Roland Barthes, (1970), L'impero dei segni, Translation by Marco Vallora, «Piccola Biblioteca Einaudi» (Nuova serie) 164, Einaudi, Torino, 2005, p. 20

Lo «scandalo» di Roland Barthes

Ci è sembrato non solo opportuno, ma necessario, dedicare uno sguardo alla prospettiva barthesiana fuori le righe, considerata come una sorta di laboratorio caratterizzato da aspetti di originalità che possono sorprendere chi pensa che la riflessione di Roland Barthes sia sempre e comunque tributaria di proposte e formalizzazioni scontate. Siamo convinti che lo sviluppo degli insegnamenti di Roland Barthes, in Occidente, abbia creato le condizioni perché maturasse una varia, e spesso importante, articolazione di critica e di analisi. Non è un caso, dunque, se i testi di Barthes qui considerati hanno quasi solo matrice inedita e sorprendente.

Che la scienza cercata da Roland Barthes – ovvero la semiosi prima, destinata poi ad essere semiologia – possieda già una connotazione sconnessa, o almeno racchiuda in sé una componente conflittuale tra vocazione e pratica dello scetticismo, è un dato di fatto, ovvio e indiscutibile. Non a caso essa viene qualificata dallo stesso Roland Barthes come “conoscenza morale” in quanto particolare etica del discorso … Tradizionalmente meno pacifico è, invece, cosa bisogna intendere poi con questa definizione e in che modo essa si combini, o risulti compatibile, con le altre indicazioni relative all’oggetto (o più correttamente, come dicevano gli scolastici, al soggetto) della critica già presenti nel testo barthesiano, così come in esso ci è stato tramandato dagli scritti editi in vita.

Diversi semiologi hanno recentemente sostenuto che, al familiare elenco di teorie della critica e della ricerca, dovrebbe essere aggiunta la teoria identitaria della saggezza; ovvero l’idea per cui l’espressione di un giudizio consiste nella sua identità con un fatto. Quest’idea giocò un ruolo importante nella carriera meno esposta di Barthes e nei primi scritti che vanno dagli inediti del 1933 al 1980. Inoltre, essa sembra avere un ruolo in uno scritto su Les Lettres Nouvelles (del marzo 1959) che si definisce con Cos’è uno scandalo. Ci sono diverse ragioni per cui si potrebbe voler sviluppare una concezione di questo tipo, ma nel contesto del dibattito contemporaneo, tra teorie della critica robusta e teoria della contraddizione, potrebbe esserci la seguente pubblicazione raccolta tra i tomi 1, 2, 3, 4 e 5 delle opere di Roland Barthes presso le Editions du Seuil (1993-1995). È abbastanza raro che, frequentando più o meno gli stessi ambienti per anni, non accada di conoscere uno studioso che appartienga a una grande comunità, allo stile della sua sensibilità e della sua intelligenza, ai fantasmi della sua memoria. È capitato anche a me con Roland Barthes: ho ascoltato più volte dagli amici comuni la sua leggenda piena di simpatia e di apprezzamenti intorno all’articolo di Zoom (ottobre 1978) dedicato a Bernard Faucon: si raccontava di un personaggio ricco di cultura, devoto alla letteratura e al sapere, di una ostinata propensione per il riserbo che lo spingeva a sfuggire persino le occasioni più semplici e gratificanti d’apparizione pubblica, ma certamente non l’impegno del lavoro sperimentale dove era in gioco la competenza e la costanza dello scrivere comune testimoniato da: Cos’è uno scandalo (testi su se stesso, l’arte, la scrittura e la società, a cura di Filippo D’Angelo, L’Orma Editore, Roma, dicembre 2021). Non che Roland Barthes non scrivesse qua e là, ogni tanto, ma i luoghi, se pure preziosi, erano dispersi, almeno per la mia attenzione, deviata talora dalle necessità accademiche e da una fretta non sempre apprezzabile. Ma soprattutto mi pare incredibile che non ricordassi gli articoli e le note scritte da Roland Barthes negli anni quaranta per Existences (vedi: Appunti su Andrè Gide e il suo Diario, 27 luglio 1992), degli anni Cinquanta (Matisse e la felicità della vita, le Lettres Nouvelles, gen. 1955), quelli degli anni sessanta (tipo: I tre dialoghi, su Il Menabò n. 7, 1964) – , una serie di raccolte che, in tutta la seconda metà degli anni ’70, furono parte della mia formazione e di cui tuttora ricordo le selezioni, le testate e l’impaginazione grafica di oltre cinquant’anni fa!

