Vivevo in un piccolo centro del meridione occidentale, dove «lo stato d’eccezione» appena finito aveva lasciato sofferenza, stenti, difficoltà e soprattutto carestia. Prima che arrivasse un altro evento, per un altro stato di eccezione, la storia correva sotto ai piedi degli abitanti. E io vivevo nella mia memoria: passata, presente e futura, essendo adolescente a me stesso, come testimonianza dell’aion, e forse vecchio nella mia stessa attualità: come giovane-bambino in prospettiva.
Il paese ricostruito durante la pandemia dello 019, testimoniava un ambiente marinaro con case basse edificate in pietra, dove molte famiglie numerose trovano alloggio e appena il necessario per sopravvivere. La luce elettrica, insieme ai collegamenti della rete, era per tutti un bisogno primario e la sera i pc nelle case provvedevano ad illuminare quei miseri ambienti con tante bocche da nutrire. Io ero un «aion-cognitivo» come tanti, abituato alla rinuncia, ma desideroso di quelle piccole, semplici cose che rendono felice un internauta. Il tablet e l’android mille usi, per imitare i pubblicitari dei film americani, erano i giocattoli più ambiti. Norman Mailer e il vecchio Scott Fitzgerald, eroi letterari, rappresentavano un’epopea avventurosa, il cattivo veniva sempre perseguitato e la giustizia, tra i media, trionfava.
Abitavo con la mia famiglia in una modesta casa a due passi dalla chiesa madre del paese, frequentavo l’oratorio non per vocazione ma come luogo d’aggregazione del recovery fund. C’erano il campetto di calcio, gli scivoli, l’ottovolante, l’altalena, gli amici e qualche pc per connettersi.
D’inverno, liberandoci della mascherina, s’andava a letto presto. Il freddo si faceva sentire, non avevamo di che scaldarci, le coperte erano sempre poche e il cappotto, insieme ad esse, contribuiva a stare un po’ più caldi.
L’acqua scarseggiava, le poche fontanelle sparse ai margini delle strade erano sempre affollate da persone vestite male, ricurve sotto al peso dei colmi recipienti in latta zincata. I visi asciutti, rugosi, un aspetto che esprimeva stanchezza, sopportazione, rassegnazione. Le mani spugnose del lavoro dei pescatori, i capelli con precoci bianchi, poco curati, avvolti dietro la nuca, davano l’immagine di una realtà comunitaria fatta di stenti, tutto avveniva per obbligo, perché la vita era fatta così. Le botteghe erano più fornite di generi, ma non tutto si poteva comprare. Lentamente si notava il ritorno alla normalità.
L’estate era la stagione migliore, non richiedeva particolari indumenti, bastavano un paio di calzoncini e una maglietta. Le giornate erano più lunghe e noi adolescenti-aion passavamo molto tempo in strada giocando con uno smartphone di vecchia generazione, con lo spago intorno.
Nelle serate di luna piena, il caldo attenuava la sua morsa, le strade non asfaltate, bianche di polvere, riflettevano la luce del nostro satellite e speculavano su uno squarcio di vita semplice, dove poco bastava per essere felici.
Le barche, mezzi di trasporto privilegiati, erano parcheggiate tra la sabbia e la polvere con le vele all’insù; gli asini e i muli dormivano in piedi con la testa ancora nella mangiatoia in attesa dell’alba, per riprendere il solito tragitto.
La sera, quando la luna raggiungeva il suo massimo splendore, dall’inizio della strada dove abitavo, da lontano, vedevo grosse oasi di deserto e di solitudine, che la strada bianca illuminata metteva in risalto. Avvicinandomi, tutto mi si rivelava vuoto, erano i soliti documenti di verità che emergevano nella dimensione silenziosa e dispersa del Covid-19, in attesa del riposo inquieto. Le oasi vuote prendevano corpo, erano ombre di alberi dal riflesso provvisorio, godevano dell’immagine dispersa dopo la scomparsa calura del giorno. Nel silenzio che ti rimbombava dentro, sottovoce si percepiva un idioletto del disabitato e dello spopolato dominante. Ombre semplici denotavano la dedizione all’invisibile, alla vita pandemica, alle poche pretese.
