Continua il nostro viaggio negli studi d’artista. Mi sono trattenuto a Milano presso Rocco Forte House Milan e da qui sono andato alla scoperta della città dove il rapporto tra tradizione ed innovazione è sempre molto centrale. Le architetture storiche di Milano, che convivono con audaci sperimentazioni moderne, offrono una cornice unica in cui si intrecciano memoria e avanguardia. Questa città non è solo un luogo, ma un laboratorio aperto, dove il dialogo tra passato e presente si riflette nell’arte, e la scultura trova uno spazio privilegiato per interrogare la materia e i significati. Nel contesto odierno, la scultura non è più relegata al ruolo di rappresentazione statica, si è trasformata in un linguaggio vivo, capace di affrontare temi come la frammentazione dell’identità, il rapporto tra individuo e collettività, e l’incontro tra umano e trascendente. Qui emerge il concetto di sacro, non più confinato alla sfera religiosa tradizionale, ma inteso come tensione verso una dimensione altra, un’esperienza di trascendenza e connessione. Questo sacro contemporaneo si manifesta attraverso la ricerca di equilibri sottili, l’uso della luce e delle ombre, o la riconfigurazione del frammento in qualcosa di nuovo e significativo.
Alberto Gianfreda si inserisce pienamente in questo scenario, portando nella sua opera una riflessione profonda sul rapporto tra equilibrio e precarietà, tra materia ed idea. Le sue sculture, spesso composte da frammenti di materiali ceramici, parlano di ricomposizione, di un’armonia che non si ottiene cancellando la frattura, ma accogliendola come parte essenziale dell’opera. In questo processo, Gianfreda sembra suggerire che il senso della scultura – e forse della vita stessa – si trovi non nella perfezione, ma nella capacità di abbracciare la complessità, di trasformare il frammento in totalità. Le sue sculture parlano anche di relazioni: i frammenti non esistono isolati, ma sono sempre in dialogo con gli altri elementi e con lo spazio che li circonda. Questa visione relazionale può essere letta come una metafora della condizione umana, in cui ogni individuo è parte di un tessuto più ampio, interconnesso e complesso. C’è, inoltre, un aspetto quasi spirituale nelle sue opere. La ricomposizione dei frammenti suggerisce una ricerca di senso nella frammentazione, un desiderio di trascendere la materia e toccare una dimensione più alta, che potremmo definire sacra. Gianfreda sembra invitarci a vedere la bellezza nell’imperfezione e a riconoscere che la frattura può essere un punto di partenza, non una fine. Ma approfondiamo direttamente tutti questi aspetti con il diretto interessato che ringrazio per la gentilezza e generosità con le quali mi ha sempre accolto.
Raffaele Quattrone: Proviamo a partire dall’inizio raccontando come si è sviluppato il tuo lavoro nel tempo. Da dove sei partito?
Alberto Gianfreda: Sono in questo studio da sette anni, per cui qui troviamo tanti lavori che raccontano l’evoluzione del mio percorso artistico. Questi sono piccoli segni che sono rimasti su questi questi scaffali rappresentando l’inizio del mio lavoro basato sul rapporto tra diversi materiali, qui i marmi si relazionavano ai ferri. Questo lavoro di relazione tra le parti, tra diversi materiali ha sempre rappresentato una questione estremamente importante per me perché sono sempre stato affascinato dalla relazione, di come un materiale ne determina un altro, di come la forma si determina nella relazione delle cose.
RQ: Questi lavori in quali anni sono stati realizzati?
AG: Appena terminati gli studi, per cui parliamo di vent’anni fa, diciamo fine Anni Novanta, inizio Duemila. Si tratta di opere che non sono neanche nate qui ma a Stoccarda dove ero andato a completare gli studi. Ero molto affascinato dalla potenza dei materiali, perché in quel momento mi interessava proprio la forza, questa dimensione brutale del materiale. Nel mio immaginario la dimensione del materiale era la cosa più vicina alla dimensione umana. L’esperienza che fa un materiale quando viene piegato, viene curvato, stressato, pressato, sentivo che era simile alla dimensione dell’esperienza che facciamo noi con il nostro corpo. Un’argilla che si curva, che si piega, che prende una forma per di più col colore dell’incarnato, per me è quello che ci succede quando “pressiamo” il nostro corpo.
