Milano è una città cosmopolita, di respiro europeo, da tempo legata alla moda, al design e quindi particolarmente sensibile al contemporaneo. Una vocazione coltivata da tempo e che le conferisce un’identità ben precisa, una certa sobrietà legata anche al razionalismo architettonico espressione di una dedizione totale al risultato, all’innovazione, alla concretezza. Ho voluto pertanto abbandonarmi anche io a questa voglia di sobria novità e per il mio alloggio in città ho scelto Rocco Forte House Milan, undici appartamenti inaugurati da pochissimo in uno splendido palazzo del diciannovesimo secolo in Via Manzoni, all’angolo con Via della Spiga. Il progetto è stato realizzato dalla nota società di design Paolo Moschino Ltd in collaborazione con Olga Polizzi, Director of Design di Rocco Forte Hotels. Il palazzo vanta stucchi originali, soffitti affrescati e mobili antichi, mentre gli appartamenti all’ultimo piano hanno uno stile più contemporaneo con ampie vetrate e terrazzi che si affacciano sullo skyline meneghino. Il mio appartamento era al secondo piano con affacci su Via della Spiga e su un cortile interno estremamente silenzioso e luminoso.
Il mio viaggio all’interno degli studi degli artisti parte da qui ed il primo artista che abbiamo incontrato ed intervistato è Luca Pancrazzi, artista fiorentino di base a Milano che lavora con la pittura, il disegno, la scultura, la fotografia ed i progetti editoriali e che ha esposto in numerose biennali come quella di Venezia, di Mosca e di Valencia, solo per citarne alcune ed in numerosi musei come il PS1 Contemporary Art Center di New York, Whitney Museum of American Art at Champion, Centro per l’Arte contemporanea Luigi Pecci, Vietnam National Museum of Fine Arts, Palazzo Te, Palazzo Reale di Milano, Uffizi, ecc. Con Luca visitiamo la sua abitazione, il suo studio ed il suo archivio, gli stimoli sono tanti così come le domande, di seguito riportiamo alcuni passaggi particolarmente significativi per comprendere meglio la sua pratica artistica ed entrare nel suo mondo particolarmente variegato ma estremamente interessante ed attuale.
Raffaele Quattrone: Ho letto che terminati gli studi hai collaborato con lo studio di Sol Lewitt e Alighiero Boetti. Puoi parlarmi di questa esperienza e cosa ha lasciato, se l’ha lasciato, nella tua pratica artistica?
Luca Pancrazzi: Sì tra le varie cose eccitanti e propositive che succedevano a Firenze durante quegli anni non ho avuto la fortuna di trovare un buon insegnante di pittura nel corso dell’accademia che frequentavo, e dopo un po’ di opposizione aperta al suo corso, alla fine del secondo anno sono riuscito a farmi rimandare a settembre proprio in pittura, ho superato quell’esame con un gigante autoritratto dipinto a smalto oleosintetico e in seguito, dopo aver iniziato il terzo anno, ho definitivamente abbandonato il corso. Non ho avuto troppo tempo per avere dei ripensamenti, ha pesato direi il fatto che già in quel periodo avevo iniziato a lavorare per Alighiero Boetti a Roma e con lui l’arte era diventata contemporanea e molto più interessante, oltre ad essere anche istruttivo e remunerativo. È stato mio maestro ed ho lavorato con lui facendo il pendolare Firenze-Roma fino al 1992. Era un periodo nel quale gli artisti tra di loro si frequentavano di più, dallo studio di Roma passava tanta gente, artisti, mercanti, galleristi, critici, e la maggior parte delle volte lavoravo di notte, come mio solito, per finire quello che avevamo iniziato il pomeriggio.
Pensando alla mia pratica oggi credo che la frequentazione di Boetti abbia alimentato questa peculiarità dei cicli di lavoro che caratterizza comunque una mia attitudine.
Ho mantenuto il lavoro in cicli diversi portandoli avanti contemporaneamente come se fossero tasselli di un puzzle più ampio che corrisponde alla mia identità d’artista.
