L’inferno oltre la porta chiusa (III parte)

Il tempo si è dunque diviso in due. Fuori ha continuato a procedere ritmato dall’orologio, ma dentro il cranio di quello che guarda La Porta Chiusa, si è frenato. E’ sempre straordinario accogliere una prova esterna della propria esistenza, una conferma così spudorata, rumorosa e diversa della ronzante e osssessiva riprova psichica. Infatti come si può essere qualcheduno? Come si può essere quello che si è?

Una sera stavo rincasando, le luci dell’ingresso principale tardavano ad accendersi, un residuo chiarore aiutava ancora a vedere, avevo appena chiuso il pesante portone, quando vidi «l’Ingresso», quella «Porta», accanto alla mia alquanto chiusa; accellerai il passo, forse sarei riuscito a notare qualcosa, magari un attimo il viso di qualche attore, ma le voci si spensero in fretta, lo scatto della serratura aveva posto fine ad un’opportunità incercabile.

Era domenica, l’ozio festivo prende un po’ tutti, si rallenta nelle faccende, nei gesti, la fretta d’arrivare concede una pausa. Decisi di bussare, andare verso quella porta, lasciando socchiusa la mia, premere il pulsante, sentire il campanello suonare e aspettare che qualcuno aprisse. Nel timore di un pentimento, lo feci subito: nessuno aprì; una, due, tre volte, il trillo era chiaro, la porta rimase chiusa. Sostai per poco, l’aspettativa era svaporata.

Intanto, una coppia di anziani coniugi usciva dall’ascensore, con mosse e passo lenti, si recavano sicuramente nel vicino Museo; ci salutammo istintivamente, chiesi chi fossero i miei vicini dietro quella porta sbarrata. Mi risposero di non conoscerli, di non averli mai visti, poi loro, uscivano di rado e non avevano mai avuto possibilità di incontrarli, non avevano mai avuto il piacere di leggere una riga di Gide, di Sartre, di seguire il teatro e di capire quanto un testo come A porte chiuse corrispondesse all’inferno e cosa fosse “l’inferno teatrale dell’Altro”.

Mi dissero anche che in quel luogo avevano abitato per parecchi anni tre o quattro tra scrittori e poeti, morti in circostanze misteriose. In fondo i poeti muoiono sempre in misteriose circostanze, i poeti nascono per vivere in circostanze misteriose!

Rientrai a casa, quella notizia mi aveva turbato: delle morti improvvise, misteriose e persone che non riuscivo ad incontrare, a conoscere, a salutare come succede da sempre tra vicini di casa. Dovevo insistere, era un obiettivo da raggiungere. Quali potevano essere le strategie da intraprendere, senza invadere la privata quiete della poesia e del teatro, del rito e dell’espressione separata? Provocare reazioni, malintesi, curiosità Sepolcrali? Tutto doveva accadere nella normale casualità, cercando il momento, cogliere la minima occasione, individuare il più piccolo tratto, sperimentare la più acuta osservazione, sollecitare la più indolente forma di immaginazione letteraria.

Gli interrogativi sull’inferno, la poesia e il teatro erano sempre presenti, perché questo accanimento della conoscenza, perché farne un punto fisso? Avevo i miei amici, le mie relazioni; quale bisogno c’era? Che cosa avrebbero potuto darmi queste anonime figure performatiche, cosa avrebbero potuto cambiare nella mia vita, perché avrei dovuto continuare a immaginare performance?

Il caldo era già arrivato, la necessità di riordinare le mie aspettative m’indusse a non pensarci, almeno per un po’. Come tutti gli anni, andai in vacanza, trascorsi un breve periodo in una località montana, dimenticai i miei vicini, il cortile, il muro che ci separavano, la macchina fotografica che usavo per riprendere quella Porta Chiusa e Stretta e che mi stimolava enormi curiosità.

Le lunghe passeggiate, l’uso indiziario degli obiettivi, le registrazioni delle performance per i webinar, il verde della fitta vegetazione, i grandi alberi, l’acqua limpida che sgorgava da alcune fessure della grigia roccia e invitava a bere in assenza di sete, mi davano la desiderata tranquillità e l’oblio delle vicissitudini che nessuno può evitare.

I sentieri, che si inerpicavano diventavano sempre più stretti, facevano scoprire improvvise vedute, le vette di monti non lontani incutevano timore e la maestà della natura custodiva la sua misura.