In quegli anni era centrale nel dibattito il problema dell’autoreferenzialità dell’opera d’arte, che parla di sé stessa. Io cercavo di capire come in realtà l’opera potesse riagganciare una relazione interna tra i materiali, ma anche con l’altro cioè con chi osserva l’opera. Se questo è stato l’inizio, questa relazione tra materiali nel tempo è diventata sempre più articolata. Inizialmente il rapporto era tra la terracotta ed il ferro che sprofonda dentro la terracotta. La forma è il risultato di questa relazione e soprattutto una forma che non è scontata, perché è vero che c’è una forma che do io inizialmente, però, quello che poi esce dal forno, che si determina dopo la cottura è un’incognita, perché non si sa cosa succede, come questa relazione si consumi. L’idea è che la terracotta possa spaccarsi in realtà questo non succede. Abbiamo quindi un preconcetto rispetto alla relazione che è indubbiamente uno dei temi della mia pratica,
ma c’è anche il tema dell’identità e del movimento. Cosa succede nel momento in cui la terracotta va in forno a novecento, mille gradi assieme al ferro? Avviene qualcosa di misterioso. C’è questo momento di conoscenza massima tra i due materiali che diventano due elementi magmatici. Dopo di che escono fuori dal forno e ritornano due elementi distinti, però in una relazione indispensabile. Un antiprocesso dove la terracotta che si è ritirata incontrando qualcosa di resistente, mantiene quella forma, quella condizione solo perchè c’è il ferro, solo perchè c’è un altro elemento. Ecco perchè parlo di identità. C’è questa conoscenza massima quando sono in forno; poi quando tornano fuori, ritornano ad essere cose distinte: il ferro torna ad essere ferro, la terracotta, terracotta. Senza contare il tema del movimento che è la cosa che percepiamo meno perché di fatto li percepiamo come elementi stabili. C’è questa idea di forza in atto, dove appunto c’è qualcosa che continua ad agire. Se togliamo o uno o l’altro questa opera collassa. Movimento quindi come possibilità di variare le forme, di adattarsi.
RQ: Quando hai iniziato a lavorare, a pensare all’unione di materiali completamente diversi tra di loro?
AG: Ma in realtà da subito. Sugli scaffali ci sono i primissi lavori in gesso e ottone. Mi ha sempre affascinato la differenza, lavorare sugli opposti, verificare se in qualche modo queste cose distinte per differenze, per opposizione, in realtà poi trovano una modalità di incontro.
RQ: Quindi il tuo interesse è sempre stato legato alla possibilità di ottenere un equilibrio finale tra questi elementi che sono diversi, però cercano di equilibrarsi, cioè di coesistere in qualche modo?
AG: Sì è così cercano di coesistere.
RQ: Queste opere sono successive?
AG: Questi sono successivi, sì. Qui abbiamo solo un elemento parziale in quanto parti di opera più grandi. Grandi circonferenze aperte, grandi recinti inclinati, definivano degli spazi, per cui si innescava anche un rapporto con l’architettura, con la definizione dello spazio dentro e quello fuori. Quindi la relazione tra materiali era differenza tra luoghi, un luogo rispetto al quale tu ti senti dentro o fuori. Quindi quella relazione diventava esclusiva o inclusiva. Probabilmente in questo ha influito la mia formazione. Ho studiato scultura in arte ed antropologia del sacro. La dimensione del sacro, inteso come rituale, come liturgia, come azione, e soprattutto un’arte che, appunto, contrariamente a dimensioni autoreferenziali, ti costringe a dire che quest’opera non è fine a sé stessa, ma deve inevitabilmente entrare in una relazione con qualcun altro. Qualsiasi cosa sia quest’altro, non è una questione di fede, è una questione che riguarda l’innescare o il disinnescare, per certi versi, le cattive abitudini arrivate da questa dimensione autoreferenziale dell’arte che alla fine ricade su sé stessa e rischia di diventare un oggetto o di non aprire a un’altra dimensione.
RQ: Quindi inizialmente ciò che ha smosso tutto è stato questo rapporto con il sacro?
AG: Sì, mi affascinava l’idea di dover forzare il linguaggio, cioè dover capire quali erano gli elementi in grado di innescare delle relazioni nuove, cosa fosse in grado di mettermi in contatto con l’altro, e questo l’ho trovato estremamente affascinante al punto tale da dire che l’altro non è solo un osservatore, ma l’opera senza l’altro non esiste. La presenza della persona in relazione con l’opera è il completamento e l’attivazione di quell’opera. Per esempio, se osservi un pulpito, se non c’è la persona che legge non è completo, e nessuno mette in discussione che sia un’opera d’arte, un gran pulpito. Quell’opera però si attiva, si completa solo quando qualcuno sale e legge.
