1. “La noia”, scrive Walter Benjamin, “è un caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori. In questo panno ci avvolgiamo quando sogniamo. Allora siamo di casa negli arabeschi della fodera. Ma sotto quel panno il dormiente sembra grigio e annoiato. E quando poi al risveglio vuole narrare quel che ha sognato, non comunica in genere altro che questa noia. E chi mai potrebbe infatti con un gesto rivoltare la fodera del tempo?”. Chi potrebbe, pensando a questo frammento dei Passages, scoprire l’arte che si nasconde, che sta ormai in ogni cosa, come il suo rovescio retinico e aretinico, come il suo oggetto scarno, strutturale e immateriale, la sua stalkerata autenticità, i suoi dispositivi, la sua finanza letale, abitualmente invisibile?.
Dunque, l’arte è di casa nello spazio del valore d’uso, come lo siamo noi quando dipendiamo dalla Moka di nome Alexa che ci prepara il caffè domotico. L’investimento AI ama frequentare queste vecchie (e assai confortevoli e ambigue) signore della psicotecnica: le associazioni del rischio e le generalizzazioni del prodotto da affermare. Grazie ai suoi frames, queste cariatidi dell’amplesso finanziario dovrebbero trovarsi di colpo in un investimento sopravanzato, ringiovanite e rinvigorite, pronte a nutrirsi dell’immagine dell’Innovazione e del megatrend della Finanza. Purtroppo, la cura strategica da sola non può funzionare, perché le holding dell’arte entrano in un circolo vizioso. Associazioni e generalizzazioni – a dispetto della nuova retorica e del neo-finanziarismo, come K-linea catastrofe, micro-profitto, poli-profitto – devono essere fin dall’inizio (investimenti) selettivi e appropriati alla funzionalizzazione delle crisi cicliche del Capitale.

Alla fine del gioco, i modelli della finanza artistica lasciano intatte tutte le secolari cifre, tutti i consolidati NFT, formidabili problemi della memoria digitale, della percezione elettronica, del linguaggio WEB e della cognizione, riproposti tal quali dentro una pletora di scatole critiche, cadute tendenziali, travasi economici. La grafica attraente degli istogrammi informatici, i neologismi della “minaccia di Crollo e di stabilità alternata”, le dotte citazioni e le affermazioni altisonanti lasciano la crisi ontologica delle arti in un paesaggio di passaggio imperturbabile. Se ipotesi balorde come il learning-to-learn dell’AI – per la bancarotta del mercato dell’arte – sono davvero utili alla ricerca in AI, forse bisogna davvero citare Benjamin, ma per dire che c’è del marcio nell’indifferenza della noia! Ciò non significa che l’arte sia qualcosa di vago e di irreale, poiché, dopo l’esperienza dadaista, sta in ogni processo aretinico, benché invisibile allo sguardo offuscato del valore di scambio, reso opaco dal tedio e dall’abitudine della governance mercantile. È come dire che ogni cosa è arte, che tutto è arte, come ci dimostra e ha capito il dispositivo finanziario e il management del bello: tutto ciò che esiste è arte ed è spendibile nel terreno dell’espressione totale. Affermazione duchampiana, ma storicamente altamente problematica o addirittura catastrofica, paradossale e sconcertante. E non soltanto perché ciò che essa afferma sembra quasi trasformarsi in un enigma o in un dispositivo pronto al valore di scambio di piccole e grandi catastrofi artistiche e finanziarie, come direbbe qualcuno del direttorio museale, ma soprattutto perché non vogliamo accettare e comprendere quale economia ha saputo rivoltare la fodera del tempo e la metamorfosi del sublime in impeachment finanziario.
