Il discorso del re alla radio in scena, 2010

Ovvero la difesa del balbuziente

Sono stato sempre un balbuziente. Tutti i ricordi, fin dalla prima fanciullezza, lo confermano. Probabilmente sono arrivato in questo mondo con un linguaggio difettoso, convinto di essere stato inviato in un pianeta semantico che non era quello giusto. Ancora adesso ho l’impressione che vi sia in ciò qualcosa di vero. Io sono nato per questa parte del difetto, con le mie guance infossate e la “s” moscia, il grosso labbro inferiore che non accompagna le vocali, l’occhio di lucertola che non riesce a commentare le parole e, soprattutto, a tradurre  i vocaboli in immagini, e la voce lamentosa ma risonante alla quale è difficile sfuggire, per avere una oralità disturbata. Forse, completamente disturbata! A volerlo comprare, non si troverebbe un migliore equipaggiamento da tartaglione. 

A Nola, nella provincia di Napoli, dove ho trascorso i primi nove anni della mia vita, tutte le abitudini, i pregiudizi, le scorrettezze linguistiche locali favorivano il tartaglione e il tartagliamento dell’espressione. Per un buon abitante di Nola vi è qualche cosa di vergognoso nella lode dell’inceppo semantico, questa sciocca abitudine meridionale. Invece, la critica e il biasimo sono costanti e sincere. Lassù ogni mattina si affila la lama semiotica della lingua e della critica. Così il crepuscolo del segretario del PCI di zona e il breve ma aureo pomeriggio dell’amico Gigino videro brontolare Ignazio Puntitta, novizio poeta, senza dubbio, ma che attraverso il miscuglio, tra dialetto e italiano volgare, imparava presto. Un breve apprendistato tra i dottori della psicofonia – in nessun ramo commerciale, che comprende la rete delle terapie di pronuncia e comprensione della lingua, è facile sentire tante lagnanze e tante amare recriminazioni – mise a punto la mia tecnica. Poi venne il marzo del 1977 e fui a contatto con alcuni dei più ostinati ed instancabili tartagliatori che l’esercito industriale di riserva produsse o avesse mai conosciuto, ed ero considerato all’altezza, tra gli Indiani Metropolitani, del migliore balbettatore possibile.  Dopo questo rapido tirocinio, continuai a brontolare a Parigi, a Milano, a Berlino, a Londra, a Sidney, e in vari campi di imprese letterarie, cantautorati, musicali e teatrali. Ho balbettato per tutto il mondo, sul mare, in montagna, nel deserto. Ho farfugliato  in patria e all’estero, e sono stato la disperazione degli ortofonometristi.  

Non che essi mi abbiano mai capito; su questo dire del linguaggio ci siamo sempre fraintesi. Secondo il punto di vista del dottore sembra che il tartagliamento non faccia che peggiorare la diegesi poetica, mentre io ho sempre sostenuto che, a tartagliare bene, le poesie migliorano. Se per esempio allo studio mi comparano con i metodi del Manuale di Dizione, di Contardo Contardi, posso essere letto come una autonoma raccolta di originali, nuovi e freschi racconti, come un agile strumento di comprensione dei meccanismi fondamentali della corretta pronuncia della lingua italiana, come una puntuale ricostruzione del generale processo di frantumazione e ricomposizione della parole e, infine, posso essere letto come un sincero, maturo, contributo alla ridefinizione del rapporto con il porgersi e il modificarsi dell’errore. Mi basta tartagliare un minuto per avere la sensazione che sia stato ristabilito un ragionevole equilibrio: come il tartagliare sia stato sottratto alla qualità scadente della mia voce, della mia gola, della mia fonetica, del mio amore per la pronuncia e per il linguaggio stesso. 

