Secondo una serie di interpretazioni figurate, l’espressione nel fiorire del giorno, sottotitolo della brillante esposizione curata da Livia Savorelli alla Galleria Zamagni di Rimini per riunire in una sorrellanza dodici artiste del nostro pulsante presente, esprime uno stadio della vita vissuta nel suo massimo splendore e riguarda una elan vital (mi si permetta di riutilizzare per l’occasione l’espressione di Bergson) utile ad affrontare nel pieno delle forze le sfide del tempo. Si riferisce, infatti, a uno stadio di innegabile energia, a un momento della vita in cui il sole è più alto e si può lottare per far emergere luoghi oscuri del mondo (soprusi, prepotenze, malversazioni) da osteggiare con ottimismo e con le armi sottili dell’arte. Il fiorire del fiore, in questa mostra, il titolo esatto è Tessere memoria. Nel fiorire del giorno, è allacciato alla figura femminile, ma non secondo le proverbiali visioni maschi(ett)ocentriche che vedono la donna stereotipata in fior gentile, in persona bella, graziosa, cagionevole o delicata, piuttosto secondo una linea che trova in Emily Dickinson e nella sua idea di responsabilità dello sbocciare (To be a Floewr, is profound Responsability, si legge in una sua poesia databile, forse, nel 1865) qualcosa di più sottile e tagliente: «un atto di sovversione gentile», avvisa puntualmente Savorelli, in un gesto di coraggio, in una presa di posizione che tocca il nervo scoperto del partito preso per evidenziare l’adattamento, la resistenza e la rinascita di un κόσμος (kósmos) che non può essere ridotto a etichetta perché troppo ostinatamente – meravigliosamente – aggrappato alla vita e ai mille significati che la riguardano.
«Sfatando una superficiale quanto consolidata associazione della figura della donna al fiore – quale simbolo di bellezza ma al contempo di fragilità – il progetto curatoriale trasla la metafora dello sbocciare del fiore, sintetizzata con parole sublimi nella poesia di Emily Dickinson, all’esistenza femminile, a quel suo “aprirsi al mondo” superandone la complessità e assecondando le capacità adattive della Madre per eccellenza, Madre Natura», puntualizza ancora Savorelli nel testo che apre il catalogo (NFC Edizioni, euro 20). «Abbracciando il pensiero della Dickinson, “essere fiore è una profonda responsabilità”, l’atto dello sbocciare, del manifestarsi come donna, è un percorso ricco di insidie e di difficoltà, in cui emergono le caratteristiche più intimamente connesse all’animo femminile: la tenacia e la resistenza, la capacità di adattamento nel “piegarsi” ma mai spezzarsi».
Nel rivolgere lo sguardo sulla memoria e nel proiettare sul bacino d’oggi la forza dell’essere donna, Carla Iacono (1960), Armida Gandini (1968), Silvia Vendramel (1972), Ilaria Margutti (1971), Silvia Margaria (1985), Fatma Ibrahimi (1985), Ilaria Feoli (1995), Anzhelika Lebedeva (1995), Martina Biolo (1996), Camilla Giannotti (1997), Federica Mariani (2000) e Federica Gottardello (2000) – una scelta che avvolge l’ampio arco anagrafico di artiste nate nell’arco di quarant’anni, dal 1960 al 2000 – disegnano un percorso in cui l’interconnessione di tutte le cose si salda a scelte metodologiche, e poi anche a tecniche e a materiali, adottate come strategia di sconvolgimento, turbamento, eversione, evoluzione, rivoluzione di un mondo dove bisogna tornare ancora a riflettere, sempre, costantemente, sulla reale eguaglianza delle persone – uso il termine persona e non individuo o cittadino o uomo perché persona (termine di probabile origine etrusca, phersu o phersum, latinizzato in persōna) è di matrice femminile ed è l’unica a indicare oggi l’essere, senza distinzione di sesso, età, condizione sociale.
Raccontare ogni singola opera che disegna la mostra è un po’ difficile, sono tante le artiste e non me ne vogliano a male se la proairesi ricada, en passant, su questo o quell’altro lavoro: posso tuttavia assicurare che sia le Spose di Darwin (2025) realizzate da Carla Iacono, le varie English rose (2025) di Armida Gandini, le composizioni tra cui Matrioska (2023) di Silvia Vendramel, le Figlie dell’infinito (2025) di Ilaria Margutti, i vari processi di Anthologìa (2015-2019) di Silvia Margaria, gli erbari (tra questi strepitoso è Janiflora Rubra Nigroflua, 2025) di Fatma Ibrahimi, l’installazione che Vive nel giardino cucito; ai miei occhi (2022) di Ilaria Feoli, le apparizioni fantasmagoriche di Anzhelika Lebedeva (la figura in Light study VIII del 2023, sembra Emily Dickinson che si muove nelle sue latte stanze), le terrecotte di Martina Biolo (Quando parlo di me parlo di voi, 2023), le Reliquie domestiche (2025) di Camilla Giannotti, le visioni arboree di Federica Mariani (Quello è un albero? No, è una donna, 2023) o il Centrino e il Corpo Cangiante – entrambe del 2023 – di Federica Gottarello, nel riprendere le redini della vita, sono tutte sorprese e splendori.
In questo ampio e variegato scenario, gli studi di aloni di acqua e clorofilla in bicchieri e vasi di vetro, parte dell’Anthologìa proposta da Silvia Margaria, sembrano ritessere le fila con l’archeologia della fotografia e del cinematografo, quando con materiali vegetali si cercava di fissare ciò che il tempo può cambiare e non il nome che non cambia mai. Si tratta, nello specifico, di un lavoro dedicato a cinque donne d’area torinese (Emilia Mariani, Giorgina Levi, Isa Bluette, al secolo Teresa Ferrero, Amalia Guglielminetti e Adelaide Aglietta) che da latitudini differenti hanno fatto sentire la loro voce: una voce che oggi, in questa installazione, raggiunge il nostro tempo per farsi traccia, ricordo, presenza. «Fiorire – è il fine – chi passa un fiore / con uno sguardo distratto / stenterà a sospettare / le minime circostanze / coinvolte in quel luminoso fenomeno / costruito in modo così intricato / poi offerto come una farfalla / al mezzogiorno / Colmare il bocciolo – combattere il verme – / ottenere quanta rugiada gli spetta – / regolare il calore – eludere il vento – / sfuggire all’ape ladruncola – / non deludere la natura grande / che l’attende proprio quel giorno – / essere un fiore, è profonda» (Dickinson).