Avevo fatto delle nuove conoscenze, facili per quei luoghi, dove si va anche per interrompere la “foschia del tedio”.

Arrivarono i temporali, le istantanee e abbaglianti saette univano le basse nuvole e la terra nell’assordante fragore; era tempo di tornare. I soliti saluti, le solite promesse, l’arrivederci al prossimo anno, poi lo scambio dei numeri telefonici che nessuno avrebbe mai utilizzato, le rimodulazioni delle rubriche e dei profili di FB per potersi rincorrere fino all’impossibile, i pensieri sull’identità e il riconoscimento dell’infernauta.

Gabriele Perretta, Le Porte Infinite, 2002

Rientrai. L’ordine delle cose che avevo lasciato era immutato, nulla era cambiato.

I fiorellini del gelsomino, dal corto gambo e i cinque petali bianchi, caduti dalla pianta, strascicati dal vento, avevano formato un mantello aromatico; alcuni ormai ingialliti, altri ancora freschi sul pavimento del cortile disegnavano una pittura impressionista interpretata da Meyer Schapiro. Chissà se altri, spinti al di là del muro, adagiati nella loro leggerezza, in un ordine spontaneo, in quel muto ambiente all’aperto, senza volerlo si erano resi autotrasportatori o infernauti secondo il loro idioma? Magari non graditi, erano finiti in un piccolo deforme ammasso, nell’attesa che il breve tempo gli desse il colore della morte.

In un tardo pomeriggio, quando la luce inizia lentamente ad affievolirsi e l’alba illumina i tetti e il mare in un’altra parte del mondo diviene scuro, in quello spazio all’aperto, tornai a sedermi.

Dietro quel muro, tutto era avvolto nel silenzio, eppure in quelle stanze, in quel cortile, abitava qualcuno che pensava, che aveva a che fare col teatro, qualcuno che aveva un’anima, qualcuno che sentiva l’urgenza della scrittura recitata, qualcuno che aveva a che fare con Sartre e le “porte chiuse”, oppure con il Marcel Duchamp di Porta: 11, rue Larrey (1927), qualcuno che forse amava “l’infernet della poesia”.

L’autunno cominciava a levare al cielo il trasparente chiarore, i fiori del gelsomino non c’erano più e le piccole foglie cadevano lasciando dormire i minuti rami. La pioggia attaccava quelle ovali pellicole al pavimento, dava loro lucentezza e plasmava dei mosaici incompleti con tanti vuoti e un bozzetto privo di espressione.

Una notte, quando il sonno sfugge e i sogni si allontanano, sentii alcune porte vibrare; era il vento che scuoteva le ante, instabili per natura perché scarsi i vincoli che le fissano.

Una batteva più di tutte, qualcuno l’aveva lasciata semiaperta, si sentiva l’intermittente accostarsi alla gemella metà e allontanarsi come in un perpetuo movimento.

Mi alzai, capii che quel rumore proveniva dal cortile accanto. Quale migliore occasione per bussare a quell’uscio e dire che la smemoratezza poteva provocare danni e disturbo alla quiete?

Cercai di mettermi qualcosa addosso, ero infervorato, agitato per l’occasione; di notte tutti stanno a casa, il riposo è una necessità primaria, avrei bussato con insistenza, avevo motivazioni per farlo, ma rimasi ancora lì “sulla soglia dell’esitazione” a chiedermi ancora perché osservare quell’Ingresso!?

All’improvviso qualcuno chiuse quell’anta, il particolare rumore cessò, il vento continuava a fischiare attraverso i comignoli e le fessure dei muri, facendosi portavoce delle sinfonie di musica concreta scritte da Pierre Schaeffer.

Ritornai a letto, rammaricato, un’altra circostanza si sarebbe presentata, la vita è piena di fatti, bisogna trattenersi e aspettare. Le porte pian piano smisero il turbante concretismo, si fermò il leggero ondulare di una tenda, l’irrequietezza dell’aria cessò, tutto si placò, il silenzio accolse la notte.

Le piante avevano smesso le proprie foglie, i rami nel loro scarno apparire, attendevano il nuovo ciclo della vita, il freddo impediva al cortile di accogliere i rari uccelli che di tanto in tanto si posavano sull’odorante gelsomino ed io dovevo guardare, attraverso i vetri d’una finestra, quel muro che non dava risposte, quel muro isolato nella sua invalicabile domanda, quel mistero fisso al limite del limina di Walter De Maria!