Quindi è inutile dirmi: “ Non t’arrabbiare! E’ già abbastanza seccante senza che tu balbetti; quelle poche volte che lo riesci a fare. Devi sapere che la parola è anche immagine. Immagine che riceve dall’immaginazione, e quello che l’immaginazione stessa produce. Le parole delle immagini si determinano dai sentimenti, che sono, nell’artista, forme originarie dello spirito, scatti improvvisi, geniali, e tu non fai altro che inciampare in questo dire, non fai altro che rendere catastrofico questo esprimere linearmente. Le immagini poetiche sono diverse da quelle che derivano dai fatti ordinari della conoscenza. L’impulso geniale è solo del poeta; esso è un che di schietto e di ardito nella pronuncia e nella performance della voce, che sorge indipendentemente dalla condizione di una vita associata e di scambio, pure se con questa abbia somiglianza e si  accordi infine. L’uomo generalmente bada solo ai particolari e vive fra le costruzioni concettuali di una natura fisica, di un corpo della voce: mentre l’uomo di genio travalica questi limiti, si innalza sopra i particolari e coglie subito, con il suo intuito fresco, immediato, la vita della parola nell’universo, i valori profondi, indistruttibili del mondo. Alle immagini poetiche sono connesse le parole poetiche: anche queste sono rappresentazioni di sentimenti estetici. La parola del poeta nasce insieme con l’immagine, ne è l’obiettivazione dicente, larisoluzione teorica. Essa è sempre nuova, crepitante, inconsueta, nei suoi rapporti creativi con la pura soggettività estetica; è una parola lirica, diversa da quella in uso. Come tale, essa è un tutto inscindibile con l’immagine artistica, e non può essere riportata  che a quella immagine. Le altre forme le sono estranee. Le parole comuni, derivate dalla conoscenza di tutti, sono riducibili ai modi esterni della fisicità e interni della sensualità (sono la conseguenza di un incontro dell’oggetto parlante con il soggetto parlato): le parole musicali sono vive in relazione a se medesime e non grazie al fatto che curano la balbuzie, forme soggettive e che non ineriscono alla vita dei sensi, fatta di errori di chi non riesce a parlare, al mondo fisico di chi, è sfregiato nella dizione. Il poeta parla per immagini, il balbuziente esprime scarabocchi, segni e raffigurazioni che non assurgeranno mai e poi mai al realismo. Il poeta crea una similitudine, il tartagliatore un barbugliamento. Una figura singolare è anche un’espressione singolare; e il poeta dice le sue cose, rappresenta i suoi fantasmi, nella perenne invenzione dei suoi mezzi comunicativi, non confrontabili con altri, non dicibili in altro modo, non derivati comunque da modelli preesistenti. Le parole, quando non sono tartagliate, sgorgano dalle intimità gelose dell’essere, sono di origine orfica; non è il poeta a prenderle in prestito, qua e là, e a manovrarle stancamente e convenzionalmente. L’orfismo è la stessa matrice del linguaggio poetico, invece il tartagliantismo è l’avanguardia dell’errore poetico, del difetto valoriale dell’espressione”. 

Da questa settimana, iniziamo una serie di domande e servizi tesi a valutare le fiction del linguaggio parlato, riguardati performer, un lavoro di sicuro avvenire. Introduciamo l’argomento in una maniera insolita, con una interrogazione a schiaffo, cioè introducendo il discorso con interrogativi fatti a performer illustri e di politicanti competenti del settore. Tutto questo per innescare e stimolare il modo del politichese (performer, senatori, presidenti del consiglio, finti poeti, ministri della cultura ETC …) al dialogo sul fenomeno economico del linguaggio simbolico, culturale, dello showbiz italiano. Questa settimana, come abbiamo già annunciato all’inizio della conversazione, proponiamo l’intervista fatta al Preside della Facoltà di PERFORMANCE SONORA dei BALBUZIENTI: “Io non ragiono in questo modo. Se non ho avuto una buona dose di errori, nei miei esercizi, io tento di discutere, almeno avrò avuto la soddisfazione di tartagliare. Quindi sono sempre stato organico alla balbuzie, per quanto riguarda l’imputazione maggiore: cercare deliberatamente di peggiorare le cose. Un altro argomento di difesa è che io ho dato sempre un’impressione peggiore della realtà del linguaggio parlato. Quando sono scontento, e soltanto allora, per qualche ragione oscura, tendo ad accentuare la mia parte di balbuziatore. Più di una volta i miei reali balbuzismi sono stati fraintesi. Io non dico di essermi divertito, ma neanche ho sofferto tanto  intensamente  – a regredire – come immaginava il resto della compagnia. Quando le prove di una dizionalità, di una discussant vanno male, spesso mi conducono in fretta fuori dalla performance e mi danno da bere, mi adulano, mi fanno moine, soltanto per tenermi lontano dalla comunità degli altri tartagliatori, questi esseri tanto suscettibili.

Una volta, anni fa, ad un’importante  rassegna di performance della parola, mentre io tartagliavo come al solito, una giovane performer che non conoscevo mi guardò severamente e mi disse che avrei fatto meglio a tornare sul palcoscenico, invece di rovinare agli altri il dire, il dire comunitario e armonico. Fui colto di sorpresa e si può dire che sia ancora sorpreso. Ma sebbene manderei volentieri a quella signora una copia con dedica del manuale di dizione – mi dispiace di non conoscerne il nome, e spero che stia bene – rimane il fatto che ella mi giudicò male. Il mio tartagliare che udì per caso, poiché, tra l’altro, non  tartagliavo verso lei, era un  balbuziare futile, una consuetudine mondana. Il mio tormento mediale non era da prendersi sul serio; era ancora quella vecchia inconscia esagerazione, provocata dall’aiuto del cyberdimafono. E sebbene, forse, sarebbe stata preferibile da parte mia una maggiore attenzione, per questo sono più da compatire che da biasimare. 