Raffaele Quattrone: Quanti sono ad oggi questi cicli? Li hai mai contati?
Luca Pancrazzi: Ci sono cicli principali e sottocicli e non li ho mai contati, non so quanti siano, non è importante il numero, spesso sono solo dettagli che servono a me per rendere il percorso visibile e chiaro, ma se scorri questi libri davanti a te ti accorgi che dentro trovi delle cose che si ripetono, che si ripercorro nel tempo. Come, per esempio, in questo che è un libro recente, una sorta di autobiografia che si apre con un paesaggio a china del 1978, ma che sembra realizzato oggi e che ritengo ancora significativo per me anche se non è mai stato esposto. Ero un ragazzino quando l’ho realizzato, a quel tempo non facevo mostre, non sapevo proprio come si facessero. Però quella cosa lì c’è e continua a lavorare dentro di me, generando altre cose che si sono trasformate nel tempo.
In tutti questi lavori, pur se diversi formalmente uno dall’altro, porto avanti una ricerca specifica per ciascuno di loro, un po’ come se moltiplicassi la mia personalità.
In fondo so che rimango il giocoliere che ha inventato le regole di tutti questi giochi dove le mostre e le pubblicazioni sono la parte scientifica della nostra ricerca.
Raffaele Quattrone: Hai da sempre lavorato per cicli?
Luca Pancrazzi: Mi sembra proprio di sì. Anche se in certi momenti ho provato ad unire tutte le differenti matrici esportandole in un unico output, ma dopo ho continuato a rimanere più curioso di tutto ciò che non avevo compreso piuttosto di ciò che avevo incluso.
Rimango sempre estremamente curioso di ciò che non ho ancora fatto, di dove posso dirigere lo sguardo, riesco ad avere stimoli nuovi e faccio scoperte principalmente nel fare sperimentando.
Talvolta penso che tentare di unire tutti questi aspetti potrebbe generare un grande caos implosivo.
Raffaele Quattrone: Hai mai chiuso un ciclo?
Luca Pancrazzi: No, sono ancora tutti aperti. Anche quello dei classici interni ad olio, ho già delle immagini nuove da dipingere. Molto dipende anche dal tempo che riesco a dedicare ad un progetto perché non delego facilmente le parti più creative a collaboratori. Perlomeno mai tutto il processo creativo. Anche se trovo assurdo dirlo, i quadri li realizzo personalmente, e talvolta quando mi capita, trovo che anche la preparazione della tela possa essere una fase creativa importante, almeno concettualmente.
Questo ciclo di quadri bianchi che al momento è uno dei miei cicli principali, è nato molti anni fa quando in uno studio a Bagno a Ripoli ho predisposto quattro grandi tele sulle quattro pareti di una stanza ed ho iniziato un movimento teso alla realizzazione e preparazione di quelle tele. Lo scopo era stendere un fondo gesso sulla tela per poi realizzare dei quadri. Lo studio si è trasformato in una sorta di teatro delle ombre, dove il protagonista della rappresentazione era il pittore proiettato sulle tele.
In pratica utilizzando il fondo gesso ho dipinto quattro quadri che hanno dato inizio al ciclo dei quadri bianchi.
Molti lavori sono nati principalmente per caso, per incidenti di percorso, ripensamenti, scarti, sbagli, per qualcosa di rotto, perché uno specchio si è graffiato… Spesso cose insignificanti hanno il potere evocativo di una vera immagine.
Raffaele Quattrone e Luca Pancrazzi nello studio dell’artista
Raffaele Quattrone: Ti ricordi qual è stata la tua prima opera?
Luca Pancrazzi: Se intendi con la consapevolezza di farlo non saprei dirlo senza consultare l’archivio, ci sono dei quadri che ho dipinto prima di andare al liceo, già prima del liceo volevo imparare a dipingere. Mio padre aveva delle scatole con degli olii perché da giovane ha provato a dilettarsi a dipingere. Ho fatto dei quadri di scorci di paesaggi, in particolare uno di Venezia mi aveva particolarmente coinvolto, ma non lo metterei mai in una mostra.
