Il teschio che ride. Colloquio con Dario Orphée La Mendola (Parte III)

Questa non è un’intervista con intervistatore e intervistato ma un libero, orizzontale scambio di vedute con Dario Orphée La Mendola, nato in occasione di Cenere, mostra itinerante sua e di Momò Calascibetta di cui sono stato il curatore, dedicata ai protagonisti del sistema dell’arte in salsa sicula. Una mostra satirica e perciò, come rivelano gli argomenti che abbiamo avuto la presunzione di trattare, decisamente seria.

Andrea: Sinché è in vita, è dovere dell’interprete mettere fiato sul collo all’autore. Non commetterò l’imprudenza di chiederti il perché di Cenere – chi lo facesse, oltre a qualificarsi “impotente spiritualmente e dal cervello ormai definitivamente mangiucchiato dalla logica occidentale”, riceverebbe in risposta “una tenera carezza al profumo di gelsomino”, come hai dichiarato. Vorrei però sapere se ritieni che il suo intento sia stato, almeno in parte, afferrato.

Dario: Sinora la più bella reazione è stata sussurrata da una deliziosa visitatrice ottantenne, la quale di fronte le opere ha detto: “Pari veru, ah?”. In questo stupore è raccolto il senso del nostro sforzo (e tutta la vita che Cenere, a modo suo, contiene). 
Tutto si è svolto secondo copione. Inizialmente avremmo voluto battezzare la mostra Silentium. Poi abbiamo optato per Cenere
Tante sono le ragioni, ma questa è la principale: eravamo consapevoli che il Silentium sarebbe stata la risposta dei burocritici nostrani. 

Andrea: Il silenzio è d’oro!

Dario: Sì, come una maschera mortuaria. A una settimana dalla inaugurazione della prima tappa, nessun burocritico aveva scritto qualcosa: recensione (sempre che sappia cosa significa) o stroncatura (semmai sia in grado di articolarla). 
Eppure il burocritico non dovrebbe lasciarsi sfuggire niente, perché trai suoi compiti non c’è il compilare burocraticamente prestampati da inserire in riviste pubblicitarie, bensì occuparsi dei fenomeni di questa strana esistenza, affinché la storia non passi distorta, cioè narrata da altri.

Andrea: E dagli artisti, invece, che reazioni?

Dario: Riguardo all’esercito di artristi, quelli arruolati dal sogno di avere successo, o diventare eterni, nulla. 
Alla mostra, oltre alla piacevole presenza di cari amici, giunti anche per supporto, le loro ombre non si sono manifestate. 
Eppure anche l’artrista dovrebbe occuparsi di tutto, perché tra i suoi compiti non c’è il piagnucolare al proprio studiolo, bensì vivere di curiosità, fondare un nuovo e più funzionale linguaggio attraverso la conoscenza di quello degli altri. 

Andrea: Capisco. È lontano il tempo dei movimenti, delle opere comuni, dei pittori che si illudono, dialogando, di progettare il futuro. Presi dalla contemplazione del proprio ombelico, questi malati terminali di artrosi creativa ignorano praticamente tutto il resto. Anzi, con la petulanza di chi nel proprio ambito crede di essere perfetto, ognuno prende posizione nei confronti dei colleghi da primitivo ignorantissimo, o si limita a eseguire la consegna del silenzio.

Dario: Questa rassegna a me pare una sorta di “termometro”. Sono sicuro che misurando la temperatura della critica e dell’arte, oggi più che mai, il mercurio indicherebbe una gradazione sotto lo zero. E non sono contento. Perché il nostro termometro non si usa sotto l’ascella o in bocca. Vabbè, hai capito.

Andrea: Sei troppo duro! Ti aspetteresti di incontrare una folla di medici al capezzale dell’arte e trovi solo infermieri, abituati a ripetere, automaticamente, i medesimi gesti. L’abitudine, e la sclerosi che ad essa si accompagna, è forse l’avversario più coriaceo. 

Dario: Molto più comodo servirsi di una mappa precompilata.

Andrea: Se l’alternativa è avventurarsi per le trazzere siciliane, non c’è dubbio. 
Ma il bello è proprio questo: il nostro territorio, come ha scritto il caro Andrea Camilleri, “è ricco di fiumi carsici, di fonti d’acqua ora potabile ora amara nascoste da folte vegetazioni, da limpidi o limacciosi laghetti resi invisibili da particolari conformazioni del terreno”. 

Dario: La mostra è siciliana perché la Sicilia è l’unica terra che conosciamo; il resto è come il bordo della pizza. 

Andrea: C’è in effetti un abisso tra Cenere e il caravanserraglio delle mostre itineranti, o di certe presunte “esposizioni universali”. 

Dario: E quale sarebbe?

Andrea: Mentre sovente quegli eventi mediatici sono fuochi di paglia – tempo fa, il direttore di un’importante rivista d’arte incontrato a Palermo confidava a Momò che “Manifesta” vale sì la pena visitarla, ma per le splendide location: le personali sono la solita solfa – ogni qual volta noi, sudati e impolverati, raggiungiamo una sala di provincia per istallare i sepolcri, sappiamo che i dipinti non passeranno inosservati. Intanto perché non c’è concorrenza. Poi, ed è la ragione trainante, perché il loro linguaggio non è la neolingua di Orwell, ma la parlata vivace e dai colori squillanti dei carretti siciliani. 

Dario: Ma bravo il curatore di sagre! Quasi quasi preferisco i burocritici nostrani [ride].