Porte chiuse, vigili del fuoco.

I giorni rincorrono le notti, le notti braccano i giorni, canuti peli cominciavano ad ingrigire la mia barba, il tempo lasciava le sue prime incancellabili impronte.

Una mattina, uscendo, vidi di spalle una persona che si allontanava dalla “porta sempre chiusa”, forse aveva bussato, cercato, o era colui che condivideva con gli altri quello spettacolo dei poeti all’Infernet. La segui, era una persona vestita alla Marcel Duchamp, snella, acuta, con i capelli tirati indietro, lisci; portava un vestito scuro e un sigaro; non corrispondeva affatto agli attori de Le porte chiuse che avevo immaginato. Allungai il passo, volevo conoscerla, parlarle, chiederle se alloggiava in quella casa con all’interno un cortile.

L’avevo quasi raggiunta, all’improvviso scese dal marciapiede, attraversò la strada; intanto un lungo mezzo mi impedì di andarle dietro, fui costretto a fermarmi; subito dopo era sparita.

Entrai nei bar vicini, diedi un’occhiata in una tabaccheria, la descrissi ad un passante e gli chiesi se l’aveva vista. Guardai intorno, camminai seguendo una probabile direzione; era scomparsa, svanita nel nulla. 

«Il nulla nella storia di quegli sguardi era inteso come non essere, contrario dell’essenza, e come negazione e alterità. L’occhio della mia osservazione ha cercato di comprendere l’essere e il nulla in reciproca correlazione, magari di qua e di là dalla Porta. Il nulla che compare nella logica hegeliana e in quella reale dello sguardo, il nulla che è la negazione dell’assolutamente indeterminato, il nulla di quel dietro alla porta che fa percepire la fondazione della negazione. Per quella mia curiosità, in formazione, pure il nulla è l’origine della negazione, e non viceversa; da questo punto di vista, la Porta di Duchamp è la negazione radicale dell’essere e del suo sguardo, in quanto instabilità, vissuto nella dimensione emotiva dell’angoscia. Il nulla si rivela proprio con e nell’enigma della Porta Chiusa, il nulla è la finitezza radicale che rende possibile il manifestarsi del Chiuso».

Nel rientrare bussai nuovamente, nessuno aprì.

La pioggia cadeva, obliqui avanzi di temporale brillavano argentei, infiltrandosi in un raggio di sole che una generosa nuvola lasciava passare.

Era appena pomeriggio, lo scroscio ovattato dell’acqua avvolgeva le cose, sembrava che tutto si fosse fermato, come una stasi provvisoria che la frenesia della vita invitava.

Le voci di due persone che parlavano tra loro mi arrivarono inattese, prima morbide, attenuate, poi più forti, non capivo cosa dicessero; il catetere dell’acqua, intanto, aveva preso vigore, rendeva confuso il dialogo. Quell’appartamento, dunque, era abitato. Se avessi potuto, avrei scavalcato il muro, sarei andato nel cortile e attraverso un’apertura avrei visto, mi sarei dedicato all’osservazione definitiva. La pioggia aumentava, non si sentiva più nulla, quel parlottio era stato coperto totalmente dal temporale già arrivato; ma lentamente, come spesso accade, l’influenza dell’acqua smarriva energia, il grigiore cominciava a diradarsi, le nuvole si erano svuotate del loro contenuto, il sereno si impadroniva del cielo, il sole e l’azzurro ridavano la quiete alle ripopolate strade bagnate.

Le voci di prima si zittirono, erano andate via con il fragore della burrasca, la casa ritornò ai suoi interrogativi.

Come sempre, il traffico non mi permetteva di utilizzare la macchina, dovevo andare in centro per delle commissioni, presi un tram, era già affollato. Molta gente sostava in piedi nel corridoio, alcuni leggevano il giornale, non si curavano degli spintoni, erano abituati allo scomodo trasporto collettivo, altri premurosi di scendere.

Notai un uomo, da dietro, che con una mano si reggeva ad un apposito sostegno, aveva ceduto il posto ad una persona anziana.