Il fatto è che una tale affermazione ci impegna nel tentativo di definire l’occultismo della finanza attuale dell’arte, bloccata su guerre e su scelte che si riducono a strategie divisive, belliche e che fondano sistemi di incompatibilità: quest’opera sì, quest’opera no; questa è arte, mentre questa non lo è, dopo che abbiamo detto, in maniera definitiva, che tutto è arte. Si tratterebbe, allora, di abbandonare il sistema di alternative entro cui abitualmente elaboriamo la nostra esperienza artistica o di evitare, come direbbe Shlomo, l’inceppante pedanteria dell’aut-aut finanziario. Si tratterebbe, insomma, di orientare lo spirito economico verso quel luogo all’interno del quale gli opposti appaiono congiunti o intrecciati da una fuoriuscita dal valore in quanto valore e dall’estetico in quanto estetico. Ma questo luogo altro, osserva la critica al sistema, è in realtà una pura critica e una pura assenza di luogo. È uno spazio atopico dell’arte, desituante o spaesante, configurabile come una sorta di economia politica, una soglia in cui coesistono le convenzioni e le critiche ai conflitti della finanza artistica attuale. E il nome di questa soglia è, appunto, l’arte nella sua centralità contro tutte le derive mercantili manomesse dalle figure della distribuzione e della sottomissione politico-economica. La sociosemiotica del ready-made ha definito questo processo come modernizzazione riflessiva dell’arte del rischio. L’impegno di assumere i nuovi problemi creati dalla società delle conseguenze e delle guerre finanziarie come temi conflittuali da affrontare nella società della produzione (artistica) è illustrato dai movimenti di FRIEZE. La stessa individuazione di quali siano, di volta in volta, le conseguenze controllabili (i rischi) ed i pericoli incontrollabili di una determinata produzione, dipende infatti sempre da determinazioni strategiche e dall’attribuzione di un collasso di responsabilità. I conflitti attorno alla determinazione di valori-limite e degli oneri del rischio sono conflitti di perpetrazione sociale, in cui le holding coinvolte diventano esse stesse ambivalenti, equivoche ed ambigue.
Oggi l’agire della finanza artistica non può più ignorare esiti politici, anche drammatici, rinchiudendosi in affermazioni travestite da enunciati di salvezza; soprattutto perché l’economia, che dalla fine di ogni crisi ciclica si è progettata come strategia di programmazione di una struttura di razionalità e di progresso (aumento delle capacità espositive delle Fiere d’Arte e utilizzazione razionale delle risorse), si è trovata nel 2001 a dover prendere atto nel suo andamento di strategie marginali, difficilmente classificabili secondo proposizioni economiche normali. Nella società liquida i consumi culturali sono indotti dalla produzione, sono cioè imposti agli acquirenti dalle esigenze di espansione del processo economico. Da alcuni anni, ci si è accorti che il mito della crescita del prodotto artistico e delle sue attitudini espositive (le FIERE D’ARTE) porta con sé una serie di conseguenze perverse per la qualità dell’oggetto. Il problema dell’efficienza espositiva e della razionalità dell’investimento finanziario espanso non può più essere soltanto la norma economica della produzione e massimizzazione del profitto, ma deve essere l’obiettivo di una distribuzione delle risorse fra i fini che siano apparentemente buoni per il sistema dell’arte.

L’ideologia dell’alienazione artistica e dell’angoscia di mercato, così come della crepuscolare astoricità di una condizione in cui gli artisti non si avvertono ormai che come oggetti di processi incomprensibili, incapaci di esperire la continuità sperimentale, ha messo in crisi non solo il fondamento ottimistico (il progresso) della cultura, ma le sue stesse ragioni d’essere. Il mercato dell’arte ha svelato il suo vero volto e le sue vere matrici, in una condizione di rigonfiamento alienante delle stesse possibilità artistiche, quando lo sviluppo dell’arte viene, fintamente, finalizzato al progresso della società. Infatti, il settore top del mercato artistico internazionale, negli ultimi mesi ha continuato a contrarsi, favorendo una caduta che ha visto i lotti artistici più ambiti non sfiorare né il livello del penultimo anno, né degli anni precedenti. Sembra proprio che la crisi dei modelli e dei valori è innanzitutto crisi sociale e crisi di società per azioni, una crisi che non è nella possibilità dell’artista e del suo sistema di sostituzione e di flessibilizzazione. L’individualità artistica non è un assoluto, capace di autoprogettare il proprio sistema a partire da scelte libere, ma è sempre inserito in un determinato contesto sociale, all’interno di una rete di relazioni, nella quale occupa un posto sfavorevole per il mercato e per i soggetti che vi concorrono. La sua situazione è questo essere in competizione sleale con altri artisti e con altri mercanti, senza essere in grado di rendersi conto di tutto l’insieme finanziario che lo determina, né di tutti gli artisti con i quali entra in conflitto. L’ingresso dell’opera d’arte nel portafoglio dell’investitore è sancito dalla sua appartenenza al rango dei beni di lusso, che si distinguono dagli oggetti d’arredo per tre tratti: l’essenza storico-critica-artistica, lo stato di conservazione e la rilevanza di natura economica. La determinazione del fair value, il prezzo giusto per le opere, avviene in base a fattori dinamico-finanziari truccati e a fattori opportunistico-strategici, rendendoci così più semplice, ma non altrettanto giustificabile, il motivo per cui un coniglio d’acciaio inox di Jeff Koons eguaglia un Caravaggio.