Andrea: Non dico che occorra essere siciliani per comprenderla; dico solo che l’omogeneità, l’appartenenza alla medesima cultura – che, non dimentichiamolo, è tutt’altro che isolata: la Sicilia è da sempre serra calda di innesti micidiali – fa sì che il pubblico non percepisca la mostra come un ufo: anche il più scemo ci capisce qualcosa.

Dario: Forse non ti sbagli. Fuori dalla Sicilia Cenere sarebbe stata bella, ma impossibile. 
Qui la mostra ha senso, perché la Sicilia non ha senso. 

Andrea: Chissà. Certo è che mai come in questa avventura la Sicilia col suo cibo, i suoi abiti, i suoi riti si rivela centro e immagine del cosmo: è lei, colta nei tratti distintivi, ed è, al tempo stesso, tutto il resto
Simili a carta moschicida, i dipinti di Momò e le tue pagine accolgono visioni universali. 
Ad esempio, come sulle fiancate dei carretti si narra di Rinaldo e Armida, sulle lapidi dei loculi si ritrovano personaggi dei cartoni. 
Sono storie di tutti e sono nostre, poeticamente tradotte in uno splendido dialetto.

Dario: Che posso farci? La mia lingua e i miei personaggi provengono da vicende contadine. La mia mente è nata lì, non in salotto. 

Andrea: Torniamo agli “artristi”. E non parlo degli ospiti mancati. Nel tuo racconto ne hai evocati tantissimi, mentre Momò non li ha degnati neppure di uno sguardo. 

Dario: Gli artristri non possono entrare nel cimitero di Cenere perché non contano un bel niente. 
Che ce ne facciamo di gente che ha sempre leccato il sedere, in un sacrario di memorie? Piuttosto sarei curioso di sapere come l’ha presa qualche cadavere squisito… 

Andrea: E come vuoi l’abbiano presa? Alcuni bene, altri male. Dipende dall’intelligenza e dall’autostima dei singoli: qualità che, come il coraggio, non è dato improvvisare. 

Dario: Scommetto che, adesso, a qualcuno stanno fischiando le orecchie.

Andrea: E va bene. Andrea Bartoli si è divertito tantissimo, a dispetto di un dipinto non proprio elogiativo. 
Momò lo ha presentato nelle vesti di un musicista da strapazzo, uno dei tanti che affollano la Vucciria, con alle spalle una scritta, “Momò ti ama”, che allude all’opera di un performer balzato all’onore delle cronache per aver lordato con vernice rosso sangue la Fontana del Garraffello. 
Andrea aveva sostenuto pubblicamente il lavoro di quell’artista, mentre Momò non fa mistero di avversarlo. 

Dario: Intendi dire che Momò esaltando condanna e condannando esalta?

Andrea: Proprio così! Da un lato ci dà l’impressione di essere il complice del soggetto – qui addirittura gli tributa incondizionato affetto –, dall’altro ne prende vigorosamente le distanze. Lo spettatore rimane nel mezzo. 
A differenza di quanto accade nelle vignette satiriche, che esauriscono la loro funzione nella demolizione del prescelto, qui l’autore non si schiera. 
Si limita a condurci alle soglie di un giudizio che – magari dopo esserci ben documentati – spetta a noi. 

Dario: Per quanto concerne il mio racconto, è la vita e basta, come l’avrebbe scritta la morte. 
Furfettino è chiunque non sopportiamo, come il vicino rumoroso o l’insolente che ci soffia il posto auto. 
Ce ne sono milioni di questi tipi, no? Sempre in agguato. 
E il fatto che siano infiniti li rende più reali del reale.

Andrea: Tu ti occupi dei vivi, degli scemi del villaggio. Momò ha scelto invece di occuparsi dei defunti: la morte reclama un poco di rispetto. E poi, siamo certi che questa gente esista (o sia esistita) veramente?

Dario: Sì, mi occupo dei vivi; ma, ripeto, è la morte che racconta. La storia non si conclude con un suicidio, bensì inizia con la voce di un defunto. Ma non possiamo parlare di fiori? I signori dell’arte ce lo permetteranno?

Andrea: Ripensandoci, se il signore dell’arte diviene oggetto dell’arte, è ipso facto esistente e – ciò che più conta – si insinua nell’immagine commissionata. Così facendo, in quanto immagine, perde l’ultima occasione di inquietarci. L’incubo termina, noi ci svegliamo ed egli perisce ma, nonostante l’immagine lo abbia bell’e imbalsamato, rimane lì, a ricordarci che noi esistiamo perché lui lo vuole. 
Per dirla metaforicamente, il signore dell’arte che tratta tutti con sufficienza e che, come tu stesso hai scritto, è la quintessenza del potere, del sesso e del denaro, è simile a una crozza: ceduta la sua pelle, non fa che ridere di gusto. 
A lui dobbiamo tutto, perché spogliandosi ci crea. E, soggiogati dalle sue risate, salmodiamo in eterno le sue lodi. 

Dario: Che strana giornata. Stanotte non dormirò. 

Dario pronunciò queste ultime parole con la voce arrochita di chi si è appena alzato. Non ebbe neanche il tempo di finirle che un riso incontenibile si impossessò della sua bocca e di quella di Andrea, sino a un istante prima sproloquiante neanche fosse ubriaco. Si dice che, il giorno dopo, un burocritico li abbia trovati ancora in piedi ma stecchiti, con le vesti strappate e le mascelle sganasciate. Per uno strano accidente, uguale sorte toccò a Momò Calascibetta, stroncato da un colpo apoplettico alla vista di un suo loculo, lordato con un getto di vernice da un artrista esagitato. Riposano al putridero di Burgio, a rammentarci in eterno le magnifiche sorti e progressive degli amici del sistema. 

Non fiori ma Silentium, e arte commerciale. 

FINE