Era robusto, non molto alto, i capelli neri lisci, vestiva di scuro, sembrava lui, quell’individuo che avevo seguito e all’improvviso era sparito. Con difficoltà cercai di avvicinarmi, in mezzo c’era molta gente, gli arrivai accanto con difficoltà, non riuscivo a vedere il suo viso, proseguire mi era impossibile. Salì altra gente, tutti eravamo più stretti, rimasi bloccato. Alla fermata successiva le porte si spalancarono, entrò dell’aria fresca, salutare per quel momento, lui scese, si confuse in mezzo ad altre persone; volevo scendere anch’io, ma poi pensai che molto probabilmente non era la stessa persona a cui ero andato dietro. I vetri appannati e le persone accanto, in piedi, mi impedirono di osservarlo intanto che camminava. Mi rimase il dubbio, forse era lui, potevo approfittare ormai non c’era altro da fare.

Il postino era l’unico con il quale avevo un rapporto amichevole. La posta era l’occasione per considerare velocemente avvenimenti politici, di attualità, di cronaca.

Come a volte capita tra conoscenti, non eravamo sempre d’accordo, ma la cordialità rimaneva alla base di tutto.

Non avevo mai pensato che lui mi potesse dare delle informazioni riguardanti la persona o le persone che mi abitavano vicine.

Chi meglio di un portalettere conosce titoli e relativi indirizzi degli abitanti di una via? Bastava chiedere e avrei saputo tutto quello che mi interessava con estrema facilità.

Per alcuni giorni non lo vidi, poi arrivò una lettera e, intanto che me la porgeva, gli chiesi notizie del mio vicino.

 «A quell’interno – rispose – non arriva mai corrispondenza perché spopolato. Alcuni anni fa, era occupato da uno strano individuo, eccentrico, si definiva poeta. Dalla sua morte, nessuno è vissuto in quella casa, forse non è stato mai toccato alcun oggetto da quando lui non c’è più. Si racconta che l’hanno trovato morto, seduto su una sedia in mezzo ad una stanza, con in mano il quaderno delle poesie e le luci accese. Non era vecchio, vestiva sempre di scuro, aveva i capelli neri, lisci, sempre lucidi, una corporatura robusta, piuttosto basso di statura».

Rimasi turbato, com’era possibile che in quel cortile non abitasse nessuno da tanto tempo? E poi quell’uomo, quella porta che si chiudeva, le voci tratte da A porte chiuse, il vento che sbatteva all’imposta, le parole, il temporale.

Non feci commenti, era inutile spiegare, non sarei stato creduto, ringraziai e salutai il mio informatore.

Pierre Schaeffer

La notte la trascorsi interamente a pensare a quello che avevo visto e sentito, non potevano essere allucinazioni, le apparenze dei Sensi e dei Cenci di Antonin Artaud, non ero pazzo.

Passai alcuni giorni ad ascoltare attentamente i rumori esterni, cercavo di capire la loro provenienza; il silenzio regnava in quella casa, la sensazione di tombalità riempiva qualsiasi spazio.

Ormai mi ero rassegnato, al di là del muro non c’era nessuno a cui poter dire buongiorno, le mie ricerche terminarono. Quel cortile sicuramente era sporco, pieno di foglie morte, cadute lì per caso, ingiallite, putrefatte, seccate dal sole, frantumate in piccoli pezzi che il vento avrebbe portato lontano. Pensavo ai rami delle piante, se c’erano, ormai secchi, legnosi, privi di vita, alle imposte sporcate, imbrattate di pioggia diventata fango, ai ragni che indisturbati tessono le loro tele, testimoni, sempre presenti dell’abbandono, dell’incuria, della rinuncia.

Sentivo intatte le mie facoltà mentali, la mia memoria, il mio tenore di attenzione e di osservazione, quella porta l’avevo vista chiudersi, qualcuno l’aveva aperta prima; quelle recitazioni le avevo sentite; qualcuno aveva messo un registratore a bobine su un piatto e acceso un amplificatore; il vento aveva sbattuto un’imposta lasciata aperta, qualcuno l’aveva chiusa; due persone avevano dialogato, poi avevano smesso.

Non avevo sognato, era realtà vissuta, negata da un’indiscutibile condizione. Forse il desiderio del rapporto, della conoscenza; la necessità di esorcizzare la solitudine, piaga dell’umano destino, dove viene negato il dare e l’irrinunciabile avere, mi avevano indotto, inconsciamente, a vedere, sentire ciò che non era.