Le donne anziane, specialmente quelle asociali, portavano un largo scialle nero in testa, sempre.
Sui davanzali delle basse finestre, accanto ai vasi di begonie e di gerani, non mancavano mai gli stendini con le mascherine lavate e fatte asciugare, una specie di espositore del silenzio virtuale, per mantenere l’indicazione della precauzione; tutti ne usufruivano e contribuivano a smorzare l’arsura accumulata durante il giorno. Le pergole con le foglie verdi, cariche di grappoli d’uva, formavano delle tettoie che riparavano dal sole cocente i miseri ingressi di alcune case vuote.

Ad un tratto, come per incanto, tutto spariva; le persone nei loro giacigli, le sedie riposte; calava il silenzio assoluto. La luna lentamente declinava il suo chiarore, il buio inghiottiva il buio, il silenzio e tutto il resto delle poche cose animate.
All’alba le prime barche che scendevano verso la riva e si muovevano nell’acqua ferma, si sentiva il classico cigolio delle eliche dei motorini, a volte una cantilena, da sotto la mascherina, per scacciare la solitudine. I maestri intarsiatori, i bottai, i calzolai, gli artisti che dipingevano scene di gesta locali sulle barche rovesciate o sui muri affrescati e disposti per i muralisti, riprendevano la loro attività esponendo i manufatti in lavorazione. Le mandorle, appena raccolte, venivano messe al sole ad asciugare su ruvidi sacchi accanto all’uscio delle porte semiaperte. I giorni del Covid-19, tutti uguali, facevano sentire la monotonia della segregazione, l’impossibilità di qualcosa di diverso dall’attesa dei DDL per la salvaguardia della popolazione.
Un grosso autobus di colore azzurro si fermò un giorno sulla piazza, la notizia si sparse, finalmente la novità.
Lo vedevamo arrivare, ripartire con dietro la sua scaletta per mettere i bagagli sopra il tetto. Noi adolescenti eravamo curiosi di provare come si stava sopra, essere trasportati da un posto all’altro velocemente.
Già le distanze si erano accorciate con le pratiche del web, i paesi sembravano più vicini, ma oltre a questo vantaggio adesso stavamo migrando, quasi totalmente, nella infosfera.
La pandemia si allontanava sempre di più, anche se le sue regole restavano come dei dogmi vigenti, tutto riprendeva a funzionare lentamente, la vecchia Biblioteca, sciaguratamente soppressa dai nubifragi e dalle inondazioni, cominciava ad essere totalmente sostituita da salette di postazioni digitali con sopra il grande orologio. Le strade venivano continuamente disinfettate e l’illuminazione elettrica dava una sensazione post-ospedaliera.
L’arena “Postmodernissimo” era il cinema estivo all’aperto, costruito al posto di vecchie case in disuso. L’impianto di proiezione era dei più aggiornati, una piccola multisala iperdigitale e la sera, all’imbrunire, eravamo in fila a leggere, con i testi sul cinema in una mano e la torcetta per illuminare le pagine fino a tardi. Conoscevamo tutti gli attori americani, il Texas, l’Arizona, le praterie, luoghi di fotografie panoramiche e di occhi che guardano altri occhi. I cattivi robot, sempre sconfitti da altre macchine superiori, e alla fine, quando tutto sembrava perduto, il provvidenziale liberatorio arrivo della cavalleria cibernetica. A volte, nell’ingenuità, l’applauso era spontaneo. Vedere un film interattivo, seduti in una vecchia sala cinematografica, era il massimo:
«Era il 2020 e io dovevo avere circa 14 anni, quel pomeriggio in cui mio padre venne per portarmi nella stanza degli schermi digitali.
Non sottovalutare mai l’importanza della stanza in cui un adolescente cresce guardando le TV di tutto il mondo e gli schermi collegati al web, perché lo influenzerà per tutta la vita. Un adolescente sviluppa una relazione intima con quel posto, con quella saletta segreta di proiezione del “Ex-Postmodernissimo”. Stare nella nostra stanza degli schermi era come stare in una cella di prigione fuori misura, ipercollegata, nella lontana Finlandia. La stanza era fin troppo grande per sentircisi comodi. Noi ci acquattavamo in un angolo con un gigantesco apparecchio multischermatico e multisensoriale, tra il bianco e nero e il colore artificiale, che era stato posato su una sedia con scheletriche gambe di legno, mentre il resto della “saletta proiettiva” appariva come una grande voragine.