L’arte, appare sempre di più, come una virtù arbitraria che si confà all’ideologia liberal ed è una scienza inesatta, che tende ad abbellire qualsiasi evento culturale, già di per sé scarso di valore. Gli algoritmi, spesso impiegati per quantificare il prezzo, non rivelano l’autenticità dell’opera, ma l’originalità della missione di un gruppo di venditori, di compratori o di sospettosi investitori. Si tratta di una materia d’indagine serbata all’occhio umano, accanto all’evidenza attributiva e a infinite ragnatele di dettagli, ugualmente fondamentali per la valutazione: spesso sono utili il ricorso al know-how dei professionisti di sistema. Il mondo del diritto e quello dell’arte procedono a due velocità assai differenti – il primo è lento a recepire le esigenze di regolamentazione del secondo – e così spesso accade che il contenuto dei contratti è lasciato alla totale autonomia delle parti. Nel dialogo con il sistema dell’arte, l’obiettivo dell’advisor supera la mera fidelizzazione del cliente per coincidere con lo sviluppo concreto della sua persona. Niente di utopistico: lo dimostrano i report delle Banche-Collezioni, che hanno registrato una maturazione progressiva della coscienza generale nei confronti dell’asset patrimoniale e artistico. La compartimentalizzazione dell’avidità sistemica dell’arte nasce in tempi moderni. Uno scisma rispetto a un sapere più antico, più autentico, più discreto nel suo costitutivo rispetto di comportamenti economici in cui la qualità teneva a bada la finanza.
L’ultra contemporaneo della finanza artistica fa parte di una struttura che lo supera e lo ingloba, all’interno di una mediazione generalizzata, costituita dal linguaggio che usa. Già col linguaggio della finanza si impone all’artista un determinato punto di vista sul sistema dell’arte dal quale, volente o nolente, egli non può uscire. L’esistenza dell’artista ultracontemporaneo appare perciò caratterizzata dall’incoscienza della crisi che la travaglia. Crisi che, adesso, investe tutto il sistema di valori economici su cui poggia l’Occidente e che pone l’autore in una situazione di ambiguità e di malessere sistemico. Infatti la domanda di opere che il sistema giustifica come attuali e ultra-contemporanee, negli ultimi tempi, si è rapidamente dissolta, mettendo in crisi bilanci e fatturati. Questo fenomeno è una realtà chiara soprattutto nelle case d’asta, dove le vendite sono calate in maniera vertiginosa. Anzi, sembra quasi che queste società stiano perdendo l’appeal, il cosiddetto fissatore ammaliante per poter attirare conoscitori, collezionisti e, soprattutto, clientela danarosa sui generis.