Il marmo per me è un altro tema importante, a cui ho dedicato tanto perché è materiale della storia della scultura. Rompere una lastra di marmo, frammentarla è in un qualche modo frammentare la tradizione per poi ricostruirla. La distruzione dei materiali, diventa infatti una possibilità di disegnare la forma perché la nuova relazione non è più una relazione che costringe, che tiene, che limita nella forma, ma è una relazione che libera. Pensa alla catena che è qualcosa che limita, qui invece diventa qualcosa che apre alla libertà, alla possibilità di movimento, di generare movimento, di generare trasformazione, di generare adattamento. La catena che tiene insieme i frammenti dà la possibilità, dà il potenziale di trasformarsi, cioè quella stessa cosa che lega, che tiene insieme, in realtà è quello che gli dà l’occasione di diventare altro. Ed è anche quello che poi nelle ceramiche li sposta con un atto distruttivo dall’essere un oggetto cheap, povero, seriale, industriale ad essere un pezzo unico.
RQ: Come sei arrivato ad interessarti del sacro?
AG: Quando studiavo in Accademia, Arti e Antropologia del Sacro era una tra le proposte didattiche più interessanti, così iniziai a seguire questo corso nato dalla collaborazione tra l’Accademia e la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, quindi con delle competenze veramente molto specifiche. Noi arriviamo da una cultura cristiana, dentro quella cultura si sono costruiti i linguaggi, si è costruito il nostro essere oggi. Quindi perché non andare a cercare le risposte lì dove ci sono delle cose che hanno artisticamente funzionato e che continuano a funzionare? È vero che sono cambiati i tempi, è vero che sono cambiati i contesti, è vero che è cambiato tutto, però per me, alcune dinamiche continuano a essere valide, alcuni interrogativi continuano ad essere validi. E quindi sono andato a scavare lì, approcciando questo tema in maniera, prima di tutto, culturale. Studiare cosa è la liturgia, che cosa sono le dinamiche degli spostamenti in uno spazio sacro, come si attivano le relazioni tra le persone in uno spazio sacro, come è cambiato il rapporto, per esempio, banalmente tra il presbiterio e la gente che sta di fronte… Ho provato a portare questa dimensione di riflessione nel mio lavoro. Questo ha influito nel mio lavoro. Nello spazio sacro l’opera è sottratta dall’essere semplicemente un oggetto facendolo diventare un elemento relazionale che attiva e centralizzando la comunità la quale è la prima a prendersi cura dell’opera garantendone la sopravvivenza. E quindi da lì, da questi studi in qualche modo si sono anche innescati dei processi di lavoro, che poi sono diventati delle metodologie di lavoro.
RQ: Quindi continuando a ripercorrere il tuo percorso artistico dopo le opere con la terracotta ed i ferri ci sono stati i lavori con il marmo e poi quelli con le ceramiche?
AG: Sì, sì, i tre passaggi sono stati: le terracotte, i marmi con tutta la potenza della storia dell’arte e le ceramiche o meglio gli oggetti in ceramica. Cioè, se dovessi identificare tre momenti anche per raccontarli, sono questi. La caratteristica comune è l’adattamento, la trasformazione perchè sono temi che hanno a che fare anche con l’ambito umano perchè noi ci adattiamo, ci trasformiamo continuamente. È questo il passaggio fondamentale con le ceramiche e prima di tutto con il vaso perché il vaso è un oggetto transculturale, transtemporale, transgenerazionale, cioè è presente ovunque. E la sua essenza è così radicata in noi che anche di fronte ad un oggetto frammentato, distrutto noi siamo in grado di rileggerlo nel suo intero. Il gesto della distruzione e della rottura, non è un gesto fine a sé stesso, non è un gesto drammatico, è un gesto d’amore. Per me, la rottura con il martello è un atto di cura, è una rottura che è necessaria, poi, a restituire una forma, a restituire un cambiamento, un ribaltamento, perché alla fine quello che noi percepiamo come distruzione, come punto finale, in realtà è un punto di inizio. Il frammento è in grado di rimandare alla sua condizione iniziale. Se pensi dal mondo antico, di vasi ce ne arrivano tanti, nella maggiorparte dei casi sotto forma di frammenti, eppure ne percepiamo tutta la forza della storia.
RQ: Il rituale della rottura lo fai qui?
AG: Sì. Io uso questo spazio. Qui si realizzano le rotture che sono poi dei gesti d’amore.
RQ: Mi affascina il rapporto tra te ed il passato, e la storia. Tu hai citato tante volte alcuni artisti, qual è il tuo rapporto con la memoria legata al mondo dell’arte, non al mondo in generale?
