Jeffrey Isaac, Gérôme

(Non solo) l’occhio vuole la sua parte: I to Eye alla Galleria Andrea Ingenito di Napoli

Inaugurata lo scorso 24 maggio presso la Galleria Andrea Ingenito Contemporary Art di Napoli e visitabile fino al 5 luglio 2025, I to Eye è una mostra collettiva a cura di Gabriele Perretta che riflette sul ruolo e sul funzionamento dello sguardo in un’epoca segnata dalla sovraesposizione visiva e dalla mediazione tecnologica. L’esposizione riunisce opere di Damien Hirst, Mario Schifano, Marco Abbamondi, Maurizio Cannavacciuolo, Davide Maria Coltro, Santolo De Luca, Jeffrey Isaac, Heinrich Nicolaus e Sawangwongse Yawnghwe.

Un aneddoto curioso racconta che, nei primi anni Venti del Novecento, durante un’udienza del processo noto come Il caso Hahn v. Duveen — riguardante l’attribuzione di un’opera a Leonardo da Vinci — fu chiesto a Bernard Berenson se avesse mai visto dal vivo un certo dipinto di Leonardo esposto al Prado, e se questo fosse stato realizzato su tela o su legno. Berenson rispose: «non è interessante su quale carta Shakespeare scrisse l’Amleto».

Questa risposta tagliente si inserisce in un momento storico in cui la connoisseurship stava attraversando una crisi profonda, che ne metteva in discussione autorità e limiti. Quella che per lungo tempo era stata considerata una metodologia consolidata — fondata sull’osservazione diretta e sull’esperienza dell’esperto — iniziava a mostrare evidenti crepe.

Ma a rifletterci, quanto è effettivamente possibile scindere l’«Amleto» dalla sua «carta»? Quanto è legittimo, al di là delle metodologie di attribuzione, pensare un’analisi critica dell’opera che prescinda dalla sua materialità e, con essa, dal suo processo produttivo?

È evidente che si tratta di riflessioni retrospettive, che emergono in un’epoca che ha ormai da tempo assistito al passaggio della produzione artistica dalle belle arti alle arti plastiche, ma conservano una certa attualità nel contesto postmediale contemporaneo.

In generale, va riconosciuto come non sia la prassi critica a formare la lettura dell’opera, bensì la produzione artistica stessa a determinare la struttura di una sua possibile ermeneutica. Oggi, nel pieno dell’epoca della saturazione delle immagini — tra l’esplosione di quel valore di esponibilità di cui parlava Walter Benjamin e la sparizione del reale nel gusto baudrillardiano — lo spettatore, e non più soltanto il connoisseur, si ritrova a confrontarsi con un’immagine che ha ormai perduto, nel suo funzionamento, il primato della cosiddetta “pura visibilità” — ammesso che sia mai esistita.

Per certi aspetti, la mostra collettiva I to Eye, curata da Gabriele Perretta e visitabile fino al 5 luglio 2025 presso la Galleria Andrea Ingenito, si inserisce all’interno di questo circuito di riflessioni. Qui il fulcro del discorso può essere ripensato proprio nella direzione di una multidimensionalità del concetto di immagine. La celebre e (apparentemente) apodittica affermazione di W. J. Mitchell, secondo cui «i media visuali non esistono», trova riscontro tanto in Lands Puro Pigmento di Marco Abbamondi quanto in Il rosso scrive rosso di Santolo De Luca. In ambo i casi, la lettura dell’immagine non può prescindere dalla sua configurazione materiale; l’idea di una “pura visibilità”, tipicamente e ideologicamente legata alla rappresentazione tradizionale, cede infatti il passo a un’interpellazione sensoriale più estesa, che scardina il primato della vista e lo baratta con una tattilità diffusa, percettivamente ambivalente. 

Un ulteriore concetto rilevante, anch’esso mutuato da Mitchell, è la distinzione tra «image» e «picture». Una distinzione che, per certi versi, richiama quella formulata da Berenson tra la «carta» – intesa come oggetto finito nella sua consistenza materiale – e l’«Amleto» – ovvero ciò che circola al di là delle cornici, attraversando differenti supporti, a cominciare dalla nostra mente.

