Arco Madrid 2025
Luca Rossi - Rinascidentro; foto di Chiara Pergola

Luca Rossi al Musée de l’OHM di Chiara Pergola. Un trialogo attorno a Rinascidentro

Conversazione a tre, tra Chiara Pergola, Luca Rossi e Tatiana Basso, in occasione della personale di Luca Rossi, in corso al Musée de l’OHM.

Tatiana Basso: Rinascidentro, la mostra personale di Luca Rossi in corso al Musée de l’OHM – Opening Here Museum di Chiara Pergola, è un’operazione composita, a più dimensioni e in più atti, che si costituisce di:  a) un allestimento site-specific, sulla pergula del Musée de l’OHM, di dieci palline di carta; b) una puntata di “Alone in press conference”(MusÉe de l’OHM – Documenta.LIVE), diffusa online, in cui Luca Rossi interagisce con un uditorio assente commentando lo “stato di salute” della triangolazione arte-critica-mercato e suggerendo una possibile “terza via”; c) un happening in cui Luca Rossi ricollocherà, insieme al pubblico, le palline di carta in alcuni luoghi della città di Bologna l’8 febbraio, in occasione della ART CITY White Night.

Quanto detto fin qui richiede di soffermarsi brevemente sulla convergenza di attori ed elementi coinvolti nell’operazione. Luca Rossi, attivo dal 2009, si definisce come un collettivo che si propone di rivestire contemporaneamente ruoli e funzioni delle figure che compongono il sistema dell’arte, nell’ordine di emanciparsi dalle sue logiche. OHM è invece il museo-opera che Chiara Pergola, sempre nel 2009, fonda in un comò dell’Ottocento. Acquisito dal MAMbo e situato presso il nucleo etno-antropologico del Museo Civico Medievale di Bologna, è sede di mostre temporanee e ha una propria collezione.

Chiedo a entrambi se vogliate aggiungere altro, indicativamente, sulla storia di Luca Rossi e OHM o di Luca Rossi + OHM, quale incontro di progettualità che propongono, ciascuna a suo modo, un’ipotesi di riscrittura dei confini che identificano le strutture dell’arte, dall’artista al critico, dall’opera al museo.

Luca Rossi: A mio parere l’artista e le opere devono tornare al centro, e l’unico modo per fare questo è un’emancipazione dell’artista. Ma ancora prima di questo bisogna trasformare il confronto critico in formazione e divulgazione.

Chiara Pergola: Aggiungo qualcosa sull’incontro tra me e Luca Rossi. LR mi aveva coinvolto in passato in alcune sue iniziative: una conversazione su femminismo, doppio lavoro e lotta di classe (https://fb.watch/xrwM-c1_g5/) e uno stranissimo contest, a cui scelsi di non partecipare per via della mia avversione ai premi artistici. In realtà avevo poi seguito il concorso come spettatrice, trovandolo molto divertente[1]. Volevo ricambiare in qualche modo, e così ho invitato LR a proporre qualcosa per il Musée de l’OHM, che lui non conosceva. Credo che la nostra ricerca sia molto diversa sul piano estetico, ma con alcuni punti di contatto nei contenuti; la centralità dell’opera, il tentativo di sottrarsi a dinamiche omologanti, l’importanza di coltivare una certa indipendenza economica rispetto alle dinamiche di mercato sono direi quelli principali. Trovo interessante il fatto che entrambi abbiamo iniziato a lavorare negli stessi anni, probabilmente, con metodi e poetiche molto diverse, abbiamo cercato modi per reagire ad un certo clima culturale.

TB: Chiedo a Luca Rossi cosa significhi il connettore materiale e simbolico della pallina di carta relativamente ai vari contesti in cui si colloca, l’istituzione museale, OHM e lo spazio urbano dove approderà nel giorno conclusivo della mostra.