Argomento finale della difesa dei linguaggi in errore: la maggior parte dei miei scritti, non v’è dubbio, è una critica ostile a questa vita e quindi un tartagliamento in grande. Qui vi è un po’ di compiacimento della malattia, lo ammetto, ma vi è anche qualcosa di meglio. Perché io ho sempre pensato un fine dicitore, un fine ammaliatore, per giustificare solo qualcuno o qualche tratto dei suoi privilegi, dovrebbe parlare per coloro che  non sanno né scrivere e né parlare, ovvero dire. Potrà cacciarsi nei guai – e io mi ci sono precipitato a capofitto – ma almeno nessuno lo manderà via, quell’altro da me, quell’altro fottuto di me stesso, lasciandolo con un’ipoteca e quattro terapie da improvvisare, che hanno bisogno degli apparecchi giusti: mangianastri, piste, tracce, riproduttori. Io ho spesso balbuziato sulla stampa e nei telegiornali più per conto di altri che per me stesso. Inoltre, io sono sempre portato istintivamente all’opposizione del linguaggio al potere e di tutte le persone, gli ex compagni, che professano la presa della parola e che poi si vestono di autorità. Non mi descriverò come un poeta nato, perché manco di fanatismo, ma vi è in me un poco dello scherno dell’oratore balbuziente che abbandona anche i suoi compagni di strada quando questi sono arrivati al potere senza misurare la parola, senza esaltare il logos. Infine, essendo stato fortunato sotto molti aspetti, ho sentito una certa avversione ad apparire troppo conscio della mia imbonitura, della mia sceneggiata linguistica, della mia menzogna battagliera, contro il lirismo lineare e la scala retorica della forma classica del dire. Gran parte della mia sottile critica e del mio continuare a balbuziare è stato voluto, quasi a toccar ferro. E senza dubbio ciò mi ha portato a balbuziare ancor di più per fiction.

Così molti simpatici compagni, quelli della comunità inconfessabile, mostrando alla loro cattiva fortuna un volto migliore di quello che abbia mai mostrato io alla mia buona fortuna, devono aver gridato suffissi, vocali aperte: avreste, fareste, direste, faceste, diceste, avremo, diremo, faremo, potei, temei e collasserei … “ Ma quest’individuo erroneo, non gode mai di niente?” 

E la mia risposta (un po’ in ritardo) è questo racconto, questa testimonianza, questa spinta che si pone al di là di una semplice fotografia del caso. E nessuno potrà dire che io abbia aspettato che le cose fossero andate a posto. Lo stato attuale del mondo permette solo linguaggi tartagliati … ma no, lo sappiamo bene. Possiamo chiudere la porta del manicomio della vita economica, pubblica e privata, ignorando per una volta le terapie psicofoniche e le boccacce dei poeti e degli agenti del caos dalla parola alla folla. Ma durante il periodo in cui cercavo di evocare un solo verso, afferrare e annotare questi ricordi e impressioni vocali e dizionali, ho avuto il peggiore fiasco della mia forma cantata, ho dovuto affrontare due composizioni, varie malattie psicologiche, e il più lungo e doloro trasloco dell’archivio di nastri e tracce di registrazione; molti dei limiti espressivi che ancora mi rimanevano mi sono stati appianati, due alla volta, ad intervalli graziosamente calcolati, per mantenere in agitazione ogni nervo della mia povera corda vocale: tutto ciò insieme con una condanna accessoria a forzati digiuni e mortificazioni. In realtà, mi sono piombate addosso le maggiori ansie e miserie d’autore, ansie che mi impedivano di parlare, ansie che mi portavano al silenzio, al piattume a tavoletta, di compagno, di compagna, di  titolare di studio di registrazione, di cantautore anziano e sedentario, e la vita di tartagliante che qualcuno crede che io conduca, è più immaginaria del più pallido sogno. Tuttavia, tra i molti impedimenti canori e le poche gioie riproduttive, ho curato questo spartito sulla impronunciabile balbuzie, che dovrà essere la mia difesa, il mio atto di penitenza, per aver tanto incespicato, per aver turbato la comunità dei sordo muti, quasi rovinato il comizio, resa silenziosa l’assemblea con i vecchi compagni; per tutta l’irritazione, per tutto il gracchiare, per il vecchio sguardo accigliato e smorfia delle labbra. Così, gente della mia comunità, della mia band, che avete sofferto tanto a lungo, e  cantautori pazienti, possa un barlume di questa esercitazione che tanto spesso mi ha minacciato, ma forse troppe volte in segreto, raggiungere ora voi da queste pagine.