I miei genitori non approvavano la multischermaticità. Pensavano che fosse una cattiva abitudine, che avevamo imparato altrove e che avremmo perso non appena ci fossimo digitalmente ambientati, perciò penso che mia madre avesse deliberatamente reso il nostro guardare gli schermi il più sgradevole possibile per scoraggiarci. Non aveva messo neppure una lampada nella stanza. Avete mai notato quanto alcune stanze resistano al tempo? Bene. La nostra stanza multischermatica era una di quelle. La stanza degli Schermi Virtuali aveva il controllo del suo clima, della sua iconografia, dei suoi telecomandi, delle sue sincronizzazioni, dei suoi piani sequenza, dei suoi montaggi, delle sue spinte programmatiche, qualunque fosse il tempo, tempo grigio per intenderci. L’unica variazione al grigio erano le ombre grigie più scure che fluttuavano come fantasmi nella stanza. I pavimenti erano fatti di quadrati di led luminosi, arancione e marrone chiazzato e odoravano di muffa silicica e di plastica per rivestimenti di superconduttori. Lo sporco si raccoglieva nella strette fessure fra i quadrati e durante gli stacchetti pubblicitari ero solito raccoglierlo con qualsiasi cosa fosse a portata di mano – una graffetta o una matita. Raschiando gli interstizi con un unico movimento riuscivi a far uscire la sostanza in lunghi serpenti curvi. Il gioco consisteva nel fare il serpente più lungo.
I pavimenti erano sempre freddi e luminosi e io dovrei saperlo perché non c’erano sedie nella stanza dei Multischermi perciò dovevamo sdraiarci sul pavimento in varie posizioni. Alla fine convincemmo mia madre a comprare al minimarket da 5 & 10 euro una poltrona gonfiabile, ma dopo un paio di settimane il materiale cominciò a deteriorarsi, perdendo una specie di guarnizione che si attaccava sui pantaloncini. Alla fine, il plasticone-comodo finì a raccogliere polvere messo in un angolo, come una palettata di nutella sciolta.
Questo pomeriggio in particolare, grigio come tutti gli altri, mio padre entrò nella saletta delle proiezioni e disse che aveva qualcosa da mostrarmi.

“Ma sto guardando l’ultima versione di Aspettando Godot di Samuel Beckett”, dissi. “È il mio spettacolo preferito. Ricordo a memoria la riflessione che ne fa Adorno: «Le smorfie clownesche, fra puerili e sanguinolente, cui in Beckett approda la disintegrazione del soggetto, sono la verità storica sul soggetto stesso; a essere puerile è il realismo socialista. In Godot il tema è costituito dal rapporto di dominio e servitù, con l’aspetto di follia senile da esso assunto in una fase in cui si seguita a comandare sul lavoro altrui mentre l’umanità non ne avrebbe più bisogno per mantenersi in vita» (Il Nulla positivo, passi tratti dalla Teoria Estetica, in Gli scritti su Beckett, a cura di Gabriele Frasca, Roma, L’Orma editore, 2019, p.186)”.