La prevalenza dell’«image» sul «picture» si manifesta, tra l’altro, nell’opera di Mario Schifano – presente in mostra con un monocromo degli anni Sessanta – che ben esemplifica una tendenza più ampia del suo lavoro in quel periodo: la pittura si fa riflesso dello sviluppo della grafica pubblicitaria, e l’iconicità del segno, traslata nel registro dell’artigianalità pittorica, assimila e rielabora i modus operandi tipici del linguaggio massmediatico.

D’altronde, lo stesso movimento centrifugo dell’immagine postmediale – che tende a eccedere il suo supporto originario – trova un contrappunto emblematico in Circle Spin Painting di Damien Hirst, dove la composizione non nasce da un gesto pittorico diretto, ma dalla meccanica rotazione del supporto, con parametri determinati da velocità e durata del moto.

Così come invece un dissonanza curiosa si manifesta nelle due installazioni di Davide Maria Coltro, Winter e Spring: se da un lato il display digitale potrebbe evocare una logica visiva fondata sulla velocità, sulla molteplicità e sull’istantaneità tipiche della cultura dello schermo, dall’altro l’opera, al contrario, si sviluppa secondo una temporalità rallentata, quasi a voler recuperare un rapporto contemplativo. La variazione dell’immagine avviene in modo impercettibile, come se l’apparente vocazione all’accelerazione venisse contraddetta dall’inerzia del paesaggio, che si trasforma lentamente, rigenerando topoi pittorici tradizionali in un contesto tecnologico. In questa pittura elettronica, lo spazio del quadro si fa dispositivo processuale, in cui l’artista sembra agire a distanza, diluendo l’intervento creativo nel tempo e negando la frenesia visiva della contemporaneità.

Eppure, da un punto di vista mediologico, questi aspetti ci rimandano a una trasformazione ben più remota: già Edgar Degas, agli albori della società dei consumi, la anticipava con La visita al museo (1879-1885). In questo dipinto, come nella mostra I to Eye, non sono le opere d’arte a occupare il centro della scena, bensì le figure che le osservano. Il fulcro si sposta dal quadro allo sguardo dello spettatore, dallo spazio della contemplazione a quello della fruizione desiderante: è lo sguardo del flâneur, del consumatore metropolitano di immagini, “riflessi” e “vetrine”.

Il fruitore contemporaneo non è più semplice osservatore passivo, ma uno spettatore in cui il «guardare non si oppone all’agire», bensì ne costituisce un momento essenziale. Immerso in immagini materiali, relazionali e mobili, è chiamato a farsi soggetto attraverso il proprio sguardo, diventando così un agente attivo nella produzione di senso nell’esperienza estetica. 

Le opere, più che essere semplicemente viste, si dispiegano come forze in divenire che si riarticolano nel campo del desiderio: non si limitano a presentarsi come oggetti fissi, ma si attivano e si trasformano attraverso il punto di vista dello spettatore. Esse non si impongono come forme compiute, ma si manifestano come eventi aperti, processi in cui percezione e affetto si intrecciano, dando vita a una molteplicità di significati potenziali.

È in questo scarto che si gioca il senso del discorso, ed è qui che affiora la lingua viva delle cose: nell’abbandono di una visione statica e chiusa, per abbracciare una dimensione in cui l’immagine si fa campo di relazioni e tensioni, dove superficie e profondità si sovrappongono e si confondono. In fondo, come ha scritto Hugo von Hofmannsthal, «la profondità va nascosta. Dove? Alla superficie». Ed è proprio nella superficie — nella sua tensione, nella sua opacità — che oggi si disloca ogni possibile profondità dell’immagine.

Alessio Esposito

Alessio Esposito (Napoli 1999) è dottorando in Scienze del Patrimonio Culturale presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. È cultore della materia per il corso di Storia e Metodologia della Critica d’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Scrive per varie riviste di settore.

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