LR: La pallina di carta è una sorta di contenuto minimo e banale che ognuno di noi può facilmente procurarsi in casa. Tutta l’argomentazione critica di cui la pallina sarà oggetto durante la passeggiata nel centro storico di Bologna dimostra come quel contenuto standard possa diventare estremamente interessante e di valore, allo stesso tempo, protagonista della speculazione del sistema e del mercato. Durante la passeggiata porteremo le 10 palline in 10 luoghi simbolo di Bologna. Alcuni esempi: il museo MAMbo, il luogo dove è stato ucciso Marco Biagi, la stazione di Bologna, un luogo qualsiasi ecc. Questo perché ogni luogo può ospitare qualcosa (il qualcosa minimo rappresentato dalla pallina) e su questo qualcosa possiamo speculare all’infinito (l’uccisione di Marco Biagi per esempio) ma l’unica cosa che ci può salvare è sempre il senso critico e la capacità di allenare nuovi occhi. Questo dimostra come l’unico antidoto sia appunto il pensiero critico capace di argomentare quale sia il valore di un’opera d’arte per la nostra vita. Se un’opera d’arte non ha valore per la nostra vita possiamo anche seppellirla.

CP: Sono molto d’accordo con quanto dice LR. OHM in qualche modo, invitando ad un rapporto di intimità con l’opera che può essere meglio fruita in solitudine, è nato proprio dal desiderio di condividere oggetti legati allo scambio personale, la cui forma è definita dalla loro importanza all’interno di una relazione. Curiosamente uno di questi oggetti, un libro d’artista impossibile da aprire, contiene proprio l’immagine di una pallina di carta. Questo fatto – assieme a una coincidenza capitata prima della visita di LR all’OHM – ha portato la nostra attenzione su questo elemento, che è protagonista di alcuni video di LR che mi piacciono molto. Un altro aspetto è che OHM è collocato all’interno di una wunderkammer, la collezione Cospi – Marsili – Palagi, che ho ribattezzato per LR “la patria dei giovani Indiana Jones del Seicento”. Mi sembrava interessante che LR proponesse un video della serie “Alone in press conference” all’interno di quello spazio così connotato.

LR: Ho subito intuito nel Musée de l’OHM un’attitudine affine alla mia, ossia la necessità di recuperare una dimensione più intima, riflessiva e privata nella relazione con l’opera d’arte. Una sorta di “Slow Art” che il Musée de l’OHM rappresenta benissimo. Appena Chiara Pergola mi ha presentato il progetto ho subito sentito una grande affinità, e quasi una naturalità nel partecipare e contribuire alla storia di questo piccolo grande museo.

TB: Due storie, dunque, in qualche modo legate allo stesso oggetto, che il caso ha fatto scoprire tali. Luca Rossi, nella conferenza che hai tenuto a OHM hai affermato che quest’opera/luogo ci permette “di concentrarci sulla nostra dimensione privata” che, citandoti, “oggi è l’unica dimensione politica rimasta”. La tua è una critica alla dissoluzione della sfera pubblica, oltre la quale non resta che difendere la propria esperienza privata, l’interiorità, l’autonomia di un pensiero che possa dirsi critico?  Aggiungo che anche nelle riflessioni di Chiara Pergola il concetto del “privato come politico” è centrale, ma lo è dal momento che le condizioni della vita privata sono modellate e riproducono i sistemi di potere, rendendo necessaria una trasformazione collettiva delle strutture sociali che le determinano. Chiedo un commento a entrambi su questi temi.

LR: Purtroppo il fatto che la nostra dimensione privata sia l’unico spazio politico rimasto è un dato oggettivo. Ovviamente questo spazio politico può produrre effetti collettivi, e arrivare alla dimensione politica comunemente intesa. Ma se oggi analizziamo la dimensione politica comunemente intesa questa non ha oggettivamente spazi di manovra. Gli stati moderni, qualsiasi governo abbiano, sono solo in grado di gestire l’emergenza e di fare politiche di galleggiamento. Non sono in grado di fare politiche di cambiamento. In altre parole una scelta nella mia vita privata può valere 10/20 volte la scelta di Donald Trump. E l’unico modo per arginare Trump è proprio lavorare sulla nostra dimensione privata, la nostra capacità di allenare nuovi occhi che significa anche educare noi stessi e i nostri “familiari”. Anche per questo motivo molte opere e molti progetti che ho realizzato in questi anni, vivono o nascono nella nostra dimensione privata. È proprio lì che mi interessa installare le opere.