“L’influencer italiano, come il giocatore di calcio, Instagram l’ha rovinato. Con la chiamata sui multischermi della rete, da uomo di palcoscenico è diventato uno spaventapasseri di uno spettacolo di Nicola Vicidomini, a cui si deve battere le mani a comando. È stata la sua iattura. Convinto di essere diventato bravo sul serio, si è trasformato in divetto ed ha dimenticato anche quel poco che sapeva. Negli studi dei webinar si comporta come sul palcoscenico. Si sottopone a tali sforzi che, alla fine di una scena, sembra reduce dalla marcialonga. Poi, quando cala il sipario, sviene e chiede i sali. Chi non sviene dopo la scena non è un bravo attore. Il guaio è che, per far sapere a tutti che loro sono attori, continuano a svenire anche fuori dal web, per la strada, in casa, al ristorante, in treno con la mascherina, o quando vanno nella Multisala con la morosa. Così, dilatando le narici, facendosi una bella sniffata di cocaina, firmando autografi nei dintorni della saletta delle trasmissioni, ricevendo targhe, mandarini d’oro, nastri d’argento e baciando la mano perfino ad un vecchio presentatore televisivo, i pupazzi del webinar diventano ospiti d’onore, il peggior destino che possa toccare in sorte ad un uomo di spettacolo riprodotto dai social. Sulle ali di questo effimero successo, cominciano a pretendere il contratto milionario e lo champagne sul set o negli studi del webinar, come le maggiorate del Femminismo e le altolocate del Progressismo che recitano con le tette di annata. Diventano ogni giorno più fastidiosi delle zanzare, quando vanno a parlare di loro nei confronti alla radio. Frivoloni e sventati, convinti del loro ruolo indispensabile nella società dello spettacolo, le ciglia aggrottate per far vedere che pensano, la fronte stupida, i gesti solenni, la voce in posa, gli orecchi pensosi, gli attori sono stati ormai toccati dall’arte e sono fuori da questo mondo”.
Poiché mio padre non faceva quasi mai attenzione a me, pensai che avrei dovuto andare con lui. Da esperienze passate ero abbastanza sicuro che qualsiasi cosa volesse farmi vedere sarebbe stato in qualche modo allarmante o indecente. Non riuscivo a capire le cose che raccoglievo. Ritengo che alcuni adolescenti si sentissero sconcertati dalle esche per la pesca del loro padre, tanto quanto lo ero io dell’accozzaglia di oggetti strani, ma amati, di mio padre. C’erano maschere carnascialesche sanguinarie con molti occhi sulla fronte, o ancora peggio, un enorme occhio fisso: dalle bocche spalancate uscivano sibilando lingue scarlatte. Egli aveva un osso di pescecane grosso quanto me. Aveva trombette e violoncelli di una comunità musicale in Cetara e, quando eravamo cattivi, si divertiva a ricordarci che le punte erano ancora intrise di veleno. L’ultima volta che mio padre aveva trascinato mia sorella e me per andare a vedere qualcosa di privato in quello stabile multisala, era stato uno schermo gigantesco con una donna nuda che stava a cavalcioni sulla parte anteriore di un treno, con un’espressione vacua sul viso e il latte che schizzava fuori in bianco arco da una mammella.
Così mio padre mi condusse su dalle scale nella sua stanza. I suoi vestiti erano ammassati sul letto in un mucchio nerastro disordinato.
Mi disse di andare nel bagno e di chiudere gli occhi e così feci.
L’odore di sigarette vecchie era terribile con la porta chiusa.
“Sei pronto?” disse.
“Sì” risposi. Egli toccò un interruttore.
“Apri” esclamò.
La stanza si accese di colori che non avevo mai visto prima; non avrei mai potuto immaginare, o sognare neppure in un milione di anni. Egli aveva attaccato con nastro adesivo dei piccoli schermi su tutti i muri e sul soffitto del bagno e c’era una luce fluorescente blu scura che pendeva da un gancio che mio padre usava per il suo accappatoio. Era come essere in una vasca dei pesci, con quei pesci fluorescenti che non sai dire se le loro pelli sono veramente così o se è la luce che li rende così.
“Wow,” dissi. Era lo schermo di un’immagine virtuale che stava sopra il cornicione della saletta di ciò che sembra polvere di stelle colante. Il cielo dello schermo era blu elettrico. Un altro schermo mostrava i profili di un cantante new wave e una corista abbracciata; le capigliature ricce che brillavano come aloni intorno alle loro teste.
+ Divenire era scritto nel cielo con lettere ondulate. Essi stavano su una colonnina di amplificatori di colori tutti diversi. C’era un vocalist che cavalcava la montagna di impianti vicino ad uno schermo vorticoso. E c’era il frontman dei Massive Attack con i capelli come spaghetti arruffati – di nuovo quei colori.
“Che cos’è?” chiesi a mio padre dall’altra parte della porta del bagno.
“È lo scintillio della Musica” disse, “Psichedelico”.
Niente di ciò che avevo mai visto nella vita reale poteva competere con l’intensità e l’originalità dei colori degli schermi; essi erano pura invenzione. Quando egli spense la luce e io uscii dal bagno gli schermi erano vividi come sempre, ma fuori posto in questo mondo.