Raffaele Quattrone: Ma è qualcosa che hai conservato?
Luca Pancrazzi: Si si, è qui da qualche parte, ma non te lo faccio vedere.
Raffaele Quattrone: Conservi tutto? Che cosa conservi?
Luca Pancrazzi: In studio conservo tutto anche e soprattutto gli scarti perché hanno una forza creativa pazzesca paragonabile e qualche volta maggiore di opere finite.
Adesso che ci penso potrei dare spazio a questa idea e costruire una mostra dove, per l’appunto, metto in mostra tutto ciò che è lo scarto, la vita, iniziando nel momento in cui decido di realizzare le opere per quella mostra. Scarto le opere e mostro gli scarti.
Ci sono carte, pezzi di tela… Mi piacerebbe molto fare una mostra di scarti. Ho già dedicato una mostra all’errore. In questo catalogo fatto in forma di giornale puoi vedere dei quadri che sono i test dei colori che ho usato per fare le opere per questa mostra e questi stessi sono diventati opere esposte poi insieme ai quadri a cui lavoravo. I quadri principali nel progetto erano delle tele monocrome, ma in realtà bicrome. Ho utilizzato lo scarto che c’è tra due prodotti realizzati da differenti laboratori, nei quadri c’era solo una frase scritta che si riusciva a leggere perché dipinta con lo stesso prodotto con cui era dipinto il fondo, ma proveniente da una casa produttrice diversa. Due bianco titanio, due minio in polvere, due vernici alluminio, due ossidi di ferro, questi sono due gialli cadmio, c’è la vibrazione della produzione industriale che si evidenzia nel bordo, ed è che qui volevo mettere in evidenza come errore sia uno scarto inteso come movimento propositivo.
In tutto questo c’erano una serie di piccole tele con i Test dei vari prodotti. È stata una mostra del 2002.
Raffaele Quattrone: Questa tua capacità di raccogliere e conservare tutto è essa stessa una pratica artistica?
Luca Pancrazzi: Adesso sto lavorando ad un libro dedicato alle stelle, si chiama Star System. Nel tempo, tra le immagini che raccoglievo, ho visto che apparivano sempre molte stelle a cinque punte. Le stelle erano nelle foto delle B.R., dei militari in guerra, delle bandiere americane, nelle decorazioni dei tessuti da indossare, nei costumi da bagno, nei gioielli e nelle decorazioni. Ho raccolto insieme ad altro migliaia di foto di queste stelle sin dagli anni ottanta, adesso ce ne sono almeno 500 che saranno raccolte a breve un libro.
Raffaele Quattrone: Ti ricordi tutto quello che raccogli?
Luca Pancrazzi: Si mi ricordo tantissime immagini. Ho archivi cartacei, digitali, in diapositive, in fotocopie. Per molto tempo ho fotografato analogicamente le cose e raccolte poi in archivi di diapositive perché le proiettavo, adesso invece si usano proiettori digitali e si riempiono memorie… cerco di essere ordinato. Il piano di sopra di questo archivio è dedicato a questo, per metà è archivio di foto, immagini, film, diapositive, ritagli, ecc.
Raffaele Quattrone: Qual è il tuo rapporto con la memoria?
Luca Pancrazzi: In verità ho un rapporto abbastanza metafisico con la memoria così come con il tempo. Ci sono cose che sento vicine ma in realtà sono successe molto tempo fa.
Evito di essere legato alla cronaca, probabilmente sono più legato ad un tempo astratto e interiore. Non riesco a far pace con questo senso globale. Mi piace condurre tutti questi cicli verso un loro proprio futuro, il proprio percorso.
Poi forse l’insieme risulterà andare in un’unica direzione e si vedrà tutto il lavoro diventare un corpo omogeneo, oppure, invece, si vedrà una grande esplosione che proietta schegge in tutte le direzioni.
Raffaele Quattrone: Cosa ti disturba nell’avere un’identità riconoscibile?