L’essere del sistema è così scoppiato, ma questo stato di cose rispecchia lo stato di disintegrazione della cultura tardo-moderna (delle Arti Visive) di cui fa parte. Sotheby’s ha annunciato una catena enorme di licenziamenti strutturali, e l’emergere di un calo di vendite pari all’88% degli utili. Ma nonostante questo dato non sia confortante il fondo patrimoniale di ABU DHABI ha introdotto 1 miliardo di dollari in contanti, per raggiungere la più grande operazione di stravolgimento finanziario degli ultimi anni (la voce che lo conferma è dell’amministratore delegato di Sotheby’s, Charles Stewart). A partire da settembre 2024 Sotheby’s ha comprato il Building Breuer, edificio simbolo del brutalismo, annunciando di trasferirsi nel celebre complesso architettonico newyorkes, per assecondare una nuova strategia di espansione. Il mercato è contemporaneamente arricchito e diviso, la sua liberalizzazione è duplice, il suo sentimento speculativo non può pervenire all’unità della conoscenza artistica, e la sua speranza di comando si separa dalle sue stesse strategie. Anche Christie’s ha avuto il suo momento di complicazioni nella zona rischio: i cyber hacker, che sono entrati in possesso di informazioni sui clienti, hanno chiesto un riscatto alle case d’asta. Piccole parti di dati e imperi mondiali delle pubbliche relazioni, rivoluzioni sul piano del potere e della strategia, ogni pianificazione e ogni organizzazione sistemica del mondo dell’arte ha superato la soglia di conciliazione; una misura che forse nessuno conosce e che tuttavia è imposta a tutto. La Galleria Marlborough, dopo più di ottant’anni di attività, ha annunciato la chiusura. Insieme a Marlborough, il settembre scorso, hanno chiuso i battenti anche Divario (giovane Galleria italiana gestita da Filippo Tranquilli), nonché Vitrine Gallery, o Simone Subal Art Space. A maggio dello scorso anno l’Università di Brighton ha annunciato la chiusura del Brighton Centre for Contemporary Arts (CCA), asserendo di aver dovuto scontrarsi con «sfide molto significative in termini di finanziamenti tra cui il congelamento quasi decennale delle tasse universitarie, nonché livelli di inflazione elevati a livello generazionale e l’impennata dei costi energetici». Si prevede che più di 100 dipendenti dell’Università perderanno il loro posto di lavoro, mentre l’istituzione cerca di risparmiare 17,9 milioni di sterline. White Cube ha eliminato 50 posti di lavoro e tagli al personale li hanno fatti anche Pace e David Zwirner. Il gallerista Ed Winkleman sintetizza questo pensiero nella massima “o gli artisti saltano sulla nave o la galleria si libererà degli artisti zavorra”. E secondo un sondaggio de The Art Newspaper, condotto con la supervisione di Rachel Pownall dell’Università di Maastricht, le gallerie hanno subito una perdita di reddito del 70% a causa del Coronavirus. I risultati e i bilanci di ART-Basel-Paris sono sconfortanti e quelli di ART-Basel Hong Kong non si presentano da meno. Sotheby’s e Christie’s in Asia tendono a peggiorare la loro condizione. Infine, l’annuncio degli annunci: Frieze, attraverso una sottile ispezione della sua società madre Endeavor, è stata messa in vendita, in quanto il suo azionista di maggioranza, Silver Lake, ha cercato di portarla in borsa ottenendo scarsi risultati. La Germania ha ridotto l’IVA dal 19% al 7%, mentre l’Italia è in una situazione di crisi endemica, che tende a precipitare nel baratro istituzionale e privato. “Alcune ricerche considerano che, a causa della competizione fiscale ingannatrice a livello europeo, il fisco italiano perde la possibilita’ di tassare oltre 23 miliardi di dollari di profitti: 11 miliardi di profitti vengono spostati in Lussemburgo, oltre 6 miliardi in Irlanda, 3,5 miliardi in Olanda e oltre 2 miliardi in Belgio. Cio’ comporta un danno per l’Italia, che può essere stimato tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno e che si aggiunge ad una falsa gestione del mercato e delle Fiere, o addirittura ad una totale non gestione e un processo irreversibile.