Questi colori non si adattavano in alcun modo allo schema delle cose.
Potevo contare su mio padre, per comprendere ciò che stava accadendo prima di chiunque altro e trasferirlo a me. Quando uscii dal bagno lo scintillio del giorno mi sembrò che fosse dappertutto tranne che sulla strada. In quei giorni volevi veramente colori psichedelici solo in condizioni di luce nera. Lo scintillio del giorno non si adattava proprio alla quotidianità senza che la popolazione avesse la sensazione che qualcuno avesse fatto scorrere nuove campiture cromatiche sotto la superficie dello schermo. I colori disturbavano il paesaggio virtuale e fotografico; erano veramente degli schermi innaturali. Penso che sia perché andavano sempre a guardare in proiezioni oscure.
Al sabato indossavo di solito la giacca di cobalto di mia sorella e il mio vestito di carta preso a Nerano (un regalo di mio padre) e andavo in città negli empori degli schermi. C’erano stanze a luce nera nei retrobottega e assomigliavano molto al bagno di mio padre: piccoli e senz’aria. Era divertente entrare nella stanza e uscirne di nuovo con la sensazione che le cose avessero girato e ora tu non appartenessi più al mondo reale. Il mondo del gabinetto delle stampe virtuali era una finzione. Non mi piaceva particolarmente quella sensazione ma nemmeno la odiavo: era diversa e questo mi piaceva. Una cosa sapevo con sicurezza ed era che l’arte degli schermi era scadente, scadente, scadente.
Gli affari di visionarietà con lo scintillio del giorno non duravano a lungo. Durante quegli anni 019 sicuramente non era il caso di avere schermi dello scintillio del giorno nella camera dormitorio. Si vedevano molti vecchi schermi accatastati nel Gabinetto delle Stampe, o in stanze ridigitalizzate, che i genitori conservavano accuratamente per i loro figli, quando tornavano a casa dalle scuole della provincia tirrena. C’era questa ragazza che avevo conosciuto sulla Costiera Amalfitana dalla quale tutti ottenevamo l’ascolto di un po’ di canzoni dei Kraftwerk e una notte fece girare tutti i loro dischi nel gabinetto degli schermi e poi accese una luce fosforescente. Ella aveva solo uno schermo dello scintillio del giorno sul suo muro e pensava che saremmo stati tutti impressionati, ma noi non lo fummo. Dopo un minuto qualcuno non riusciva a trovare le proprie cose e tutti dicemmo di accendere la luce normale e quello fu tutto. Come dissi, noi eravamo proprio lì per un servizio fotografico e dopo quello mi sentivo veramente dispiaciuto per la ragazza, perché semplicemente non aveva capito. Negli anni della pandemia, provare a mantenersi freddi con una luce nera era come portare un button per la pace quando la guerra è finita.
Non so esattamente come accadde, ma lo scintillio del giorno sembrava essere scivolato nelle nostre vite. Era consuetudine che i colori virtuali si trovassero solo in luoghi nascosti e bui, mai alla luce del giorno, ed erano associati ad attività sovversive come montare android su smartphone a volumi troppo alti. Nei tempi del passato, il virtuale era eccitante e senza controllo; erano troppi colori in troppi disegni. Era come se il caos andasse di pari passo con l’uso dello scintillio del giorno.
Ora c’è un reparto di scintillio del giorno nel mio emporio di paese di schermi da 5 a dieci euro dove posso comprare libri sul cinema, nastri vhs e persino blocchetti di appunti di sceneggiatori scaricati. Non noto neppure più la vivacità dei colori; sono quotidiani. Posso succhiare periferiche e masticare custodie di cellulari e di laptop; posso avere il colore dentro di me».
Le ricorrenze religiose rinnovavano le tradizioni, la speranza dell’abito da festa e le scarpe nuove, la banda musicale con i suoi concerti in piazza, il piacevole ascolto delle più note romanze della lirica, e lo spettacolo dei fuochi artificiali, quando tutti con il naso all’insù si trasferivano dagli schermi al cielo stellato, rimanevano incantati dai bellissimi colori, senza cromachìe, che si spegnevano lasciando una scia luminosa. Dopo la malinconia, la festa era finita, si ritornava alla vita di tutti i giorni, prendendo a malincuore quel poco che il paese offriva. Gli anni passavano, la peluria diventava più consistente, il primo rasoio mi faceva sentire adulto.