È molto difficile conoscere completamente se stessi, entrare nel profondo abisso dell’anima e scavare dentro, la ricerca della verità, di quel che non sappiamo e ci portiamo dentro, di quello che ci induce ad agire anche senza il nostro consenso, a capire.

Era un giorno di festa, non ricordo per quale ricorrenza; guardavo il cortile, il gelsomino dava i primi segni di un lento risveglio, un uccellino si posò su un ramo ancora assopito, mi osservò muovendo la testa, riprese il volo nella sua completa libertà.

Il sole continuava, con la sua luce, a mantenere la vita sulla terra, domani chi può dirlo …

Il campanello suonò tre volte, andai ad aprire, era un uomo sui 40 anni, di carnagione olivastra, il volto simpatico, vestito di scuro, tarchiato, non alto di statura, con i capelli neri, lisci, lucidi; mi disse: «Buongiorno, mi chiamo Marcel Duchamp, sono il nuovo inquilino dell’appartamento vicino al suo, abbiamo confinanti i cortili, sentivo il dovere di presentarmi, farmi conoscere, per un futuro buon vicinato. L’esistenza è stata sempre un problema. Nulla di nuovo in questa asserzione, se non una più matura coscienza delle persone d’oggi intorno a tale problema. L’Ottocento si era concluso felicemente nella sintesi hegeliana di filosofia e storia; la crisi degli anni che riviviamo ha portato alla lacerazione dei due momenti: La confusione è nata dalla mancata fusione di razionale e reale. La diversa direttiva ideologica ha portato all’annullamento della logica tradizionale e il mondo del pensiero, dell’attesa dell’Altro, si può dire, cerchi ancora dopo Hegel una logica più adatta al nostro inquieto tempo. Ci sembra a questo punto intuizione presaga del futuro quella di Marx che osservava “il filosofo ha finora contemplato il mondo, ora occorre trasformarlo”. Ma gli oppositori di Marx hanno confuso la sua filosofia per una forma di economia politica e hanno bistrattato il suo pensiero riducendolo a semplice ideologia. Il pensiero contemporaneo, in linea di massima ha fatto lo sforzo di eliminare dalla sua indagine l’astratto, ma guadagnando il concreto si è trovato come disorientato dinanzi ad una Porta Stretta».

Gli strinsi la mano: «lieto di fare la sua conoscenza e cominciai a rovistare nel nuovo testo teatrale, benchè il capitolo precedente abbia in parte introdotto al discorso che seguirà. Non sarà forse inutile qualche precisazione preliminare su un titolo e un volto che può prestarsi ad equivoci. Può suggerire l’idea di una apertura letteraria sulla letteratura, in realtà, nonostante una certa apparente ridondanza, il volto scoperto vuol corrispondere, parola per parola, a precisi referenti testuali sui quali mi baso per suggerire qualche spunto, per possibili ipotesi di ingressi; la formula iniziale (a sprazzi e ad istanti) è una citazione da Gide; l’opposizione luce/oscurità, porta chiusa/porta aperta – che segue – si riferisce a nuclei lessicali e tematici che mi sembrano dotati di particolare significanza nel complesso di quel mistero, nella sintesi di quell’infernet. E poi, stabilire i rapporti tra filosofia e storia è ora più difficile. Così si giustifica il sorgere di nuovi termini e di nuovi sguardi verso la Porta Stretta». Lo sguardo perentorio sulla Porta Stretta ha fatto il bilancio del pensiero contemporaneo, guardando gli interrogativi esistenziali e pertanto umani della crisi di quella stessa chiusura, ha scorto dietro le differenze che dividono le varie osservazioni e i vari osservati, un’unica macchina fotografica che riprende, riprende a iosa. Ha visto il positivismo generarsi da un capovolgimento dell’idealismo, ma ha riconosciuto l’inadeguatezza di tale pensiero e di tale sguardo. Tutto il pensiero di Husserl è un richiamo alla scoperta della Porta stretta: 

«Come la scienza oggi ha detto no alla geometria euclidea, la filosofia ha mosso più contro che in continuità del passato ed ha accettato il rischio della dispersione e del pericolo, priva di certi sostegni. Così le persone hanno accettato, di conseguenza, il rischio della libertà. Salute, O Porte, O Porte Chiuse, O Forza vindice de La Porta Chiusa!