Dopo questi “s/chiarimenti” possiamo identificare nella nota sulla Scrittura (pref. a R. Druet e H. Gregoire, de La Civilitation de l’ecriture, 1976) la suddetta forma di considerazione: “Il desiderio umano di incidere (tramite un punzone, un calamo, un lapis, una piuma) o di accarezzare (con un pennello, con una punta di feltro ha senz’altro subito trasformazioni che hanno occultato l’origine propriamente corporea della scrittura: ma basta che ogni tanto un pittore (come oggi Masson o Twombly) incorpori forme grafiche alla sua opera per ricondurci a questa evidenza: scrivere non è soltanto un’attività tecnica, è anche una pratica corporea di godimento” (p.130). Cito ancora: “Il corpo resta legato alla scrittura tramite la visione che ne ha: esiste un’estetica tipografica” (p.131). Questa di Barthes è in un certo modo una percezione condivisa; nessuno nega il fatto del sincronico e del diacronico di una scrittura in quanto esercizio pittografico, che i suoni di essa hanno una loro storia di stesura e che i sensi del corpo cambiano. Solo per il parlante, in ogni momento della grafia, in ogni momento della storia della stesura, esiste un rapporto corpo a corpo, quello corrente: le parole e i segni portano la memoria grafica di chi scrive. 

Ogni scrittura raccolta in Cos’è uno scandalo è d’occasione, come la vita che non ha una rotta tracciata. Il sorretto moralismo, di cui parla nel fenomeno dello scandalo, misura in effetti una parola liminale tra occultamento e rivelazione, tra momento diretto e momento gestito, lasciando comunque libero lo spazio di oscillazione tra le due opposte determinazioni.

Qualche tempo dopo, quelle frequentazioni parigine della fine degli anni ’70, seppi che Roland Barthes aveva visto il suo lavoro compiuto solo pochi giorni prima della morte.

Ma non ci sono coincidenze per la meraviglia, ci sono segni che non si volevano vedere. Prima ho usato la parola che lo stesso Barthes utilizza: satori; ora declino sull’altra parola del titolo: Scandalo (o sorpresa). Il titolo l’ha scelto Roland Barthes già dal 1959 e la metafora è perfetta. Il libro gira intorno ad una serie di approdi, di soste per esplorare paesaggi prima solo intuiti o immaginati nella scienza sociale del linguaggio, poi il navigatore riprende il mare aperto, l’infinita possibilità di seduzione magica “delle letterature”. Sarebbe vano il tentativo di chi, nell’insieme degli scritti di Roland Barthes, si sforzasse di fissare un’unica modalità di rapporto logico di un metodo di esplicazione, l’identità e l’analogia tra i problemi esaminati, o ancora la rassomiglianza tra i differenti autori evocati, invocati o trattati. Lo scandalo come questione di senso (detto o non detto, rivelato o non) è, dunque, per definizione, fenomeno della rivelazione o del nascondimento della parola: ricerca del linguaggio. Perché il senso non è il principio dell’incorporeo, del paradossale, secondo Roland Barthes, se non per il fatto di essere prima di tutto ciò che rende possibile il linguaggio. A partire dallo scritto del 1959 sullo «scandalo» e a qualche anno di distanza dalla conferenza di Marcel Duchamp sul “processo creativo”, l’uso della parola negli scritti del semiologo rispetto a quelli dell’ex-dada di Blainville (Marcel Duchamp), abbracciano due orizzonti diversi: la mutazione plastica dada-originaria si sviluppa al contrario della ricerca stilistica sempre preda dell’originale (dice Michel Sanouillet), “parola troppo guardata”, “interesse che suscita il suo contenuto semantico diminuisce fino a scomparire (continua Michel Sanouillet); mentre invece quella di Roland Barthes coglie i paradigmi della significazione, dà senso e cerca senso, nella diatriba tra accusatore e accusato, menzogna e verità. Il semiologo scrive: “È la parola. Il testimone nuovo e misterioso che spunta fuori dal nulla è innanzitutto un portatore presunto della parola: se accetta di parlare, non ci sarà più alcun mistero […] l’intrigo è semplicemente questa parola sfiorata, tesa e rifiutata …” (p.94). Dato che Barthes insiste sempre su di un parallelismo stretto tra il linguaggio e il corpo, deve essere possibile adattare ciò che si legge negli scritti, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei Sessanta, a proposito della parola e del linguaggio, alla sua nuova teoria di disintossicazione dello “scandalo”, per quanto quest’ultima sia innestata sull’esperienza del corpo come macchina del testo. La parola è fisica! Una volta ricevuta, essa è nutrimento che si immerge nel succo dell’esistenza. 

