Arco Madrid 2025
Francisco Goya, Duello rusticano

Gli occhi tristi del cane

Riprende il viaggio alla ricerca dei tesori di Madrid di Andrea Guastella

Bisognerebbe tornarci, al museo, ogni fine settimana. Frequentarlo costantemente e in un tempo dilatato, un po’ come si frequenta la casa dei nonni con alle pareti i ritratti dei bisnonni e quell’aroma inconfondibile di taralli e tè al limone. Se invece, come me, si è sempre in giro, e si ha il tempo contato, occorre operare una scelta impegnativa. Che non potrà implicare – come talora suggeriscono le guide maliziose – il tralasciare parte di una collezione. Anche a costo di correre per ore, un museo va visto tutto. Ci si potrà soffermare su questo o quel capolavoro, ma mai a costo di escludere una stanza. E se in quel luogo si celasse il tesoro più prezioso? Per quanto mi riguarda, gli ambienti più interessanti sono quelli che, dopo chilometri di visita, sarei stato tentato di evitare. È accaduto anche al Prado. A fine giornata avevo i piedi gonfi, la testa mi doleva, ma non avevo ancora visto le Pitture Nere. Giunsi alla sezione espositiva come un alpinista su una vetta solitaria, ma in senso contrario: i capolavori di Goya sono infatti la cantina del museo. Non dimorano in un luogo luminoso, ma nei recessi della memoria. Sono le confessioni private dell’artista, che aveva pensato quei dipinti per decorare le pareti della casa di campagna in cui, fuggendo la corte, si era infine ritirato. Una casa appartenuta, guarda caso, a un altro sordo, proprio come la stanza che ospita le opere è meta ultima di visitatori fiacchi, spossati, dai sensi alterati per la fatica del cammino.

Mi ritrovai così a vagare come un sonnambulo da una visione all’altra. Da una parte mi appariva una strega su una specie di tappeto volante in fuga verso una roccia che avrebbe potuto essere Gibilterra, o il monte Pellegrino, dall’altra uomini sciatti, deformi, accalcati uno sull’altro come devoti in processione – uno di loro, almeno così mi è parso, aveva gli occhi chiusi da due file di denti – recitavano una nenia fastidiosa, che non sarei stato in grado di distinguere dai bisbigli dei turisti. Un cane interrato nella rena guardava chissà dove. Gli occhi tristi del cane: e chi mai potrà scordarli? Anni fa, il cane di mio fratello, che mio fratello non aveva accompagnato a fare i bisognini, aveva macchiato un tappeto. Lo rimproverai – il cane, non mio fratello – con tono deciso. Lui mi guardò esattamente come il cane di Goya, col suo musetto che sporge dalla sabbia, guarda altrove. Sembrava fosse lì per guaire e lacrimare. Non aveva capito – e come poteva? – il senso del rimprovero: se nessuno lo aveva portato a passeggio, per quale ragione avrebbe dovuto trattenersi? Fu allora che compresi l’infinita bontà degli animali, la loro schiettezza, la loro assenza di secondi fini. L’inquietudine del cane di Goya è elementare. Che cosa sta accadendo? Perché è solo? Dove sono la sua mamma, il suo padrone? Le medesime domande dei bambini di Gaza, che la guerra ha trasformato in cimitero. Quelli rimasti in vita, combattono contro incubi, rabbia, enuresi notturna e ansia. Basta un rumore per gettarli nel terrore. I due villani che, in un’altra pittura nera, il cosiddetto Duello rusticano, se le danno di santa ragione, affondano nella melma per un motivo preciso: aiutandosi a vicenda, o anche solo smettendo di riempirsi di mazzate, sarebbero al sicuro. Sono gli artefici del proprio destino. Il cane no. Lui affonda perché una frana, o un disgraziato, lo ha sotterrato vivo, o perché nessuno ma proprio nessuno si prende cura di salvarlo. L’oltre che il cane sta fissando è l’infinito. Il cane guarda noi, che lo guardiamo, o gli scattiamo una foto, invece di aiutarlo. Se solo riuscissimo a tendergli la mano… 

Francisco Goya, Cane interrato nella rena, 1818-23