Il domani cominciava ad apparire, la voglia di fare, i desideri di un adolescente, la speranza di una vita migliore, l’illusione della grande città post-covid-19.
Il nuovo deserto iniziava ad avanzare, tante misere case venivano abbattute, costruite altre più belle; i servizi e i primi aiuti europei, per chi se li poteva permettere, rendevano la vita più comoda.
I vecchi conosciuti, quotidianamente incontrati, facevano parte dell’ambiente come una realtà che stava sparendo; venivano pian piano a mancare, con essi stava finendo un’epoca fatta di duro lavoro di campi e di pesca, di rinunce, di ignoranza. L’onestà, la stretta di mano come impegno da mantenere, la dignità come bene supremo anche nella miseria, erano diventati pregi quasi in disuso. Le nuove tecnologie erano nelle cose e stavano sostituendo l’ultima e intima semplicità analogica con la totalità digitale e mediale, per far posto al tornaconto finanziario e pubblicitario, all’aridità dell’arte psicoattitudinale: “Un dominatore del tempo storico ha sconvolto la nostra vita, e si chiama Coronavirus. Resisteremo e combatteremo ovunque, nelle case, nei luoghi di lavoro. Il linguaggio militarizzato è pervasivo in rimedio pubblico, sia nella pratica clinica sia nel discorso medico, dove le metafore spartane diventano predominati. La malattia stessa è identificata come il nemico comune a cui la società dichiara guerra. In una conflagrazione, tuttavia, niente è considerato eccessivo, nessun sacrificio troppo grande. Ogni nuance perde di significato e tutto diventa bianco o nero: o con noi, o contro di noi. Persino nella quotidianità delle nostre nuove vite, non è più ammesso sgarrare: ogni cittadino deve seguire le nuove regole con disciplina militare, giacché finanche una corsetta nel parco può diventare un tumulto, uscire di casa senza valida giustificazione un atto di defezione”. Rifiutavo il vuoto e la desertificazione, ma il vuoto e la desertificazione pandemiocenica dominavano, volevo rimanere con i miei principi assimilati in un contesto povero, ma senza arte povera; povero ma ricco di valori legati all’entità umana. Rifiutavo la musica che non portasse il nome del suono più che della voce: ero abituato alle dolci melodie che facevano della poesia un canto, le parole che fanno innamorare. Sentivo una cultura diversa, che non era la mia, perché priva di quelle regole non scritte, appartenute a tutti, rispettate da tutti e lontane dal trip hop.
Il divenire sta nella natura dell’artista, le cose cambiano, si trasformano, le nuove seppelliscono le vecchie, a volte il brutto seppellisce il bello. Ho dovuto sradicare le mie origini, per necessità, ho dovuto strappare quelle origini contaminate dal gergo dell’autenticità; da tanti anni ho accettato una realtà non mia, sentendo sempre la necessità di mantenere quei fondamenti che ho assimilato dalla semplicità, dall’onestà, dal rispetto per gli altri. Sono legato alla mia grecità, sento le radici della mia arte, nutrite dalle parole della nostalgia di un tempo passato, quando l’ingenuità mi portava ad amare piccole cose ed essere felice in spazi alessandrini.
Ho i miei anni, non sono vecchio e ancora, quando sento una melodia d’allora, chiudo gli occhi e mi ritrovo ragazzo (Aion) in una serata estiva di luna piena, con la strada bianca di polvere e l’android sopra il davanzale delle finestre, pronto a dissetare chi ne ha bisogno.
Oggi tutto si è dissolto nell’era pandemiocene: quella strada bianca è diventata grigia, le pergole con i pendenti grappoli d’uva dorata, non esistono più; nelle sere d’estate le nuove case hanno le finestre spalancate, nessuno si siede davanti agli usci, il dialogo ha ceduto il posto all’alienazione, all’egoismo; gli schermi accesi diffondono un continuo chiarore nebbioso, la luna ignorata da tutti, emana il suo perenne splendore in una triste solitudine strapopolata di immagini.