Nel turbamento della sensibilità morale e dell’innocenza altrui, l’offerta del linguaggio, l’esempio del vizio e della colpa, l’idea religiosa o laica di comunicazione; l’eccesso di spregiudicatezza di un segno, l’irrisione delle convenzioni e i modi del parlare. Il libro è diviso in tre o quattro sezioni: recensioni, lezioni, saggi e note. La definizione complessiva del libro, come dicono i ricordi che l’hanno accompagnato, si può spostare su un’altra metafora: una miniera, ma una miniera un poco speciale dove si trovano una serie di composizioni e di riflessioni possibili dei vari minerali. La conoscenza dei temi letterari o di cultura, in senso generale, è fuori da quelle che sono le misure correnti. Per Barthes l’impresa era un po’ differente. È un modo di interrogare testi, versi, miti, personaggi, che non trascrivono la propria comprensione per costruire un altro testo che appartenga a un differente ciclo autoriale. È il lettore sperimentale che, inevitabilmente, percorre un cammino del genere. 

La critica di Barthes non desidera mai abbandonare, trasfigurandolo, il suo tema come inizio di un’altra impresa. Barthes rimane rigorosamente nello scandalo, lo esplora nella pluralità delle sue direzioni, dei suoi echi, delle sue somiglianze, delle sue congiunzioni, dei suoi prestiti. Ma certamente per percorrere tutte queste preziose lateralità in una pluralità di casi, era necessaria una memoria della “cultura dello scandalo”, possibile solo con un esercizio in cui gli oggetti della cronaca siano diventati figure profonde della propria esperienza, compagni di viaggio. Ma Barthes non è mai stato uno specchio fermo sulla propria immagine, in un disarmo dal mondo, in una solitudine opaca. Barthes era un professore che amava il proprio lavoro. Inoltre se l’equilibrio particolare della sua morale era dato da una grande capacità d’ascolto, il suo obiettivo, al di là della foto, “detto o non detto”, era un insegnamento. L’altro come luogo nuovo di una crescita era la costante immaginazione del destinatario. Barthes, senza una parola in più del necessario, desiderava mostrare anche agli increduli la grande ricchezza della vita. Con questi testi dovrebbe aprirsi un nuovo caso Barthes, in una cultura che non perda volontariamente la risorsa della memoria. Ma dove si è nascosta la morale scettica? Qual era e qual è il ruolo del critico, oggi come oggi, in questo mondo intellettualmente difficile? Effettivamente, in questa realtà sociale che ci sopravanza non c’è posto. Basta cambiare la dimensione di riferimento, l’alone o lo scandalo che osserviamo. 

D’altronde è sempre stato così. L’incapacità di ascolto e di riflessione del mondo, ora accentuate ed accelerate dal progresso tecnologico e dall’iperstimolazione del sistema nervoso, hanno sempre nascosto un allargarsi di spazio plasmico, vuoto asonoro-atemporale, silenzio artistico, bagliore mistico, escatologico. Là esiste il mondo degli scrittori ed i semiologi stanno. Oltre la porta. E multidimensionalmente, prima della porta, sono ovunque. Come in un liquido. Come oltre un confine di manicomio e di scandalo, punti di vista prospettici e nevrotici? Il loro ruolo, di queste antenne umane, è mantenere il linguaggio, fluire ed evolversi, come un rito di comprensione, come un mantra che continua ad essere detto e nascosto, poiché prima o poi verrà rivelato. Gli interpreti sono come dei luminari, scettici, indagatori, moralisti per necessità, osteggiati ed amati, spesso emarginati. Attraverso il linguaggio fisicizzato la fantasia e lo scrittore si evolvoono, così come è stato finora. 