CP: Per quanto mi riguarda non posso evitare di interpretare questa situazione proprio come il risultato di una serie di azioni politiche, economiche e sociali che alimentano – purtroppo molto efficacemente – interessi privati, facendo leva su una visione individualistica e di messa in produzione di ogni parte di sé. In questa situazione è legittimo cercare anche al proprio interno forme di resistenza per evitare di essere depredati; la dimensione artistica o espressiva è per questo una risorsa fondamentale, ma anche facilmente strumentalizzabile. Credo sia importante soprattutto guardare le cose per quello che sono: OHM evoca una memoria privata, ma è collocata in un luogo pubblico; sollecita una fruizione intima, ma le condizioni in cui questo può avvenire la rendono un’opera fragile e non sempre rispettata; cerca di creare uno spazio per sottrarsi, ma è fortemente a rischio di invisibilizzazione. Luca Rossi vede nella dimensione privata l’unico spazio rimasto, ma si espone molto pubblicamente e in senso mediatico; appare incarnato da una sola persona, ma si definisce un collettivo; avoca a sé tutti i ruoli del sistema, ma in realtà è molto collaborativo e – almeno nella costruzione di questa mostra di cui ho esperienza diretta – è stato tutt’altro che da solo. Credo siano modi diversi di dibattersi all’interno di una situazione altamente problematica, insita nell’origine del concetto stesso di arte. Sono assolutamente d’accordo con LR sul fatto che di questo problema è essenziale occuparsi, ma direi che questo significa appunto prendersi cura della “cosa pubblica”.

TB: Il tema del lavoro connota le riflessioni di entrambi, penso alla questione del doppio lavoro discussa con Chiara Pergola come alla tua tesi per cui sarebbe fondamentale per i giovani artisti guadagnarsi da vivere, per una decina d’anni, al di fuori del mercato in quanto il mercato finirà per impedire loro la possibilità di una reale maturazione, fissandone la ricerca in funzione alla resa economica. Addirittura – è un’idea interessante – nel recente incontro all’Accademia di Belle Arti di Bologna hai proposto che la tua accademia potrebbe aiutare i giovani artisti a trovare un lavoro che permetta loro di mantenersi altrimenti. Anche Duchamp ha lavorato in una libreria per essere un artista libero. Ciononostante moltissimə giovani – e meno giovani – artisti e artiste attendono che una galleria li rappresenti per rendersi economicamente indipendenti e lasciare lavori meno appaganti o stancanti al punto da sottrarre energia alla ricerca artistica. È davvero questa la via preferibile per essere artista oggi, anche alla luce di quanto è stato fatto nel tempo ai fini del riconoscimento del lavoro dell’arte? Consiglieresti di fare lo stesso a un critico o a un curatore?

 LR:Ovviamente l’artista si fa attrarre dalla possibilità di fare un lavoro che gli piace e che possa essere ben remunerato. In realtà questa è una grande illusione perché, anche artisti estremamente sotto i riflettori, sono poi costretti a fare un secondo lavoro come per esempio insegnare in accademia. A mio parere per chi si rapporta con il mondo dell’arte nel 2025 è assolutamente da sconsigliare una dipendenza economica da questo sistema. Questo perché non è oggettivamente possibile affidarsi a livello lavorativo ed esistenziale ad un sistema così precario, e secondo perché questa dipendenza andrebbe a influenzare in modo fatale la qualità e il percorso artistico. Ritengo che la stessa cosa possa valere per un critico e curatore che da subito dovrebbe procedere in modo onesto, professionale e indipendente.

CP: Aggiungo che sarebbe importante anche sapere, ora che di fatto LR è anche sul mercato, come vengono impiegati i proventi della vendita delle tue opere. Sono suddivisi tra tutti i Luca Rossi o sono gestiti unicamente dal front man? Dato che chiunque può essere LR, in che modo ognuno può avere traccia di ciò che succede dal punto di vista economico?