Luca Pancrazzi: In realtà non è qualcosa che mi disturba penso che in qualche modo la ricerchi anche io, di per sé mi sembra una ricerca fine a se stessa, ottimizzata per gli altri, troppo facile.
Che poi, correggimi se sbaglio, è quello che vedo nei giovani artisti di oggi. Non sono ancora usciti dall’accademia ed hanno un’identità del loro lavoro talmente precisa che quando leggo l’età dell’autore mi sorprendo. L’aiuto che mi verrebbe di dare loro è quello di metterli in crisi.
Quando hanno successo subito con una delle galleria in cerca di queste anime pure la loro identità si rafforza così tanto che all’età di 24 anni sembrano già degli artisti maturi, mentre quegli anni sarebbero stato bellissimo se li avessero dedicati a spaziare e a ricercare se stessi dentro al mondo. Quel successo invece diventa una gabbia.
Nei miei primi anni post accademia ero per fortuna economicamente indipendente lavorando per Boetti, Sol Lewitt… realizzando grafica per una casa discografica e anche se il mio lavoro esisteva già, non avevo esigenza di esporlo subito, questa cosa è avvenuta dopo, man mano, verso i trent’anni quando ho ritenuto quella prima fase di sperimentazione necessaria e sufficiente per iniziare una nuova fase. Avevo sperimentato tantissimo e probabilmente tutto quello che ho fatto in quegli anni adesso riaffiora e lo sto portando avanti in questi che chiamiamo cicli.
Penso che quello che fai nei primi 25 anni della tua vita costituisce la tua identità.
Raffaele Quattrone: Quando hai iniziato ad interessarti del paesaggio?
Luca Pancrazzi: Credo da sempre. Osservare, guardare per me è una pratica importante, mi sono sempre affacciato dalle finestre. E poi l’ho anche utilizzato come tema. Ho dedicato di cicli, come vedi da questo altro libro, alla natura morta, altri dedicati agli interni.
Ho dipinto interni sin dal 1988, per poi uscire fuori dalle finestre delle mie rappresentazioni dipinte. La finestra aveva un paesaggio dentro di sé e una volta uscito da quella finestra ho dipinto tutto quello che era fuori compresi gli edifici da cui ero uscito e che a quel punto facevano parte del paesaggio.
Poi ho dipinto quello che vedevo dal finestrino dell’automobile, che è una sorta di abitacolo spaziotemporale, esperienziale, da cui si parte per conoscere il mondo che attraversiamo utilizzando altri mezzi che hanno finestre e finestrini. Pensa alla metropolitana, al treno, alla macchina.
Non vai più da una città ad un’altra a piedi, quindi la storia che puoi raccontare comprende tunnel, ponti, strade, la nuova fabbrica appena costruita e tutti paesaggi antropizzati, non ci si abbevera al ruscello o alla fonte, ma ci fermiamo all’autogrill.
Non c’è un paesaggio che non abbia un segno umano, vuoi un lampione, un palo della luce, un’infrastruttura, una canalizzazione, sin da quando anche il paesaggio naturale non lo era già più tanto, anche se gli somigliava, come i paesaggi toscani che sono stati manomessi sin da quando l’uomo è intervenuto piantando cipressi e pini o ulivi e viti, edificando poi fattorie e villaggi, ponti e strade, modificando quindi il disegno della campagna ancor prima di erigere le città.
Il paesaggio è un risultato di modificazioni sociali e politiche apportate a partire dalla presenza dell’uomo.
Quando mi muovo analizzo la densità delle infrastrutture per capire se mi sto allontanando o avvicinando ad un centro urbano. È evidente quando viaggi in treno, per esempio, che le attività si diradano man mano che ti allontani dalla città sino a quando si ha una parvenza di paesaggio naturale immediatamente smentito da un palo della luce o una cisterna dell’acqua o altro segnale che ritma il paesaggio ed aumenta la frequenza avvicinandosi ad un nuovo centro.