2. Metafore, sinonimi, segni, rappresentazioni, immagini, pellicole, installazioni, performance, video, site specific, quadri, strutture primarie, teatri, passerelle, body art, fotoreportage: è sempre nel ricambio fieristico che si produce, sulla scena dell’economia simbolica, l’effetto dei valori che dettano legge. Il meccanismo di formazione dei prezzi di vendita delle opere d’arte da parte delle gallerie assomiglia molto a quello dei beni immobiliari, poiché è anch’esso basato sulla contrattazione in base ad un prezzo di partenza. Con una grande differenza però: mentre il mercato immobiliare è molto consistente come volumi di vendita e il livello dei prezzi delle contrattazioni è sotto gli occhi di tutti (basti vedere gli innumerevoli annunci immobiliari presenti sul web, quotidiani e giornali specializzati), i prezzi effettivi delle transazioni delle opere d’arte sul mercato primario non vengono esposti e sono in genere riservati. Ciò comporta che il possibile compratore ha difficoltà a trovare un parametro oggettivo di giudizio su cui basare la sua stima sul valore reale dell’opera, ed ha come base di partenza per la contrattazione il prezzo ufficioso che gli viene comunicato dal venditore. Vedendo la questione più da vicino, il meccanismo di determinazione dei prezzi segue da una parte un valore di riferimento, che dipende direttamente dal brand, ovvero dalla galleria che mette in vendita, e dall’altra si forma attraverso i pricing script, cioè un complesso tacito di regole conoscitivo per la determinazione dei prezzi approvato dal sistema. Le gallerie, investono in self-reputation, attraverso segnali che danno al mercato (come la fama dei propri artisti, il prestigio della sede, lo status economico dei propri collezionisti, la partecipazione a fiere importanti, ecc..) e che dipendono dalla capacità giustificativa dell’entourage del proprio valore di riferimento, utilizzato per fissare tetti minimi e massimi ai prezzi. Sulla base di questo parametro le gallerie poi applicano i pricing script, impostati sulla valutazione e le quotazioni pregresse dell’artista, sulla tecnica impiegata e sulla grandezza delle opere, nonché sulle cosiddette sell-out situations, cioè degli episodi nel curriculum dell’artista che fanno aumentare il valore delle opere rendendole più appetibili per il compratore. La regola fondamentale degli script è che le cifre, per appoggiare una prolungata e durevole carriera dell’artista, non debbano mai calare, ma invece progredire costantemente. Nel caso vi fosse un forte calo della domanda, il gallerista ha dalla sua parte la possibilità di nascondere una discesa temporanea dei prezzi, secondo sempre ben collaudate regole. Nel caso in cui la domanda risulti temporaneamente superiore all’offerta, invece, molte gallerie evitano una veloce lievitazione del livello dei prezzi e preferiscono, oltre a incoraggiare l’attività produttiva dell’artista (cercando di renderla seriale), istituire vere e proprie liste d’attesa, in cui i primi posti sono a beneficio dei compratori più fedeli.
Le gallerie commerciali, invece, adottano tecniche di determinazione dei prezzi più aggressive (price driven strategy), cercando di sostenere il buon risultato dell’artista attraverso un “sistema relazionale”, creato mediaticamente con mostre, recensioni, premi, biennali e presenze in musei e collezioni importanti, in modo da poter giustificare un aumento dei prezzi e indurre, come risultato parallelo, un incremento indotto della domanda. Il progetto è, secondo il dispositivo di una profezia che si auto-avvera, quella di creare attese insensate (animal spirits) verso l’apprezzamento delle quotazioni dell’artista, creando una spirale incontenibile alla crescita dei prezzi e smisurati utili per le gallerie. Questa strategia, molto in voga negli anni ottanta, ha prima portato alla formazione delle bolle speculative sul mercato, a cui è seguito un collasso e una discesa inesorabile delle quotazioni di numerosi artisti, reprimendone la carriera.
