Biennale

Nel flusso della Biennale: Se ti dovessero chiedere che cosa riflette l’arte di oggi sapresti rispondere?

L’arte contemporanea è difficile da apprezzare e lo è ancora di più da comprendere. Non mi sento di essere un’esperta, infatti anch’io ho le mie difficoltà di fronte ad alcune opere e ad alcuni artisti ma, a differenza dell’uomo medio, sento la curiosità che mi spinge ad andare oltre e a cercare i meccanismi che hanno portato una certa persona a creare un qualcosa di così enigmatico, e ovviamente capire il significato che essa gli ha attribuito.

Una cosa che ho imparato nell’ultimo anno è che tutta l’arte, indipendentemente dall’epoca, riflette il sentito storico del suo tempo e della sua società e lo assimila come uno specchio, ma invece di restituire un’immagine perfettamente uguale a quella riflessa, la rielabora e la partorisce in modi sempre diversi e talvolta innovativi. Lo so, penserete: solo adesso ci è arrivata? In realtà tutti lo sappiamo, perché i libri di storia dell’arte cercano di farcelo capire e di creare i nessi logici tra i due mondi apparentemente distinti, ma se ti dovessero chiedere che cosa riflette l’arte di oggi sapresti rispondere? Per me è stato difficile all’inizio (ho solo 23 anni quindi sto semplicemente uscendo dalla condizione di innocenza), ma ora so che i punti chiave nel discorso artistico attuale sono sempre gli stessi e ricorrono in molti artisti e in molte manifestazioni: i cambiamenti climatici, la visione distopica del futuro, la tecnologizzazione che ci renderà schiavi e la nostra stessa “disumanizzazione” in favore del nostro egoismo occidentale. Triste, vero? E se posso permettermi è anche un po’ noioso visitare mostre diverse e tornare a casa con una riflessione che già mi aveva portato a fare quella precedente. Eppure è questo il sentito comune nel mondo dell’arte. Ogni artista al giorno d’oggi prende uno di questi campi tematici – magari quello che gli sta più a cuore o che lo colpisce di più – e lo plasma con qualsiasi tipo di medium artistico al fine di lasciare il proprio punto di vista.

Sono stanca di questa monotonia, anche perché poi devo tornare a casa a recensire quello che vedo e rischio di ripetermi, ma in realtà non è colpa mia. 

Tutto questo preambolo, per introdurre da lontano ciò che la Biennale d’Arte 2019 ha suscitato in me, perché è stato qualcosa di inaspettato. Il primo contatto che ho avuto con essa risale a maggio, appena aperta al pubblico, ma in quell’occasione sono riuscita a vedere di corsa solo i padiglioni nazionali presenti ai Giardini. A fine giornata sono tornata a casa senza aver capito nulla, come avviene praticamente sempre quando si va alla Biennale, perché se non sai non capisci e non apprezzi. L’unico ricordo vivido riguarda quelle poche opere che sono riuscite a ritagliarsi uno spazio più imponente tra le altre, ma questa è una cosa che succede ad ognuno di noi, perché a seconda della nostra individualità veniamo attratti da alcuni dettagli piuttosto che da altri. Ma, tralasciando queste piccole eccezioni, non mi era rimasto granché dentro.

La settimana scorsa, invece, sono tornata, dando però la precedenza allo spazio espositivo dell’Arsenale. Avevo una soglia di aspettativa piuttosto elevata, perché i pareri sulle opere presenti in questa parte di Biennale erano più positivi e volevo vedere se effettivamente era così. All’inizio del percorso la mia opinione stentava a cambiare o a dare una seconda possibilità, ma proseguendo il mio umore è passato da indifferente a tremendamente triste e a disagio. Mi sono ritrovata improvvisamente in una bolla di negatività e “depressione” con i brividi che mi percorrevano il corpo e ogni opera che incrociavo con lo sguardo mi trascinava ancora più dentro queste sensazioni. E non capivo cosa stesse succedendo, fino a quando dal nulla vedo scorrere nella mia mente il titolo della Biennale di quest’anno: May you live in intresting times. Per quelli che ancora non hanno digitato su Google la frase per capirne il significato, mi spiace rovinarvi l’illusione, ma i “tempi interessanti” di cui si parla in realtà tanto interessanti non lo sono, perché la chiave di lettura giusta è l’ironia. La frase fu usata soprattutto nel Novecento ad indicare la rapidità dello scorrere del tempo, che, accorciandosi, ha collezionato una serie di eventi e di avvenimenti come le guerre, le desolazioni, la fame e la povertà. L’aggettivo “interessanti”, dunque non va letto in positivo ed ecco a voi la risposta al perché del mio cambio di umore.

La cosa che più mi ha colpito, però, è stato che all’inizio non avevo ricollegato il tutto al tema della Biennale, e che quindi le opere da sole mi hanno parlato, hanno comunicato con me, e non penso mi sia mai successo prima. Mi è capitato di sorridere e di avere una reazione estremamente positiva e gioiosa, ma la sindrome di Stendhal al negativo non l’avevo mai provata. Ma non finisce qui. Una volta presa coscienza di questa malinconia – è difficile trovare le parole giuste per esprimere cosa stavo provando in quel momento – ho continuato il percorso con un occhio diverso, ma la sensazione persisteva e non se ne andava, fino all’ultima sala. La parte generica dell’Arsenale si conclude con un “punto di ristoro” dove invece di recuperare le energie mangiando e bevendo, le si recuperano sedendosi sulle sedie da giardino disposte attorno ad una fontana, con quel rumore dello scorrere dell’acqua che è sempre rilassante e rigenerante. Lì, seduta, ho ritrovato la pace e ho lasciato che l’acqua portasse via tutte quelle brutte sensazioni che mi avevano pervasa fino ad un attimo prima, ma non è durata molto, perché guardando meglio la fontana e i distributori di acqua disposti nella stanza, mi sono resa conto che anche quell’aura di serenità in realtà è fittizia, è artificiale e soggetta ad un andamento commerciale.

Non so se tutto questo viaggio mentale abbia un effettivo riscontro nelle intenzioni allestitive dello spazio dell’Arsenale di questa Biennale, ma so che per me è stato vero e ho capito che l’arte non è un soprammobile, che l’arte non è arredamento e non va sottovalutata, perché l’arte sa parlare ed esprimere ciò che una e più persone stanno cercando di urlare al mondo intero, ma arrivare sotto l’apparenza estetica è difficile, oppure troppo scomodo. E ricordiamoci che l’arte non è di tutti perché nessuno la vuole rendere per tutti.