Tu stesso quando viaggi e ti guardi i piedi scopri che sei appoggiato su un mezzo che transita su una infrastruttura e che se anche osservi un paesaggio naturale esternamente a te, quel paesaggio naturale che stai apprezzando è segnato da una ferrovia che lo attraversa… quella in cui sei sopra.
Raffaele Quattrone: Il paesaggio era qualcosa che ti affascinava o spaventava?
Luca Pancrazzi: Tutte e due le cose. Poiché ti ho raccontato che mi piace fare esperienze ho provato a coltivare il piacere di perdermi dentro al paesaggio.
Sfruttando la mia attitudine di guidatore mi piaceva perdermi per strade di campagna e soprattutto nelle città che non conoscevo.
Se non ti perdi non puoi ritrovarti ed è salutare ogni tanto lasciarsi andare e perdersi.
In fondo sono affascinato da chi non ha il senso dell’orientamento e si perde facilmente.
Raffaele Quattrone: La luce è un elemento molto importante della tua produzione artistica, hai dedicato ad essa diversi cicli di opere. È giusto?
Luca Pancrazzi: Gli ultimi lavori dedicati all’abbaglio sono proprio dentro un ciclo di quadri bianchi, acrilici bianchi su tela grezza.
Naturalmente nelle immagini cerco di capire la potenza della luce rispetto all’oggetto partendo da un lavoro sull’immagine fotografica ed equalizzando alcune parti.
Nel mio caso la luce è l’aspetto più importante del disegno del quadro, devo dosarla, quando un quadro è dipinto troppo diventa abbagliante.
In questi quadri disegno e dipingo il quadro esclusivamente col colore bianco, senza segnare la tela con grafite o altro pastello. Proietto su una tela grezza, chiara, alle mie spalle la luce del proiettore che abbaglia ogni volta che mi giro mentre davanti sono immerso nella luce. Spesso mi sento come stessi dipingendo mentre faccio una passeggiata nel vuoto del cosmo, galleggiando nel buio abbagliante dei raggi del sole che non accende il nero del cielo ma illumina solo la mia astronave.
In questi quadri lavoro proiettando le immagini e in questa situazione ottengo delle visioni che vanno oltre il quadro. La percezione del quadro diventa quasi relativa la luce è il soggetto, l’abbaglio è il soggetto.
Per questa mostra newyorkese di cui vedi questo libro ho dipinto delle forme di abbaglio partendo da immagini che vivono di luce.
Abbaglio è un termine ambiguo, nell’abbaglio ci si può confondere, ci si può perdere, ti può portare all’errore, oppure lo puoi intendere come un’illuminazione, rivelazione. Anche nell’iconografia cristiana l’annunciazione è un lampo di luce. L’abbaglio di una visitazione divina, la luce che ti guida verso la verità ha sempre una valenza duplice.
In questi altri quadri per esempio ho evidenziato quella luce che filtra tra le fronde degli alberi. Questa luce non è solo abbagliante, ma piuttosto ti incanta come se fosse la danza di una ballerina che gioca a nascondersi e che procura smarrimento.
Per questa emozione i giapponesi hanno coniato una parola: komorebi.
Raffaele Quattrone: In ogni caso questi soggetti pur partendo dalla realtà sono irreali, giusto?
Luca Pancrazzi: Si come nei paesaggi in forma di scultura dove c’è uno spillo, un chiodo, un affilamatite che sono oggetti ma che la tua mente percepisce come paesaggi. In questi quadri sto andando verso un tipo di astrazione, sono sempre meno descrittivo rispetto al paesaggio mentre mi sto concentrando sull’apparizione della luce. In questo quadro per esempio descrivo la luce che passa attraverso degli ulivi, che viene riflessa dalle fogliette specchianti e lucide. Se ti ci avvicini troppo ti perdi, non vedi più il disegno, ma riesci ad apprezzare la pittura, però poi ti devi riallontanare per vedere il quadro.
Raffaele Quattrone: C’è un progetto di mostra al quale stai lavorando e che puoi anticiparci?