 – Gide!

“Si un vecchio amico che aveva in odio i dogmi e la greeniana rassegnazione: almeno fino a quando non si incapriccio delle cosce di una hostess: E là nella nicchia, vede? C’è la sua stessa Porte étroite: l’originale, perché quello che la gente ammira alla National Gallery di Londra è soltanto una copia”

– Se i patti con le Porte Chiuse vengono ancora sanciti con la consegna di un oggetto, qual è oggi il più diffuso degli oggetti fra le Porte?

Il “telecomando tra le porte di Rue Larrey 11”.

– Raccontando i patteggiamenti dell’ingegnere del tempo perduto con loro, Marcel Duchamp procurò fama e immortalità soprattutto a se stesso. E’ azzardato pensare che sia stato proprio lui a evocarla in quel cerchio ermetico per assicurarsi un capolavoro?

“Duchamp era un pozzo di inconsapevolezza, di dadaismo in ogni campo, e non ne aveva certo bisogno. Ma siccome era anche un buon scacchista …”.

– Una operazione del genere sarebbe ancora possibile?

“Ne dubito. Gli artisti e gli scrittori che un tempo erano pronti a baciare le sculture di Piero Manzoni – quello di turno addetto alla replica, perché io non mi sarei mai prestato – e a vendergli l’anima in cambio del trionfo letterario, sono praticamente scomparsi. E poi il capolavoro ormai è considerato un opitional: oggi l’importante non essere letti ma venduti.

– Lo scrittore della Porte Etroite, in arte Gide, pur mostrando di non essere insensibile al suo fascino, ha scritto: Il mio ingegnere, in cambio dell’opera immortale, chiede, esige che l’artista dica no. Lei cosa ne pensa?

“Boh. Mi sembra un’ottima scusa per non scrivere dei capolavori”.

– Un industriale di Rue Port Larrey afflitto dal complesso duchampiano ha pagato un miliardo e mezzo a una maga in cambio dell’eterno dadaismo. Ma poi ci ha ripensato, non ha consumato il rituale previsto, e adesso pretende riavere il proprio denaro. A chi darebbe ragione?

“I patti vanno sempre rispettati, anche se a sottoscriverli sono due imbecilli”.

– L’irrefrenabile dilagare di pseudo-performer, imbonitori del relazionismo, post-dadaisti e post-situazionisti è un fenomeno pilotato o spontaneo?

“È solo un fenomeno di illecita concorrenza: prezzi stracciati ma garanzia nessuna”.

– Oggetti di design però rendono bene. Un principe dell’occulto, il mago della Porta accanto, prima di essere denunciato per stupro da un lontano parente e di evasione fiscale dalla Finanza, viveva come un nababbo: ville sfarzose, stuoli di segretarie e di domestici, auto di lusso. Non è poco.

“E se prometterà a qualche giudice di liberarlo dal malocchio tornerà sicuramente a casa in Rolls Royce”. Libertà fu dai più intesa come diritto, la Persona della Porta Chiusa ci offre una nuova altruistica interpretazione. Libertà come dovere, come dono di sé agli altri, come interiore coerenza e fedeltà. Con ciò egli ci indica una via al cui sbocco, non solo l’osservazione si rinnova ma le persone stesse nel loro anelito creativo. Leggendo gli esistenzialisti e i loro critici abbiamo sentito parole amare e parole di speranza. Un critico severo – Lukacs – ha identificato la crisi dello sguardo esistenziale con la crisi della borghesia occidentale, che si traduce nell’Imperialismo, nel Nuovo Colonialismo, Nel Nuovo Percorso del Caos e di Infernet. Ovvero, la follia distruggitrice. Sarebbe il decadimento di certa umanità che si avvia all’auto-annientamento. Gli osservatori della crisi hanno, invece, portato nell’insistenza dell’Osservatorio delle Porte Chiuse la loro esperienza umana mascherata, trasfigurata in pensiero della stasi impegnata. Troppo seria è l’avventura umana di noi esseri viventi perché cessi in ogni momento l’impegno, la lotta alla stasi. Importante, mi sembra, trasformare il dolore in attesa perenne, il colloquio e la tensione alla nuova cosmica stasi».