AG: Mi fa piacere che tu abbia colto questa dimensione, non so se c’è stata o meno occasione di raccontarla. Per due-mila anni abbiamo fatto Madonne con il bambino, no? Dove la variazione era che il bambino era tenuto più su, o più giù, o con la testa più o meno inclinata, ecc. Non ci si interrogava sul problema del nuovo in assoluto. Il nuovo era semplicemente una variazione di qualcosa che esiste. Oggi invece abbiamo tutta questa ansia di qualcosa di nuovo. Però per me il nuovo può ancora essere, come dire, ancorato alla storia. Non mi spaventa. Non annulla quello che c’era prima ma anzi lo avvalora. Nella mia pratica c’è la volontà di riagganciarsi a qualcosa che è la storia della scultura e più in generale dell’arte. È un senso di famiglia, di appartenenza ad una storia della quale ci sentiamo parte.
RQ: Ricapitolando, gli elementi della tua pratica artistica sono equilibrio tra elementi, rapporto con il sacro, coinvolgimento delle persone… forse non abbiamo parlato della scalabilità, del progetto.
AG: Io ho lavorato tanto con l’architettura, con gli architetti, con gli spazi, con lo spazio pubblico, con i luoghi del sacro. Uno degli interventi più importanti è stato nella chiesa di San Nicola da Tolentino a Venezia, dove ho fatto credo uno dei pochissimi, forse l’unico, intervento di adeguamento liturgico negli spazi sacri di Venezia. Per me il tema è che l’opera possa regolarsi dentro di sé, dimensionarsi, ma anche cambiarsi in una scala di relazioni con l’esterno, con le cose, con i luoghi. Ogni cosa, come dire, ha bisogno che il lavoro, pur mantenendosi identitario, riesca a declinarsi, a leggere i bisogni differenti che ci sono nei posti. Questo tema di riflessione sul problema dei bisogni è nato in realtà molto in relazione all’architettura e agli spazi pubblici. Io, appunto, collaborando con tanti architetti da abbastanza presto, mi sono sempre preoccupato di trovare degli elementi in grado di mettere in dialogo l’architettura, per esempio, con la scultura. L’unico strumento in comune era il modello. Ed è curioso perché l’architettura usa un tipo di modello. La scultura usa un altro tipo di modello. La cosa per me affascinante che si lega poi a tutta la riflessione è che l’architettura usa dei modelli estesi. Modelli anche territoriali, modelli che interragano un ampio raggio. La scultura usa un modello parziale e centrale, il contesto è una quinta e davanti ci posiziona l’elemento scultoreo. Questo ti dice di come il nostro “oggetto” entra in relazione con i luoghi, col territorio in maniera completamente diversa. Tutto questo, questo lavoro sui modelli per me è affascinantissimo perchè mi permette di riflettere quando vado ad inserire un elemento scultoreo in uno spazio pubblico, per esempio, dentro un modello territoriale. Devo ragionare non solo su come il mio “oggetto solitario” si interfaccia con quello con ciò che gli sta direttamente dietro, ma come questo si interfaccia con quello che succede su una scala molto più ampia. E questo per me è estremamente affascinante. E da lì è nata tutta questa riflessione sul problema appunto della scultura all’interno del territorio, all’interno dei processi urbani. Ed è nata tutta questa metodologia che negli anni ho provato a mettere a punto. C’è un sito che la racconta, e alcune pubblicazioni dove provo a assieme ad altre competenze a individuare delle metodologie di dialogo interdisciplinare. Il primo tema è che la scultura deve smettere, per rientrare nello spazio pubblico, di essere un elemento finale dei processi di costruzione. Abbiamo fatto tutta la piazza, abbiamo fatto la rotonda, ci mettiamo tutta la scultura, se resta dello spazio e delle economie. Invece per far tornare l’arte ad essere un elemento che partecipa alla costruzione delo spazio pubblico dovrebbe essere, all’estremo, posta all’inizio dei processi. Dobbiamo considerare l’arte un soggetto pianificatore dello spazio. Sono certo, e le sperimentazioni che ho condotto lo confermano, che la scultura è in grado di far emergere i bisogni di un territorio, leggerne le caratteristiche e attivare la comunità che lo abita aiutandoci a edificare non solo per funzioni ed economia ma su una base anche poetica, etica, umana.
Studio visit a cura di Raffaele Quattrone
Foto di Tommaso Paris
Progetto promosso da Galleria Artra
In collaborazione con
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