Luca Pancrazzi: Sto preparato una serie di opere da esporre in primavera, si tratta di orizzonti estremi, quindi di paesaggi estremizzati. Saranno paesaggi industriali, urbani, i paesaggi che possiamo guardare dal finestrino dell’auto lungo le autostrade… nella mia idea l’occhio si chiude e nel momento prima di chiudersi l’ultima cosa che vede è l’orizzonte. Questi sono una serie di acquerelli realizzati quasi seguendo una disciplina per la quale traccio delle pennellate più possibile dritte e più possibile lunghe, ed è la risultante vibrazione dei loro colori a creare un cielo ed una terra. Successivamente, nelle imperfezione della carta vado a dipingere piccoli segni che potrebbero evocare edifici o strutture che si vedono lontano nel paesaggio. Ci saranno poi altre tipologie di lavori come per esempio disegni a china o pitture come fossi un artista eclettico.
Raffaele Quattrone: C’è qualcosa di orientale nella tua pratica? La china, la carta…
Luca Pancrazzi: Forse nel rigore con cui imposto un lavoro, nelle regole che metto nella realizzazione, nella semplicità formale e nel gesto. Molte volte lo spazio di realizzazione dell’opera sta tra un attimo e l’altro, cioè in quello spazio infinitesimale ma al tempo stesso enorme se lo osservi bene dopo averlo dilatato.
Raffaele Quattrone: Da quando la tua pratica è caratterizzata da queste regole, da questo sistema di regole che tu stesso crei?
Luca Pancrazzi: Non è in realtà qualcosa che decido a tavolino però sai benissimo che per giocare bisogna costruire delle regole. Anche le cose usuali che conosciamo hanno dei confini e quindi delle regole, il quadro con il suo formato, il suo bordo dove la tela si piega lungo lo spessore del telaio e poi finisce, ed inizia il muro e poi dopo c’è il mondo, già questo limite è una regola precostruita. Darsi poi altre regole più stringenti o meno ti permette di approfondire alcune tecniche o tematiche in maniera profonda e consapevole. Per esempio in questa tipologia di disegni di orizzonti ho adottato un supporto estremo come i rotolini per scontrini fiscali, alti pochi centimetri e lunghi 35 metri sui quali ho disegnato un orizzonte, in forma di linea calligrafica che non è possibile vedere nel suo insieme perché non è usuale trovare una parete così lunga da contenerlo o una cornice di questa dimensione. Lo si può vedere sempre parzialmente tenendolo a spirale oppure si può farne un film che nel mio caso dura otto ore. Ecco vorrei che in questa mostra il cui titolo sarà “Come sempre, dove sai” ci saranno disparate tipologie di paesaggio che insieme costruiscono una linea che è la linea dell’orizzonte. Il titolo indica un appuntamento in un luogo preciso, segreto condiviso con chi sa.
Raffaele Quattrone: anche questa è una tua opera?
Luca Pancrazzi: sì si tratta di un lavoro realizzato da un soffiatore di Murano, sono i sacchetti di plastica che alza il vento per le strade quando c’è vento. A Milano è così raro avere vento che quando accade vola tutto ciò che non viene raccolto per le strade, tutto quello che non viene ripulito e che si accumula negli angoli. Quando a Milano c’è vento io sono felice, amo questa condizione, perché amo il vento, e quindi si solleva di tutto, soprattutto i bei sacchetti di plastica colorati che volano ad altezze improbabili se gonfiati bene.
Al soffiatore di Venini gli ho portato dei sacchetti di plastica che ho gonfiato lì davanti a lui e che lui mentre li riproduceva in vetro soffiandoci dentro. Anche i sacchetti di vetro di Murano sono gonfiati dall’aria.
Poi sono stati esposti alla Biennale di Mosca nel 2007 dove c’era anche Maseratirundum, una Maserati ricoperta di vetri spezzati incollati di taglio.
Studio visit
a cura di Raffaele Quattrone
Foto di Tommaso Paris
Progetto promosso da Galleria Artra
In collaborazione con
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