LR: Il collettivo è fatto da molti individui che partecipano (anche anonimi dentro al collettivo) ad alcune discussioni fondamentali. Chiunque può realizzare opere di Luca Rossi, l’unica specifica è che nei certificati di autenticità ci siano due firme: quella di “Luca Rossi” e quella della persona che in quel momento ha agito come Luca Rossi. I proventi vengono re-investiti in parte nel supportare le attività di Luca Rossi, insieme ad altre entrate che provengono dall’accademia, dai progetti di divulgazione, dalla scrittura di articoli e di testi critici.

TB: Nella conferenza all’OHM hai affermato che Luca Rossi è un sistema autosostenibile. Considerando che nel collettivo coincidono, appunto, l’artista il critico il curatore l’ufficio stampa, non si affaccia il rischio di perdere quella terzietà che è una condizione necessaria all’operazione/capacità critica che poni alla base di un sistema che si riscatti dall’a-criticità che attualmente lo domina? Mi spiego, è più facile non essere d’accordo con le posizioni di altri che darsi eventualmente torto da soli.

LR: Il mio obiettivo è sempre stato quello di stimolare più voci critiche indipendenti dentro al sistema. Ma questo è avvenuto solo in parte e in modalità poco strutturate. In altre parole non deve essere Luca Rossi che critica Luca Rossi perché fin dal primo momento il primo obiettivo della critica di Luca Rossi è stato Luca Rossi stesso. Ci aspettiamo che le critiche all’operato di Luca Rossi vengano da fuori.

TB: Spesso hai menzionato, riguardo alla produzione artistica contemporanea, la “terza via” come insieme di – rare – soluzioni che risultano interessanti all’interno del “florilegio di artisti derivativi”. Penso a Itten che affermava che non c’è nulla da rinnovare o innovare, solo da “ri-trovare”, da rimettere insieme, da riunire in un discorso complesso. O ad Accame, che affermava che l’arte è sempre anche un discorso sull’arte, a Calvesi che chiariva come, se il compito dell’arte d’avanguardia era stato avere come contenuto polemico la propria libertà, una volta acquisita e proprio grazie a quella, l’arte ha finalmente potuto, anche, retroflettersi sulla propria storia. Si era negli anni Ottanta, periodo di riflussi. Alcuni critici sostenevano che il recupero del repertorio dell’iconografia della tradizione andasse considerato alla luce del discorso del singolo artista, del suo microsistema creativo, piuttosto che ridurre, com’era frequente, tali esperienze al citazionismo. Ora, vedendo un Hidden Works anch’io lo ricollego all’Enigma di Isidore Ducasse o a Christo, ma ascolto il tuo discorso e considero le peculiari ragioni del tuo nascondimento. Non c’è il rischio, nel basarsi sull’aspetto formale, di perdere il discorso personale che l’artista fa, schiacciandolo sulla rigidità che è propria delle categorie?

LR: Non bisogna innovare ma utilizzare il passato e le citazioni come ponti per affrontare il futuro. Ad esempio dentro gli Hidden Works troviamo opere postmoderne e la copertura può ricordare Christo e Manzoni (anche se loro non proponevano due opere in una), ma poi queste opere discendono da una semplice informazione (la società contemporanea che indica Byung Chul Han), riattivano sorpresa, immaginazione e attesa, cose che stiamo perdendo oggi e non 60 o 70 anni fa. Luca Rossi critica la “sindrome del Giovane Indiana Jones” quando la citazione ricade su se stessa per creare solo dispositivi feticcio del passato.

TB: Un’ultima domanda: Luca Rossi è un collettivo ed è un progetto. È anche un’opera d’arte?

LR: Per definire un’opera d’arte servono: contesto, l’opera (qui possiamo pensare a tutte le cose che sono nella nuvola progettuale di Luca Rossi) e un titolo. Forse Luca Rossi è un’opera d’arte, una sorta di fibrillazione tra oggetti, immaginazione, esperienza diretta ed esperienza mediata.


[1] La cosa per cui sono principalmente grata a questo programma è stata di farmi conoscere Max Oddone, artista stimabilissimo (anche se lui non sarebbe d’accordo).

A cura di Tatiana Basso