sui palazzi sia realistica, oggettiva, veritiera, tanto quanto lo è una radiografia. Affermo soltanto che lo scatto di Villa è esteticamente efficace, allarmante, in grado di schiaffeggiare noi e la storia dell’edilizia recente. Una foto come quella non è certo un dipinto di Claude Lorrain, è chiaro! Più probabilmente è il riscatto, in immagine, delle tesi inascoltate di tanti validi ambientalisti italiani, alcuni citati per l’appunto da Stajano.

(Nota. I docu-romanzi sulle bellezze d’Italia, che spesso vanno onda in tv, e attraverso i quali la Penisola è raccontata come un luogo paradisiaco, fanno bene all’umore, lo so. Però a essi è necessario aggiungere anche un po’ di tragiche verità affinché affiorino i fatti!)

Ebbene… tutto questo avrei voluto dirlo a Fabrizio Villa in persona, quando seppi di una sua mostra alla galleria KōArt di Catania, curata da Aurelia Nicolosi e Marilina Giaquinta. Purtroppo, essendo arrivato in ritardo, non lo trovai. Trovai le sue foto. Cinque, per l’esattezza.

Esclusa quella che fa da sfondo alle prime quattro, cioè Chef all’opera, dentro la quale è possibile divertirsi cercando curiosità, ambiguità, micro-ritmi che s’alternano per tutta la composizione dotata d’un solenne equilibro architettonico, il mio interesse, e un ulteriore divertimento misto ad amare riflessioni, s’è concentrato alle rimanenti quattro foto, suddivisibili in due gruppi.

Malgrado la costante in queste altre foto sia sempre, sempre, sempre l’essere umano contemporaneo, il linguaggio visivo di Villa, che ho trovato riflessivo e laconico, dilettevole e discreto, pone tale essere in quella condizione che esso stesso ha per millenni rigettato: la marginalità. L’appiattimento delle prospettive, difatti, non fa che svelare le contraddizioni di un sofferente, piccolo, indifeso e isolato punto geometrico su una superficie misteriosa. Scrive Marilina Giaquinta a proposito: «Fabrizio Villa rappresenta la “gente” come puntini lontani e indistinguibili, sparsi su frecce direzionali, quasi un pendant di colore con le acque scure del lago (e non importa se si tratta del ponte galleggiante sul Lago d’Iseo dell’artista Christo Yavachev), come fiume straripante di devoti che ricopre la piazza e la via in un magma arginato dall’austerità delle chiese e dei palazzi barocchi, come corpi inerti fissi immobili, distesi al sole o sotto ombrelloni variopinti, come volti chiusi e addormentati di mamme e bambini in mezzo a stracci e a coperte di risulta, come angeli candidi in mezzo al velluto rosso del teatro lirico, quasi disegni di un tromp l’oeil, che rammentano i merletti del Teatro Olimpico palladiano. Puntini, colori, magma, coperte, biancore, senza volti, senza sembianze, folla unita e separata allo stesso tempo, mare della vacanza e mare della disperazione stanca, religione che non è preghiera ma culto, che non è spirito ma devozione».

Da qui, in conclusione, sarebbe lecito muovere un’intima indagine sull’atto del fotografare, un atto che oggi ha assunto una dimensione – come dire? – “for people”, per la gente, nel senso pieno di ciò che questi sostantivi indicano etimologicamente. E lo affermo allacciandomi alle parole di Aurelia Nicolosi: «È necessario sentirsi coinvolti in quello che si ritaglia attraverso il mirino. Fotografare è riconoscere, nello stesso istante e in una frazione di secondo, un fatto e l’organizzazione rigorosa delle forme percepite visualmente che esprimono e significano quel fatto. È mettere, sulla stessa linea di mira, la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere. Così parlava Henri Cartier-Bresson e Fabrizio Villa sembra fare sua tale lezione: il viaggio e le persone, da cui il nome del progetto People, sono diventati i punti focali di una carriera costellata di esperienze molto potenti, che hanno raccontato l’uomo nelle sue molteplici trasformazioni e sfumature. Sono tutte lì, concentrate in uno scatto intenso, la speranza e la disperazione dei migranti colti in un momento di riposo taumaturgico, dopo il salvataggio in mare. Occhi chiusi, membra sparse e aggrovigliate alla ricerca di un contatto salvifico, che si contrappongono ai corpi anonimi delle spiagge assolate, bolle modaiole, anestetizzate contro i drammi quotidiani». 

“People” di Fabrizio Villa

a cura di Aurelia Nicolosi e Marilina Giaquinta

dal 01 Febbraio 2020 al 27 Febbraio 2020

KōArt – Unconventional Place

via San Michele 28, Catania

orario: visitabile dal lunedì al sabato dalle 16,30 alle 20,30. Domenica su appuntamento telefonando al numero + 39 3391190585

ingresso gratuito

tel: +39 3397179005

e-mail: info@galleriakoart.com | website: http://www.galleriakoart.com

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.

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