Eppure, in questo mondo in cui i terabytes d’informazione, le macchine, i macchinari, gli orari di lavoro sono sempre di più e più veloci, gli scrittori, i moralisti alla Roland Barthes  sono. Si muovono come spiriti tra le Biblioteche del senso e curano, curano come i satori, ad un prezzo alto, per alcuni molto alto. Talvolta qualcuno si sofferma a dialogare con Hervé Guibert, sui manoscritti di Sylvano Bussotti, sul fenomeno della maionese che monta e si evidenzia troppo e viene assorbito, moralmente o fisicamente, dal significato del testo. Ma il posto degli sperimentatori in questo mondo sarà presto rivelato, manca, a parer mio, ormai assai poco. Quindi cerchiamo di osservare prima e poi vedere, sentire prima e percepire, perché oltre quel che si vede c’è ben di più, tanto vale incominciare a farlo anche dopo aver scattato una foto; non c’è altro verso, se non quello, miei cari, della scrittura: “… siamo spinti a dubitare (finalmente) che nella fotografia, questa grande sconosciuta del mondo moderno, ci sia da un lato il soggetto e dall’altro una maniera; dubitiamo, insomma, che la fotografia non sia niente di più (idea nondimeno abituale) che la congiunzione di un argomento e di un’arte … E affida questa scena immobile all’arte stessa dell’Immobilità, la Fotografia (la teoria della Fotografia, oggi bloccata, non progredirà fino a quando ci si ostinerà a fingere che quest’arte abbia per missione di rendere “vivo”, animato ciò che non lo è)” (p.149). La fotografia a me comunica la sensazione di mortificazione con cui si conclude La Camera Chiara (1980).  Come per le altre pratiche espressive, anche per la fotografia, il giudizio di Roland Barthes è chiaro e rappresenta l’occasione per una globale rivalutazione della poesia, in termini nuovi e storici, tanto dei problemi più insoluti quanto delle soluzioni date. Nella fotografia, la tendenza allo stadio dell’immobilità chiarisce che l’immagine ferma non è in grado di testimoniare l’esistenza, ma solo la natura figurale del loro indice. Icone senza vibrazione sonora, le cui idee costituiscono un diario di bordo di chi, in quel momento, ha guardato, ha osservato quel luogo con tutta la sua “attenzione/istantanea”. 

L’impossibilità di rendere vivi credo che sia in un sano e armonioso equilibrio tra istanze della propria identità letteraria e messaggi e stimoli che provengono da tutto ciò che è altro da noi. Quando riusciamo a conoscerci abbastanza bene, avere una buona percezione delle nostre peculiarità e tendenze, e sappiamo metterle bene in relazione con ciò che ci è comunicato dall’immagine dello scandalo o dallo scandalo di una immagine bloccata, cioè con una rivelazione che ci precede e ci supera allo stesso tempo, allora la vita inizia a perfezionarsi ed illuminarsi, a ricevere e, misteriosamente, anche irradiare luce di comprensione o di incomprensione, in una indicalità economica della foto e della sua simultanea ombra. Per l’analista, così come per l’analizzante, si tratterebbe allora di imparare ad affrontare l’oscurità dello scandalo, senza esporlo ad una luce che non potrebbe se non travisarne l’oggetto e farne fallire la comprensione: illuminare lo scandalo significa trovarselo immancabilmente trasformato in enigma, così come piacerebbe a Duchamp e a tutti i suoi epigoni (sia nel caso di Piero Manzoni e sia in quello di Gino De Dominicis).

Per questa ragione la coscienza letteraria certamente si espande, senza tuttavia fermarsi di fronte all’immagine. Di qui uno spostamento dell’indagine analitica, un ridimensionamento del suo oggetto, che ne colga – e qui il lavoro di Roland Barthes è preziosissimo – i caratteri di residualità. L’identità è una immaginazione, una forma di perversione feticistica, che simula un processo evolutivo, localizzandolo in un punto sottile della scrittura: un punto di partenza che, per Roland Barthes, si origina in un tema in classe del liceo. Il suo fine è il ricordo della madre, quel ricordo che sostanzia la descrizione della foto e dell’infanzia, quella che per lui è il punto di partenza e anche di arrivo. L’individuazione è, invece, una differenziazione, uno scarto continuo di se stessi nella pratica della scrittura. Barthes utilizza, così, l’immagine dello scrivano e dello scrivere, per indicare la capacità di esporsi a un divenire senza immagine: il soggetto scrivente non è un sapere di se stesso, ma un saper negoziare con la propria pratica, con quella di André Masson e di Acéphale, saper restare in essa. Anche come un segno scritto e indecifrabile.