Ai giorni d’oggi si preferisce utilizzare una terza strategia, che cerca di coniugare i punti di forza delle altre due: time driven strategy, cui fanno riferimento le gallerie definite “strategiche”, il cui obiettivo è la conquista di una posizione dominante nel sistema. I galleristi utilizzano diverse strategie per scoraggiare la vendita delle opere da esse messe in cessione sul circuito delle case d’aste. Da una parte adoperano il mezzo legale apponendo nei contratti di vendita clausole che impediscano all’amatore di rivendere liberamente l’opera (“first right of refusal”). Dall’altra istituiscono a livello di categoria vere e proprie liste nere (black list) dei collezionisti che operano arbitraggi, in modo da escluderli dal mercato. Inoltre, gestiscono i rapporti con la clientela secondo un fitto macchinario di pubbliche relazioni e di favoritismi, attraverso cui selezionano e fidelizzano i collezionisti. Ma non sempre è così. Un valore elevato battuto all’asta ha poi l’effetto non secondario di dare visibilità e valore simbolico all’artista. La caratteristica principale dei dispositivi di deliberazione dei prezzi delle opere d’arte è quella di essere impotente, con l’effetto diretto di dare vita a bolle speculative sul mercato e con evidenti riflessi sulla volatilità dei prezzi delle opere e sulla rischiosità degli investimenti. Se da una parte l’arte è in grado di comparire come un clipeo rispetto al rischio di inflazione e di variazione dei tassi di interesse, si è considerato che questo genere di investimento è però contrassegnato da un forte grado di illiquidità e di aleatorietà, che a volte lo rendono un vero e proprio jeu d’argent. Da una parte, infatti, le quotazioni dei giovani artisti sono caratterizzate da una forte imprevedibilità; dall’altra le quotazioni astronomiche e sempre crescenti degli artisti di successo (i cosiddetti “arti-star”) non sono mantenibili nel lungo periodo.

Sostituire ciò che è proibito, ciò che manca, ciò che è nascosto, perso, danneggiato, tale e quale, in persona, presentabile: è proprio questa la scena e sono questi i maneggi interminabili, mobili e immobili che in essa vengono a tramarsi. Critica dell’economia politica, critica dell’economia mercantile, critica del comportamento finanziario: queste tre offensive non sono simmetriche, per le loro dimensioni e per i loro effetti. La prima scuote il terreno storico nel suo fondamento materiale determinante, tocca la società nei suoi investimenti e nei suoi collassi, nella produzione dei suoi prodotti culturali e nell’invenzione numismatica delle sue merci, nella circolazione della sua estetica e del suo tessuto di rigonfiamento. Da tutto ciò si potrebbe concludere che lo statuto della mediazione artistica di valore è basato sul rapporto di coappartenenza reciproca fra datità del mercato e datità della merce artistica, che si determina attraverso l’obbedienza al linguaggio dell’esposizione finanziaria, e ad una stimmung politico-economica, ad una tonalità monetaria in cui sono immerse opere e accumulazione originaria. Ma si tratterebbe ancora di una conclusione affrettata, da cui il carattere trans-finanziario della mediazione espositiva compare solo in modo parziale e incompleto: da quanto precede trova certo una risposta la domanda sul radicamento economico del sistema e sul rapporto con il regime autoritario, ma non si vedono ancora tutte le conseguenze implicite nella futuribilità della catastrofe, nell’accettazione – appropriazione – approfondimento della sistemazione espositiva. Quindi statuto economico e caos si co-appartengono non meno di esporre e non esporre, radicamento di caduta e spaesamento di crisi, esaltazione e lutto; ed è proprio su questa coappartenenza che si basa la potenza dell’economico, del linguaggio del dominio, della trans-finanza. Se la trans-finanza fosse solo la riproposizione, la restaurazione dello statuto della catastrofe economica dell’arte, sarebbe troppo debole nei confronti del compimento effettuale del capitale, della sua super-finanza.
3. Il progetto del crollo, dell’andamento delle frane finanziarie, in una parola della crisi, è un addestramento basilare della disciplina storica, per come la intendeva Manfredo Tafuri. La storia concepisce la cris,i quando non cerca soltanto di dare risposte ma, prima di tutto, vuol mettere in discussione, vuole affrontare il caos. Un evento, dunque, che trasforma il futuro in presente e lo attualizza; che agisce sul passato non tanto per rispecchiarne le presunte verità̀, ma per farne sporgere le opposizioni e per sfasciare l’apparente continuità̀. In tal senso, la critica al mercato può̀ mettere in azione una crisi. E la crisi diviene mezzo imprescindibile per permettere il progredire del corso della storia: questo tipo di crisi e di conflittualità va monitorato e ripreso nella scia del tempo presente (jetztzeit & Jetzt-sein).